L’improvvisa richiesta dei canoni arretrati dopo un lungo periodo di inerzia costituisce abuso del diritto Cass. Civ., Sez. III, 14/06/2021, n. 16743

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CASS. CIV., SEZ. III, 14/06/2021, N. 16743

«La buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del “neminem laedere”, ma trova tuttavia il suo limite precipuo nella misura in cui detto comportamento non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico, una volta comparato con la gravosità imposta sull’altro contraente.

Il mero ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare dello stesso, ma non tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che risulti – accertamento riservato ovviamente al giudice di merito- che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di un’inequivoca e circostanziata rinuncia tacita o di modifica della disciplina contrattuale

Pertanto, indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto o dal decorso del termine di prescrizione del medesimo, il repentino esercizio del diritto, dopo una situazione di durevole inerzia non altrimenti giustificata, può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione.

In tema di locazione di immobili ad uso abitativo, integra abuso del diritto la condotta del locatore, il quale, dopo aver manifestato assoluta inerzia, per un periodo di tempo assai considerevole in relazione alla durata del contratto, rispetto alla facoltà di escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del canone dovutogli, così ingenerando nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito “per facta concludentia”, formuli un’improvvisa richiesta di integrale pagamento del corrispettivo maturato» (Massima non ufficiale)

SVOLGIMENTO IN FATTO

La società [Omissis] S.r.l. ricorre per cassazione unitamente a [Omissis] avverso la sentenza n. [Omissis] della Corte d’appello di [Omissis], depositata il [Omissis], con la quale, in accoglimento parziale dell’appello, l’impugnante [Omissis] (ex socio della società e figlio di [Omissis]) è stato condannato a pagare alla società [Omissis] s.r.l. la minor somma di Euro 63.375,00 per canoni di locazione e di Euro 19.125,00 per spese e oneri, oltre interessi legali, riducendo in parte la richiesta della società locatrice e respingendo, per il resto, gli ulteriori motivi di appello riferiti alle domande proposte da [Omissis] nei confronti di [Omissis]. Il ricorso della società [Omissis] S.r.l. è affidato a cinque motivi, mentre quello di [Omissis] è affidato a un motivo, illustrati da successiva memoria. [Omissis] resiste con controricorso notificato e propone ricorso incidentale, affidato a due motivi, illustrato da memoria. La società [Omissis] ha notificato controricorso in risposta al ricorso incidentale.

Per quanto interessa in questo giudizio, la società ricorrente ha agito in via monitoria per il recupero del credito per canoni di locazione scaduti e non pagati dal conduttore [Omissis], figlio di [Omissis], in relazione a un immobile ad uso abitativo sito in [Omissis], il tutto per la somma complessiva di Euro 242.413,28 a titolo di canoni di locazione, maturati dal 2004 a fine 2013, e spese. Nell’opporsi al pagamento il conduttore ha agito in via riconvenzionale per far valere la natura gratuita del contratto anche nei confronti del padre [Omissis], in ragione della asserita violazione del patto con cui questi avrebbe dovuto consentire il godimento gratuito dell’abitazione al figlio, acquisito dopo il frazionamento dell’immobile familiare avvenuto in seguito alla morte della madre, [Omissis], chiedendo in subordine il risarcimento dei danni.

Il Tribunale ha accolto la richiesta della società limitatamente alla somma di Euro 222.322,10, a titolo di canoni di locazione scaduti e mai versati e di spese, queste ultime maturate dal 2009 a fine 2013, respingendo la domanda di risarcimento svolta dal figlio [Omissis] nei confronti del padre [Omissis].

In seguito all’impugnazione di [Omissis], la Corte d’appello di [Omissis], dopo aver esperito un infruttuoso tentativo di conciliazione, ha rilevato che per il contratto di locazione, formalizzato nel 2004 tra la società di famiglia [Omissis] s.r.l. e [Omissis], anch’esso divenuto all’epoca socio per successione nella quota materna, non vi era stata mai da parte della società locatrice richiesta del pagamento del canone trimestrale pattuito e delle spese, se non in seguito al divorzio intervenuto tra [Omissis] e la moglie, avvenuto il 30 maggio 2007, che aveva dato luogo all’assegnazione della casa coniugale alla ex moglie; in seguito al divorzio, la società inviava una lettera di diniego di rinnovazione della locazione alla scadenza del 31.12.2011, seguita da uno sfratto per morosità intimato nei confronti di [Omissis] nell’ottobre 2011, mai però iscritto a ruolo. La presente controversia veniva instaurata nel 2014.

La vicenda, invero, si inserisce in un contesto familiare e societario in cui [Omissis], dopo il divorzio dalla moglie, ha perso la disponibilità sia dell’appartamento di proprietà della società di famiglia che delle quote sociali, queste ultime perché fatte oggetto di procedura di esproprio da parte della ex moglie, per mancato pagamento degli alimenti; detta quota sociale, poi, è stata acquisita nel 2014 dalla nuova coniuge del padre [Omissis], la quale si era insinuata nella procedura esecutiva avviata dalla ex moglie del figlio [Omissis]. Il padre [Omissis] ha dedotto, tra le altre cose, di aver dovuto far fronte a molti debiti del figlio collegati alla gestione di altre società di famiglia e di non dovere alcunché al figlio in forza del rapporto di locazione instaurato con la società.

La Corte di merito, nel decidere sulla richiesta di pagamento dei canoni, formulata nel 2014, ha ritenuto: a) efficace il contratto di locazione, e comunque a struttura onerosa, ritenendo superflue le prove per testi richieste, perché inconferenti allo scopo di provare un diverso contratto; b) irrilevanti ai fini probatori i mastri contabili della società, aventi ad oggetto il presunto “finanziamento” soci alla società, dal quale – in tesi – si sarebbe dovuto evincere il pagamento dei canoni da parte del padre per conto del figlio, entrambi soci della società; c) rilevante ai fini probatori la voce contabile “pagamento degli affitti”, che conduce ad escludere che si fosse instaurato un contratto a struttura gratuita; d) nondimeno (non irrilevante la circostanza che nel corso del rapporto fosse stata per lungo tempo omessa ogni richiesta di pagamento del corrispettivo per numerosi anni, vale a dire dalla stipulazione del contratto nel 2004 sino al 29 giugno 2011 (data della prima richiesta connessa allo sfratto per morosità), in ciò richiamando il principio di buona fede nell’esecuzione dei contratti che si ricollega a un generale dovere di solidarietà, che impone alle parti di comportarsi appunto in buona fede in modo da preservare l’interesse dell’altro contraente, a prescindere da pacifici obblighi contrattuali e del rispetto del principio del neminem laedere. Pertanto, facendo riferimento ad approdi giurisprudenziali che si fondano sulla tutela dell’affidamento ingenerato nella controparte, la Corte di merito ha ritenuto non dovuti i canoni maturati se non dalla data della prima richiesta di pagamento, operata nel luglio 2011, sino al rilascio dell’immobile, nel dicembre 2013, pari a 10 rate trimestrali, oltre il rimborso delle spese nella misura pattuita in contratto; mentre ha respinto per il resto le richieste di pagamento. Del pari, ha respinto la pretesa risarcitoria dell’appellante nei confronti del padre, non essendo risultato alcun obbligo assunto nei confronti del figlio. Ha compensato per 2/3 le spese tra la società [Omissis] e [Omissis], ponendone a carico dell’impugnante la restante parte per entrambi i gradi di giudizio; ha compensate le spese tra [Omissis] e [Omissis] per entrambi i gradi di giudizio.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Primo motivo: si deduce la violazione o falsa applicazione dell’articolo 113 c.p.c., comma 1, e degli articoli 1345 e 1418 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3, e all’articolo 101 Cost., e all’articolo 1218 c.c.; nonché violazione e falsa applicazione del Capo IV, Libro IV, Titolo I c.c., e altresì dell’articolo 1277 c.c., della L. n. 392 del 1978, articolo 5, nonché dell’articolo 1571 c.c., articolo 1587 c.c., n. 2. In sostanza si assume che la Corte d’appello abbia erroneamente fatto riferimento a vicende personali tra padre e figlio, quali il fatto che il figlio si fosse allontanato dal padre e poi avesse inutilmente tentato una riconciliazione, nonché altri eventi familiari che non potrebbero avere alcuna incidenza nei confronti della società, dotata di autonoma soggettività giuridica, posto che il presente giudizio verte in merito ai rapporti di credito/debito tra due soli soggetti in forza di un contratto di locazione.

Secondo motivo: si deduce la violazione e falsa applicazione dell’articolo 113 c.p.c., articolo 1218 c.c., libro IV titolo I del codice civile e della L. n. 392 del 1978, articolo 1277, n. 5, articolo 1571 c.c., articolo 1587 c.c., n. 2, e, in relazione all’articolo 2943 c.c., (e articolo 1219 c.c.) e articolo 2948 c.c., n. 3, ed altresì in relazione all’articolo 1375 c.c., articolo 2 Cost., ex articolo 360 c.p.c., n. 3; la violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’articolo 115 c.p.c., comma 1. In particolare si deduce che non vi sia stata alcuna violazione del dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto, come indicato a pagina 10 e 11 della motivazione della sentenza impugnata, così come irrilevanti sarebbero i motivi nell’ambito contrattuale e il principio della Verwirkung elaborato dalla dottrina tedesca, di cui avrebbe fatto applicazione la Corte di merito richiamando alcuni precedenti non idonei a regolare il caso di specie.

Terzo motivo: si deduce la violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’articolo 113 c.p.c., nonché la violazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’articolo 115 c.p.c., comma 1, nella parte in cui la Corte di merito ha ritenuto che il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 23382 del 15 ottobre 2013 si attagli al caso di specie, in quanto vi sarebbero le prove che, anni prima dell’avvio della causa – il 28/10/2011 -, fosse stato notificato dalla società un atto di sfratto per morosità, e tale circostanza era stata tenuta in debita considerazione dal Tribunale di [Omissis] ai fini della concessione della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo, in ragione della quale il giudice aveva ritenuto che gli atti di sfratto per morosità fossero idonei a interrompere la prescrizione del credito sin dal luglio 2006, avuto riguardo alla disciplina della prescrizione di cui all’articolo 2948 c.c., comma 3.

Quarto motivo: si denuncia il vizio di motivazione e la violazione di norme di diritto, articolo 2948 c.c., n. 3, nonché violazione e falsa applicazione dell’articolo 113 c.p.c., e dell’articolo 2943 c.c., ex articolo 360 c.p.c., n. 3, là dove la Corte avrebbe tenuto conto solamente dei canoni scaduti a decorrere dal luglio 2011, in violazione delle norme sulla prescrizione, posto che quest’ultima si realizza in cinque anni per le pigioni delle case, i siti dei beni rustici e ogni altro corrispettivo di locazione, mentre non si sarebbero prescritti gli importi dovuti dal 2009 al 2011 per oneri condominiali, posto che la prescrizione è biennale.

Quinto motivo: si denuncia il vizio di motivazione carente e contraddittoria e violazione di norme di diritto in relazione all’articolo 91 c.p.c., con riguardo alla regolazione delle spese processuali in relazione alla compensazione per 1/3 delle spese del secondo grado fra la società creditrice e il debitore.

Primo motivo: relativamente alla sua posizione, [Omissis] denuncia “violazione e falsa applicazione articolo 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’articolo 113 c.p.c., comma 1, nonché articolo 91 c.p.c., comma 1”, nella parte in cui la Corte di merito, dopo avere respinto la domanda del figlio [Omissis] contro il padre [Omissis], ha disposto l’integrale compensazione delle spese del giudizio, “sia perché la domanda proposta contro il terzo chiamato non ha richiesto l’espletamento di rilevante attività processuale, sia e soprattutto in considerazione dei rapporti di parentela esistenti tra le parti, nonché delle vicende da cui ha avuto origine la presente controversia”. Si assume al contrario che, pur essendosi costituito, in quanto terzo chiamato, mediante lo stesso difensore della società opposta nel giudizio di opposizione instaurato dal figlio (che opponendosi al pagamento ingiunto ha agito in via riconvenzionale contro la società e il padre), l’attività processuale svolta sia stata rilevante e pari a quella della società, con riguardo sia all’istanza di inibitoria avanzata dal figlio in appello, sia al merito.

1. I motivi da uno a quattro, che riguardano direttamente la società, ai quali aderisce [Omissis] in quanto socio, vanno trattati congiuntamente, in quanto collegati alla medesima questione giuridica. Essi sono infondati, pur con le dovute precisazioni di seguito esposte.

2. Opponendosi al decreto ingiuntivo emesso a richiesta della società ricorrente per il pagamento dei canoni locatizi mai versati nel corso del rapporto, iniziato nel 2004, il conduttore [Omissis] ha invocato, agendo al riguardo anche in via riconvenzionale, un contratto dissimulato di comodato intervenuto nella società a responsabilità limitata, ovvero tra sé medesimo e il padre [Omissis], all’epoca entrambi soci della società, attraverso il quale quest’ultimo avrebbe consentito il godimento gratuito dell’abitazione in proprietà della società al figlio, sobbarcandosi ogni onere e spesa. Essendo stata disattesa nella sentenza di primo grado la prospettazione di [Omissis] intesa a far valere un negozio a titolo gratuito, quest’ultimo ha proposto appello, per chiedere – per quanto qui ancora rileva – l’accertamento della nullità o inefficacia, totale e parziale del contratto di locazione del 2.1.2004 per simulazione e comunque l’insussistenza e/o inesigibilità originaria o sopravvenuta del preteso credito, per comportamento non conforme a buona fede da parte della società, eventualmente mediante accertamento della intervenuta prescrizione del diritto a ottenere canoni e oneri reali mai in realtà richiesti dalla società.

3. Il giudice d’appello ha disatteso quanto prospettato in ordine alla rilevanza esterna di qualsiasi pattuizione tra padre e figlio in quanto soci, e pertanto la conseguente qualificazione del contratto fra la società e [Omissis] come comodato. La singolare protrazione della, per così dire, gratuità di fatto sottesa al godimento da parte di [Omissis] dell’immobile ha condotto, peraltro, la Corte territoriale a cercare un’altra qualificazione dagli effetti, in sostanza, equivalenti. In particolare, la Corte d’appello ha affermato (pp. 79 della sentenza) che sia da escludere che il debitore usufruisse dell’immobile con esenzione da ogni costo e spese, dando atto che prima della lettera inviata al 14 gennaio 2014, invero in data 30 giugno 2012, la società aveva inviato un atto di messa in mora al conduttore, e ancor prima un atto di citazione di sfratto per morosità, il 21 giugno 2011, cui non aveva dato più seguito. Ha dato invece rilievo alla inerzia del creditore relativamente al periodo pregresso che va dal 2004 sino al 2011, in ciò richiamando gli obblighi di buona fede contrattuale che trovano un limite soltanto nell’interesse proprio del soggetto che sia tenuto al compimento di tutti quegli atti necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico. Quindi, ha ritenuto che la protratta inerzia del creditore riguardo alla somma maturata di Euro 126.625,00 avrebbe concretizzato un comportamento di salvaguardia dell’interesse del debitore senza imporre un apprezzabile sacrificio a carico del creditore, mentre il debitore, a fronte dell’inaspettata richiesta di pagamento dell’importo sino ad allora maturato e mai richiesto dal creditore per circa sette anni, si sarebbe viceversa improvvisamente trovato a dover fronteggiare una richiesta di pagamento per una somma che con il trascorrere del tempo era divenuta esorbitante. Ragionando alla stregua del principio di buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c., da cui si evince l’obbligo di agire con ragionevole tempestività nella riscossione dei crediti periodici, ha ritenuto che si fosse creato un affidamento in capo al debitore in ordine all’abbandono della pretesa, affidamento che merita di essere tutelato (pagina 11 della sentenza impugnata).

4. Il percorso logico – giuridico seguito dalla Corte di merito nel dare rilievo al ritardo del creditore, per negare accoglimento alle sue pretese, è collegato alla clausola generale di buona fede che permea il rapporto contrattuale sin dall’origine, e finanche alla sua attuazione nel tempo, tale da giustificare la mancata corresponsione settennale dei canoni da parte del debitore e dare rilievo alla correlata posizione “passiva” della società locatrice “in ragione di un generale dovere di solidarietà che impone alle parti di comportarsi in modo da preservare l’interesse dell’altro contraente, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e anche al di là del rispetto del principio del neminem laedere” (p. 10 della sentenza).

5. Si è così dato accesso a una peculiare applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di durata, per giungere a qualificare quale obbligo della locatrice quello ricollegato al generale dovere di solidarietà che impone alla parte di preservare l’interesse dell’altra parte, a prescindere da pacifici obblighi contrattuali e anche al di là del principio del neminem laedere. In tal modo, la Corte territoriale ha sostanzialmente accolto la pretesa del conduttore di non essere vincolato da alcun obbligo di pagamento sino a una certa data, sull’assunto che l’obbligo di pagamento dei canoni trimestrali, entrato in una situazione di totale quiescenza, fosse “risorto” soltanto terminato il settennio, e quindi solo a decorrere dal luglio 2011, allorché la società locatrice ne aveva fatto per la prima volta formale richiesta, mentre per il pregresso periodo l’esercizio del diritto si sarebbe posto in violazione del legittimo affidamento ingeneratosi nel conduttore dell’abdicazione del diritto stesso da parte della società locatrice.

6. Quest’ultima ha proposto ricorso, come si è visto, rimarcando l’autonoma soggettività giuridica della società rispetto ai soci, e dunque l’irrilevanza delle vicende personali dei soci stessi (le vicende tra padre e figlio), soprattutto per censurare l’interpretazione dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto adottata dalla Corte territoriale, sull’assunto che l’obbligo di buona fede non potrebbe spingersi a imporre eccessivi sacrifici su di una parte, soprattutto quando si tratta di rapporti relativi alla gestione di beni e crediti inerenti a società commerciali dotate di piena autonomia patrimoniale. Dopo queste prime due censure, il ricorso si è poi spostato sul profilo della prescrizione (terzo e quarto motivo).

7. É chiaro che mediante le suddette censure è stata presentata al giudice di legittimità, come oggetto di primaria verifica, la qualificazione giuridica del fatto rappresentato dalla mancata esecuzione, sin dal suo insorgere e per un lungo periodo di tempo, del contratto locatizio che è stata adottata dal giudice d’appello. Non si è dinanzi, ictu oculi, ad una ricostruzione fattuale – che in questa sede sarebbe inammissibile sottoporre al vaglio -, essendo pacifico quanto avvenuto; sotto questo aspetto non rileva neanche l’ulteriore profilo della prescrizione, agitata nel terzo e nel quarto motivo, perché, in una graduale via logica, essa si pone quale questione successiva a quella inerente alla assunta non corrispondenza a buona fede dell’esercizio del diritto così distanziato nel tempo rispetto a quando il diritto si era configurato. In riferimento alla fattispecie in questione, pertanto, la qualificazione giuridica del comportamento non esecutivo del diritto deve, in effetti, operarsi allo scopo di realizzare la sua sussunzione nella corretta norma regolatrice.

8. La censura di erronea sussunzione del fatto – dopo averlo giudicato come esistente, ovvero avere compiuto il relativo accertamento di merito, non direttamente censurabile, si ripete, dinanzi al giudice di legittimità – alla norma, nel senso di evincere dalla norma stessa conseguenze giuridiche che contraddicono la sua pur corretta interpretazione o, ancor più a priori, nel senso di ricondurre la fattispecie concreta giudicata ad una norma non pertinente perché relativa ad una fattispecie astratta diversa e quindi non idonea a regolarla, integra il vizio di falsa applicazione di legge denunciabile ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio di violazione di legge essendo circoscritto alla identificazione e alla interpretazione della norma da ritenere regolatrice del caso concreto effettuate in modo erroneo (ex plurimis, quali esempi tra i più recenti arresti massimati, v. Cass. sez. 5, 25 settembre 2019 n. 23851 – per cui, appunto, il vizio denunciabile mediante l’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 “ricomprende tanto quello di violazione di legge, ossia l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una previsione normativa, implicante un problema interpretativo della stessa, quanto quello di falsa applicazione della legge, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione” -, Cass. sez. 1, ord. 14 gennaio 2019 n. 640 – che rimarca come il vizio di violazione di legge “investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione a essa di un contenuto” in realtà non sussistente, mentre il vizio di falsa applicazione di legge consiste “nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice”, perché la fattispecie astratta in essa prevista, pur rettamente individuata e interpretata, non è idonea a regolarla, o anche nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicono la pur corretta sua interpretazione – e la conforme Cass. sez. 3, ord. 30 aprile 2018 n. 10320 -).

9. Pertanto, la fattispecie da inquadrare giuridicamente è la persistente e costante omissione di pagamento del canone da parte del debitore e la correlata costante omissione di richiesta del pagamento da parte della locatrice, società a responsabilità limitata a struttura marcatamente personale e familiare, seguita – appunto dopo una persistenza annosa – dalla repentina richiesta “in blocco”, cioè di immediato pagamento di tutto l’arretrato determinatosi, allorché le situazioni interne e familiari tra i soci sono mutate e divenute conflittuali. La Corte di merito, come si è visto, ha visto il comportamento di protratta inerzia del creditore, in effetti, qualificarsi, come un comportamento che, in un esteso arco temporale e fino a che i rapporti non sono mutati, ha ingenerato un oggettivamente corretto affidamento nel debitore di non dovere alcunché; sicché la repentina richiesta

di adempimento risulta un venir meno all’affidamento derivato dall’abdicazione del diritto, comportando un sacrificio eccessivo per il debitore sino ad allora non escusso, e ciò in ragione dei rapporti sottostanti tra le parti, evidentemente collegati ad assetti sociali e familiari che sono mutati nel tempo, fino a infrangersi definitivamente.

10. Tanto premesso, rileva osservare che il giudice d’appello ha considerato la “inerzia” del creditore, per il periodo dal 2004 al 2011, come adempimento dell’obbligo di buona fede contrattuale nel senso di tutela dell’interesse della controparte a non vedersi colpita da una pretesa divenuta, nel frattempo, esorbitante. Raggiunta una certa dimensione temporale nella protrazione del mancato esercizio del diritto, tale da “stabilizzare” il relativo affidamento, in effetti – a ben guardare – l’interesse della controparte che verrebbe così tutelato non coincide con l’interesse a non adempiere nonostante il diritto non si sia estinto per prescrizione o non sia stato rinunciato, bensì l’interesse a vedersi salvaguardata in una situazione in cui l’esercizio del diritto urti contro sue legittime aspettative collegate al comportamento di inerzia sin lì assunto dal creditore, “non risultando per quale ragione la locatrice, dopo avere trascurato per anni i propri crediti, di scadenza in scadenza, abbia agito chiedendo il pagamento dell’intero scaduto, maturato in sette anni, rendendo oltre modo gravoso l’adempimento del conduttore” (sentenza p. 10).

11. Nel decidere, la Corte di merito ha fatto menzione di un precedente giurisprudenziale, riferito alla sentenza n. 5240/2004 di questa Corte, per mezzo della quale il giudice di legittimità ha chiarito che la teoria, di origine tedesca, della Verwirkung (consumazione dell’azione processuale) non trova facile ingresso nell’ordinamento italiano, per il quale il mero ritardo nell’esercizio di un diritto non costituisce motivo per negarne la tutela, a meno che tale ritardo non sia la conseguenza fattuale di una inequivoca rinuncia tacita o modifica della disciplina contrattuale o non sia sollevata l’eccezione di estinzione del diritto per prescrizione; tale principio è stato ripreso, con conseguenze differenti, dalla Corte di cassazione, sez. I, con sentenza n. 23382 del 15 ottobre 2013 per affermare che, in difetto di deduzione e prova di tale evenienza, in un rapporto di lunga durata quale il contratto di affidamento bancario è legittima la revoca dell’affidamento intimata dalla banca pur dopo avere a lungo tollerato gli sconfinamenti dai relativi limiti da parte del correntista; così la stessa ratio si sarebbe seguita in un caso in cui la Corte di cassazione ha ritenuto tempestiva, e non contraria alla buona fede, l’impugnazione giudiziale di licenziamento proposta due giorni prima della scadenza del termine di prescrizione quinquennale (Sez. L -, Ordinanza n. 1888 del 28/01/2020 (Rv. 656694 – 01.

12. Pertanto, stando alla richiamata giurisprudenza, la figura dell’affidamento che “disinnesca” l’esercizio del diritto per il collocamento temporale di questo potrebbe venire in gioco nella ristretta ipotesi in cui il ritardo non costituisca un comportamento di mera tolleranza del creditore, ma corrisponda a un comportamento tale, in termini temporali e di assoluta costanza, da ingenerare nel debitore un affidamento di oggettiva rinuncia del diritto, nella misura in cui sia dimostrato che esso non comporti un apprezzabile sacrificio a carico del creditore, id est una – effettiva nel contesto reale del rapporto lesione del suo interesse; sicché il repentino esercizio del diritto da parte del creditore costituisce violazione di un vero e proprio dovere giuridico “che trova un limite soltanto nell’interesse proprio del soggetto, il quale è tenuto al compimento di tutti quegli atti necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte, nella misura in cui non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico” (sentenza impugnata, p. 10).

13. Più in generale, quel che incide per giustificare una siffatta pretesa di “adempimento dell’obbligo di buona fede” da parte del creditore in un contratto a prestazioni corrispettive ad esecuzione continuata è la situazione riferibile a una contingente onerosità eccessiva, come quella che può derivare da momenti storici di grave crisi economica determinata da imprevedibili fattori (paragonabili alla pandemia attuale). Un’applicazione dell’obbligo di buona fede entro una qualche misura approssimabile (pur essendo il tema qui sostanziale) all’istituto della “Verwirkung” di matrice germanica, in ipotesi, potrebbe dunque aversi con riguardo ai rapporti contrattuali in essere in tempo di oggettiva crisi economica, soprattutto di durata, tra i quali si annovera il contratto di locazione, nel caso in cui il pagamento del canone, che matura periodicamente, divenga in detta area temporale eccessivamente oneroso per il conduttore, in presenza di obiettive e dimostrate circostanze, onde il locatore sia tenuto a conformare la sua condotta esecutiva del negozio nel senso di non pretendere, per un circoscritto periodo di tempo, il pagamento del canone, ovvero accetti un minore importo, il tutto pur senza mutare i termini del contratto, che solo per questo non si potrebbe pertanto risolvere per inadempimento del conduttore. In tale situazione, difatti, è lo stesso creditore che in ultima analisi accetta nella fase esecutivo-dinamica del sinallagma, per obbligo di buona fede nel senso di solidarietà, in un determinato arco di tempo e in relazione a obiettive circostanze non collegate solamente alla situazione di insolvenza del debitore, un inadempimento come giustificato al fine di conservare gli effetti positivi del contratto (in altri termini lo sfruttamento economico del bene, da reputarsi suscettibile di un futuro riavvio), altrimenti non più recuperabili.

14. Nella fattispecie in esame è in atti pacifico che il decorso del tempo, sette anni, nell’ambito del contratto di durata per il quale sono stati pattuiti corrispettivi rateizzati a favore del locatore e a carico del conduttore, ha determinato la maturazione di interessi al tasso legale, da tempo notoriamente inferiore al deprezzamento della moneta. La Corte di merito ha cionondimeno ritenuto che, nel caso specifico, il debitore, in relazione alle circostanze del caso e ai rapporti sociali e familiari connessi al rapporto locatizio, si è trovato improvvisamente a dovere fronteggiare una richiesta di pagamento per una somma che con il trascorrere del tempo è divenuta esorbitante rispetto alla misura periodica concordata. Sicché, anche solo ritornando a ragionare in termini economici, la condotta di inerzia del creditore avrebbe leso in ultima analisi proprio il debitore, incorso in un ragionevole affidamento nel senso di intervenuta sostanziale remissione per facta concludentia compiuta da controparte in relazione ai canoni locatizi.

15. In merito a questa lettura dell’elastico canone della buona fede applicata dalla Corte di merito, gli studiosi italiani si sono dibattuti sulla possibilità di riconoscere l’istituto della Verwirkung anche all’interno del nostro sistema. Questo istituto fu elaborato dalla giurisprudenza e dalla dottrina tedesche dopo l’entrata in vigore del codice civile unitario del Secondo Reich, il BGB, nel 1900. La Verwirkung, invero, si colloca nell’ambito della dottrina dell’abuso del diritto, nata a partire dalle disposizioni dei paragrafi del BGB § 226 (divieto di utilizzo di diritti soggettivi al solo scopo di ledere un terzo, cosiddetti atti emulativi), § 826 (risarcimento del danno doloso contrario al buon costume) e soprattutto § 242 (buona fede nell’esecuzione della prestazione). Generalmente si ritiene che la Verwirkung sia una rinuncia tacita all’azione; per altri è invece una forma di decadenza dall’esercizio di un diritto soggettivo. Autorevole dottrina, poi, ritiene si tratti di perenzione dell’azione, ben distinta dalla rinuncia tacita all’azione, e quindi una forma di consumazione dell’azione processuale collegata al diritto in questione.

16. Va rilevato che, in virtù di tale accezione dell’obbligo solidaristico in sede contrattuale, negli ordinamenti di area continentale Europea tende vieppiù ad affermarsi il principio, basato appunto sulla clausola di buona fede, di matrice romanistica, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella controparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio del diritto in questione possa integrare un abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente negazione della tutela. Al di là delle definizioni teoriche, pertanto, la Verwirkung nel senso appunto di abuso del diritto nel senso di subitaneo e ingiustificato revirement rispetto a una sua protratta opposta modalità di esercizio (a ben guardare, anche la remissione è una forma di esercizio del diritto, potendo concederla solo chi ne è titolare) costituisce un istituto idoneo a venire in gioco, anche nel nostro ordinamento, allorché appunto si prospetti un abusivo esercizio del diritto dopo una prolungata inerzia del creditore o del titolare di una situazione potestativa che per lungo tempo è stata trascurata e ha ingenerato un legittimo affidamento nella controparte. In tal caso, a seconda delle circostanze, può ravvedersi, nel tempo, un affidamento dell’altra parte nell’abbandono della relativa pretesa, idoneo come tale a determinare la perdita della situazione soggettiva nella misura in cui il suo esercizio si riveli un abuso.

17. Il canone generale della buona fede che regola infatti anche la dinamica contrattuale, cioè l’intrecciarsi degli opposti diritti/interessi nella esecuzione di quanto si è cristallizzato nel patto negoziale, impedisce che i diritti siano esercitati in modalità astratte, imponendo invece il rispetto dell’affidamento che questa ha acquisito proprio in conseguenza della modalità esecutiva fino ad allora praticata, l’affidamento costituendo una species di interesse insorto da una specifica percezione della dinamica contrattuale in atto. Dinamica che peraltro l’insorgenza di tale affidamento conduce ad una stabilizzazione favorevole, che può essere infranta dalla controparte soltanto, appunto, con un abuso, che concretizza, nel fondo della sua sostanza, la violazione del canone di solidarietà che, pur essendo contrapposti gli interessi delle parti contrattuali, costituisce il background della confluenza di detti interessi nel negozio stipulato, e permane quindi, come regola fondante, nella sua esecuzione, id est nel suo reciproco adempimento.

18. Trattandosi dunque di una species di abuso del diritto, questo sarebbe rilevabile d’ufficio dal giudice ove risultasse dalle allegazioni processuali, e non sarebbe necessaria l’exceptio di parte, come prevede l’articolo 2938 c.c., per la prescrizione, essendo sufficiente una eccezione in senso lato.

19. La clausola generale di buona fede e correttezza, di cui l’abuso del diritto integra una peculiare violazione ut supra evidenziato, è operante appunto in via di reciprocità tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (articolo 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione di un contratto (articolo 1375 c.c.), specificandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto per come originariamente posti. Essa, pertanto, obbliga, da un lato, a salvaguardare l’utilità della controparte, e, dall’altro, a tollerare anche l’inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10182 del 04/05/2009; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5240 del 2004; Cass. 8 febbraio 1999, n. 1078).

20. Più precisamente, il principio di correttezza e buona fede – il quale, secondo la Relazione ministeriale al Codice Civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore” – opera come un criterio di reciprocità e, una volta collocato nel quadro di valori introdotto dalla Carta Costituzionale, deve essere inteso come una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” dettati dall’articolo 2 Cost. La sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Sez. L, Sentenza n. 4057 del 16/02/2021; Sez. 3, Ordinanza n. 24691 del 05/11/2020; Cass. n. 12310/1999).

21. Conseguentemente, secondo l’indirizzo costante sopra richiamato, ripreso anche da recente giurisprudenza, la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del “neminem laedere”, ma trova tuttavia il suo limite precipuo nella misura in cui detto comportamento non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico, una volta comparato con la gravosità imposta sull’altro contraente, solo in questo ristretto ambito potendosi fare riferimento all’istituto della Verwirkung (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10549 del 03/06/2020; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10182 del 04/05/2009; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5240 del 15/03/2004).

22. A tale riguardo, pertanto, il ritardo – rispetto ai tempi prestabiliti nel regolamento negoziale – di una parte nell’esercizio di un diritto (nel caso di specie, diritto di agire per far valere l’inadempimento della controparte di un’ obbligazione periodica di pagamento) può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun circostanziato interesse del suo titolare, correlato ai termini e alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la sola controparte. Pertanto, in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ricondurre il comportamento inerte del creditore entro la ristretta cornice di inerzia costituente una remissione per facta concludentia generativa di correlato affidamento nella controparte, riferita al comportamento di buona fede e al bilanciamento degli interessi in gioco in fase di esecuzione del contratto, a livello di sistema, in linea di principio, non si pone una questione di accertamento se il tardivo esercizio del diritto sia conforme a buona fede nell’esecuzione del contratto oneroso a prestazioni corrispettive, qualora detto ritardo comporti un apprezzabile sacrificio del creditore a vantaggio esclusivo del debitore, ma piuttosto una questione di volontà del titolare di esercitare il diritto in modalità remittente rispetto alla quale poi il titolare stesso intenda effettuare a notevole distanza temporale un abusivo revirement, a parte l’ipotesi, naturalmente, che si sia nelle more maturata la prescrizione del diritto, la quale venga eccepita.

23. Per questa via, si è giunti a ravvisare un abusivo esercizio del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza

e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono stati attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, si è stabilito che è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto (o di atti emulativi), oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché quel che viene censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15510 del 21/07/2020 (Rv. 658497 – 01), in materia di imposte e tributi; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10324 del 29/05/2020 (Rv. 658010 – 01) in caso di abusivo recesso ad nutum; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 30555 del 22/11/2019 (Rv. 656208 – 01); Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 15705 del 23/06/2017 (Rv. 644624 – 01), in materia condominiale; Cass.Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009, in materia di recesso ad nutum in un rapporto di concessione di vendita a esecuzione continuata).

24. Il problema centrale è che, in tutte le ipotesi considerate dalla giurisprudenza, la valutazione di un tale atto di esercizio abusivo del diritto deve essere ricondotta in un ambito di “conflittualità” che faccia perdere di vista gli interessi regolati dal contratto. Ovvero, posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui sono portatrici le parti, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati rispetto agli interessi regolati convenzionalmente (cfr. Cass.Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009: in applicazione di tale principio, è stata cassata la decisione di merito la quale aveva ritenuto insindacabile la decisione del concedente di recedere ad nutum dal contratto di concessione di vendita, sul presupposto che tale diritto gli era espressamente riconosciuto dal contratto; v. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17642 del 15/10/2012; Sez. L, Sentenza n. 15885 del 15/06/2018 (Rv. 649311 – 01.

25. Ne consegue che, al di fuori di questa ristretta cornice di atto rivelatore di una volontà di nuocere la controparte, il semplice fatto di ritardo nell’esercizio di un proprio diritto, se corrisponde a un apprezzabile interesse per il titolare nei limiti e secondo le finalità del contratto, non dà luogo ad una violazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto e non è causa per escludere la tutela dello stesso diritto, qualunque convinzione la controparte possa essersi fatta per effetto del ritardo.

26. Diversa questione, come si è sopra accennato, è la possibilità che l’inerzia sia solo la conseguenza fattuale di una rinunzia tacita all’esercizio del diritto, e quindi di una manifestazione di volontà abdicativa da parte del titolare perdurata per un apprezzabile lasso di tempo (nel caso di un diritto di credito, come già si evidenziava, una remissione per facta concludentia, per la quale modalità, logicamente, incide proprio la protrazione temporale dell’apparente inerzia). In questo diverso caso, espressione di volontà abdicativa, non vi è un problema di “non concessione” di tutela giuridica di un diritto per sleale ritardo nel suo esercizio, ma di abdicazione del diritto stesso riconducibile alla volontà del creditore per facta concludentia. Infatti, è pacifico che la mera tolleranza del creditore non può giustificare l’inadempimento, né comportare per se stessa modificazioni alla disciplina contrattuale, non potendosi presumere una completa acquiescenza alla violazione di un obbligo contrattuale posto in essere dall’altro contraente, né un consenso alla modificazione suddetta da un comportamento equivoco, come è normalmente quello di non avere preteso in passato l’osservanza dell’obbligo stesso, in quanto tale comportamento può essere ispirato da benevolenza piuttosto che essere determinato dalla volontà di modificazione del patto, come si è sopra detto (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5240 del 2004; Cass. 20 gennaio 1994, n. 466; Cass. 15 dicembre 1981, n. 6635).

27. Ciò che conta, in caso di inerzia significativa di un atto di rinuncia di colui che vanta un diritto corrispondente a un obbligo altrui, è che vi sia una manifestazione di volontà del creditore, per quanto in forma tacita, desumibile anche da un comportamento incompatibile con il mantenimento di una determinata disciplina contrattuale che preveda quel determinato diritto. Ne consegue che, anche in questo caso, il mero ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare dello stesso, ma non tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che risulti – accertamento riservato ovviamente al giudice di merito- che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di un’inequivoca e circostanziata rinuncia tacita o di modifica della disciplina contrattuale.

28. Nel caso in esame, dunque, per quanto accertato in punto di merito, non è stato il silentium in quanto tale la manifestazione di assoluta rinuncia al diritto della locatrice, quale espressione contrattuale di volontà tacita nella forma di comportamento concludente. Piuttosto, l’esercizio repentino del diritto installatosi in una circostanziata situazione di maturato affidamento della sua intervenuta abdicazione, correlata a un assetto di interessi pregresso, ha integrato un abuso del diritto per quanto detto sopra e ha comportato, altresì, la negazione di tutela dell’interesse di controparte in considerazione di sopravvenute circostanze nelle quali il giudice di merito illustrando ciò con adeguata motivazione – ha riscontrato un conflitto tra le parti determinatosi per altre questioni, pacificamente non collegate al contratto.

29. Ciò conduce proprio alla esatta identificazione dell’istituto da applicarsi: i diritti disponibili in quanto tali possono essere oggetto di rinuncia anche se sono stati inseriti in un sinallagma contrattuale, e la rinuncia può essere effettuata a mezzo di fatti concludenti, vale a dire come forma specifica di esecuzione del contratto dalla parte del creditore. Dove il comportamento inerte di quest’ultimo non è ascrivibile a rinuncia, come nel caso concreto è risultato, ma a un – ben protratto – prodromo di un esercizio abusivo del diritto, il decorso di un tale spiccato periodo di tempo di oggettiva apparenza remittente non può non assumere valore ai fini dell’estinzione/consumazione del diritto per il periodo de quo, trattandosi di diritto a esecuzione continuata e periodica. Pertanto, indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto o dal decorso del termine di prescrizione del medesimo, il repentino esercizio del diritto, dopo una situazione di durevole inerzia non altrimenti giustificata, può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione.

30. Nella fattispecie locatizia, in generale, quello che può evidentemente essere idoneo a costruire l’affidamento del conduttore nel senso di una oggettiva rinuncia è un comportamento del locatore di totale inerzia nella riscossione delle pigioni maturate per un protratto periodo di tempo, che si inserisce infatti nella natura del contratto, ad esecuzione continuata, in cui il correlato adempimento da parte del conduttore non è operato con un unico atto bensì si attua in via progressiva. Come, peraltro, a contrario, si verifica nel caso di cui all’articolo 1458 c.c., comma 1, con riguardo agli effetti retroattivi della risoluzione del contratto ad esecuzione continuata, la progressività dell’esecuzione incide altresì sulla pregnanza della condotta del creditore nella fase esecutiva, e conduce quindi alla percezione di questa come oggettiva abdicazione del potere di far valere il diritto, rinuncia che riguarda, appunto, la fase esecutiva mentre, naturalmente, non ha relazione con un mutuo dissenso dal contratto, che rimane “in piedi” ed è in grado di riprendere vita, come è avvenuto nella presente vicenda quando la locatrice ha modificato repentinamente la sua condotta di inerzia settennale.

31. In siffatto contesto, collegato alla causa del contratto di locazione e alla protratta inerzia del locatore nel richiedere il pagamento del corrispettivo di locazione per oltre sette anni, la repentina richiesta di adempimento per la parte del credito eventualmente non caduta in prescrizione è da valutarsi alla stregua dell’esercizio abusivo del diritto, e dunque in violazione di obblighi solidaristici collegati alla salvaguardia dell’interesse del conduttore a non perdere una acquisita situazione di vantaggio determinatasi a suo esclusivo favore, laddove non si dimostri di avere sino a quel tempo comportato un apprezzabile sacrificio per il locatore, rimasto inerte sin dall’origine, a fronte del grave onere imposto repentinamente sulla controparte.

32. L’accertamento fattuale della eventuale violazione della fondamentale obbligazione solidaristica in un caso come quello di cui si tratta, laddove si consideri che il rapporto negoziale si era formalmente instaurato tra una società commerciale con accentuato carattere personalistico e una naturale flessibilità dell’organizzazione sociale – come è oggi intesa la società a responsabilità limitata -, proprietaria del bene locato, e un socio, non può d’altronde – si nota peraltro ad abundantiam – non tener conto della mutazione di comportamento della società creditrice non appena il socio è, nei fatti, forzosamente uscito dalla compagine sociale e i rapporti con il socio di riferimento, il padre, sì sono incrinati per vicende estranee alla conduzione della società e del contratto di locazione; pertanto, la iniziativa della società di attivarsi, tra l’altro in un contesto di accesa conflittualità tra soci, appartenenti a un medesimo contesto familiare, dopo che la società per anni era rimasta inerte senza fornire adeguata giustificazione, è da ritenersi un comportamento certamente innaturale in un contesto societario ove le questioni interne tra i soci non sono normalmente in grado di mutare l’assetto degli interessi sottesi al contratto sociale, se non cristallizzati in altrettanti reciprochi impegni tra la società e i soci (Sez. 1, Sentenza n. 12956 del 22/06/2016; Sez. 1, Sentenza n. 14629 del 21/11/2001).

33. Non si dimostra nemmeno attagliata alla fattispecie in analisi l’istituto della tacita inequivoca rinuncia ai diritti maturati sino a un determinato periodo, in considerazione del fatto che la protratta e permanente situazione di inadempienza del socio non è stata approvata in ambito societario, per un considerevole lasso di tempo, essendo solo mancata ogni iniziativa tesa a far valere il suddetto credito (portato da fatture per le quali sono stati versati, tra l’altro, oneri tributari), soprattutto se si rapporta l’inerzia a un contratto di lunga durata i cui canoni di locazione sono maturati periodicamente a favore della società. Sul punto questa Corte si è già espressa nel senso che “la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco e un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo se è privo di alcun’altra giustificazione razionale; ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio possa fondarsi su altra causa, diversa dalla volontà della società di rinunciare al credito” (cfr. Cass. Sez. 3 Ordinanza n. 28439 del 14/12/2020: in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto esente da critiche la sentenza che aveva escluso che la mera omissione dell’indicazione di un credito nel bilancio finale di liquidazione potesse ritenersi indice certo della volontà di rinunciarvi). Pertanto, il criterio da seguirsi, anche solo considerando il profilo societario invocato dai medesimi ricorrenti è, come per ogni altra ipotesi, riferito alla sostanza dei rapporti intervenuti tra le parti nell’arco di periodo considerato, che comunque vanno interpretati secondo il principio dell’affidamento, qualora si presentino nei fatti e nel corso del tempo profondamente difformi rispetto a quanto formalmente rappresentato per iscritto e nelle scritture contabili (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15510 del 21/07/2020 (Rv. 658497 – 01), Sez. 5, Sentenza n. 4561 del 06/03/2015 (Rv. 635403 – 01) in materia di imposte e tributi).

34. Ragionando secondo questi principi, quindi, è sostenibile che un credito nascente da un rapporto ad esecuzione continuata, mai preteso sin dall’origine del rapporto negoziale, anche se formalmente menzionato nelle scritture contabili di una società a responsabilità limitata per più esercizi, in assenza di altri indici di segno contrario, possa ugualmente costituire un fattore di generazione di un affidamento di oggettiva rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del socio. Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento, indipendentemente dalla presenza di indici idonei a denotare una volontà di rinuncia del medesimo, se corrispondente a una situazione di palese conflittualità tra socio (allora ex socio) e gli altri soci, non giustificata da altri fattori, costituisce un abuso del diritto ove riveli l’intento di arrecare un ingiustificato nocumento.

35. Ciò che conta, in definitiva, è che la valutazione dell’atto teso a far rivivere l’obbligazione deve essere ricondotta alla “conflittualità” esistente tra le parti. Come si è già detto, il punto rilevante è quello della proporzionalità dei mezzi usati, che la Corte di merito, con motivazione conforme ai principi sopra esposti, ha ritenuto non sussistere, in relazione alle particolari circostanze del caso. Tale giudizio fattuale, essendo in linea con la giurisprudenza sopra richiamata, pertanto non è censurabile nel merito e risulta adeguatamente motivato sulla base delle circostanze portate all’esame del giudice.

36. Con riguardo alla fattispecie in esame deve, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: “il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del “neminem laedere”; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto”.

37. Tale principio di diritto è stato in effetti rispettato dalla Corte d’appello di [Omissis], a seguito di un accertamento di fatto chiaramente illustrato nella motivazione. Il che conduce al rigetto delle censure sin qui esaminate, assorbendone ogni altro profilo.

38.1. Va invece dichiarato inammissibile il quinto motivo della società inerente alla regolazione delle spese processuali, atteso che non viene dedotto per quale via risulti violata la norma di cui all’articolo 91 c.p.c., e, quindi, il principio di soccombenza, in quanto poste a carico della società [Omissis] s.r.l. nella frazione di 1/3 delle spese dei due gradi di giudizio, in ragione dell’esito della lite; mentre il vizio di motivazione carente e contraddittoria non viene sussunto nella unica forma oggi delibabile di motivazione apparente o totalmente assente o gravemente contraddittoria, come delineato dalle SU Cass. 8053/2014 e SU 22232/2016.

2. Il primo motivo di [Omissis], anch’esso attinente alla regolazione delle spese processuali, è palesemente inammissibile in quanto il ricorrente muove le sue censure solo su una delle due rationes decidendi con cui la Corte territoriale ha sorretto la disposta compensazione, non considerando, in particolare, la ratio decidendi inerente, nell’ottica del giudice di appello esternata in modo inequivoco nella motivazione, al rapporto parentale stretto che avvince [Omissis] e [Omissis].

Ricorso incidentale:

Primo motivo: il ricorrente incidentale [Omissis], conduttore dell’immobile, deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’articolo 1591 c.c., ex articolo 360 c.p.c., n. 3; vizio in procedendo in relazione all’articolo 112 c.p.c., ex articolo 360 c.p.c., n. 4, e ciò con riferimento al periodo in cui la Corte d’appello ha ritenuto dovuto il pagamento del corrispettivo, ovvero i canoni trimestrali a decorrere dal 2011 sino a dicembre 2013 pari a dieci rate trimestrali, oltre al rimborso delle spese per il periodo in questione, pari a Euro 19.125,00, posto che la Corte di merito ha ritenuto che dopo il 31 dicembre 2011 il contratto non si fosse più rinnovato per effetto della disdetta inviata il 29 giugno 2011, sulla base del nuovo contratto sottoscritto dalla sola società, quando nella richiesta iniziale la stessa società aveva richiesto il pagamento dei canoni di locazione e delle spese maturati in forza del contratto di locazione stipulato 2 gennaio 2004 e terminato il 31 dicembre 2011. A termini del contratto scaduto al 31 dicembre 2011 il restante importo farebbe riferimento all’occupazione senza titolo da considerarsi, invece, per il periodo limitato dal 1 gennaio 2013 al 31 dicembre 2013, oltre al rimborso delle spese, posto che nel caso di specie è la stessa Corte di merito ad avere accertato che l’occupazione sarebbe proseguita sulla base del nuovo contratto, tuttavia sottoscritto dalla sola società e non dal conduttore, non potendosi pertanto fare riferimento all’articolo 1591 c.c., per cui il corrispettivo è dovuto sino alla consegna dell’immobile.

Secondo motivo: il conduttore deduce violazione/falsa applicazione di norme di diritto, ovvero degli articoli 1362 e 2697 c.c., e articolo 115 c.p.c., laddove la Corte d’appello ha rigettato la censura di omessa pronuncia del Tribunale sull’eccezione di difetto di prova delle spese condominiali, statuendo che esse dovevano essere corrisposte nella misura pattuita nel contratto, trattandosi di debito convenzionalmente determinato, e perciò dovuto in detta misura, seppure in assenza di conguaglio che, peraltro, verosimilmente non sarebbe stato a credito del conduttore, essendo presumibile che l’entità delle spese fosse ragguagliata agli ordinari oneri condominiali effettivi. Lamenta il ricorrente che il giudice non abbia fatto riferimento alla volontà delle parti espressa nel contratto di locazione del 2 gennaio 2004 dove si prevedeva il rimborso delle spese condominiali “salvo conguaglio”. Pertanto il giudice non avrebbe posto a fondamento della sua decisione prove dedotte dalle parti, ma un suo personale convincimento di verosimile coincidenza dell’importo indicato con gli oneri effettivi.

39. La società, in limine, deduce che il controricorso con ricorso incidentale è stato notificato a mezzo posta elettronica certificata in data 26. 12. 2018 privo di sottoscrizione digitale, al pari della relazione di notifica che, redatta su foglio separato, non veniva sottoscritta con firma digitale dal difensore in disapplicazione della L. n. 53 del 1994, articolo 3 bis, comma 5. Mancando quindi l’attestazione di conformità del ricorso, delle relazioni di notifica a tutta la documentazione in originale informatico dell’atto notificato, il controricorso con ricorso incidentale dovrebbe ritenersi inammissibile, in ciò citando Cass., ordinanza n. 3805/2018.

40. L’eccezione di inammissibilità sarebbe fondata se la controparte non avesse provveduto a depositare l’attestazione di conformità delle firme digitali entro l’udienza, come invece ha tempestivamente fatto.

41. Quanto al primo motivo, questa Corte osserva che il giudice d’appello ha riconosciuto le somme relative al periodo nel quale, dopo la disdetta, il rapporto è proseguito anche sulla base del nuovo contratto firmato dalla sola società locatrice, condannando il conduttore all’importo maturato, pari a dieci canoni trimestrali di locazione a decorrere dal luglio 2011 sino al dicembre 2013. Pertanto la censura è inammissibile in quanto non si rapporta al contenuto della decisione, ove il giudice di merito ha considerato il periodo di effettiva occupazione dell’immobile a partire dalla disdetta inviata, e ciò a prescindere dalla validità o meno del secondo contratto, in applicazione dell’articolo 1591 c.c. (Sez. 3, Sentenza n. 8482 del 05/05/2020 (Rv. 657805 – 01); Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10926 del 07/05/2018).

42. La seconda censura è infondata. In merito, il provvedimento della Corte d’appello fa riferimento all’importo indicato nel contratto per il rimborso delle spese salvo conguaglio, nella misura stabilita ex ante, per la quale non risulta essere necessaria la prova della loro effettiva esistenza. Ed invero, la formula “salvo conguaglio” riferita agli oneri accessori, usualmente prevista nei contratti di locazione, ha la funzione di modificare in aumento o in diminuzione le spese dovute dal conduttore, a seconda del risultato di gestione condominiale, ma comunque implica che la parte interessata abbia l’onere di richiedere la differenza ovvero l’indicazione specifica delle spese addebitate L. n. 392 del 1978, ex articolo 9.

43. Né con tale asserto può ragionevolmente ritenersi che la Corte abbia dimostrato di avere erroneamente applicato i canoni di interpretazione contrattuale in riferimento alla suddetta clausola, trattandosi di un debito convenzionalmente predeterminato nell’ambito dell’autonomia delle parti. Difatti, nella disciplina ordinaria del codice civile, rientra nell’autonomia negoziale dei contraenti stabilire se il conduttore debba corrispondere al locatore, oltre il canone pattuito, anche l’importo delle spese condominiali, ovvero se tale prestazione debba rimanere, in tutto o in parte, a carico del locatore (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1002 del 02/02/1991; Cass. Sez. 3, in Sentenza n. 29329 del 13/11/2019)

44. Conclusivamente, il ricorso principale viene rigettato; viene altresì rigettato il ricorso incidentale. La reciproca soccombenza della società [Omissis] s.r.l. e di [Omissis] (quest’ultimo quale aderente ai primi quattro motivi del ricorso di [Omissis] s.r.l. e proponente il proprio unico ricorso), da un lato, dall’altro, di [Omissis], induce alla compensazione delle spese. La Corte, per l’effetto, dispone il raddoppio del contributo unificato per tutte le parti, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale di [Omissis] s.r.l. e [Omissis]; rigetta il ricorso incidentale di [Omissis]; compensa le spese tra le parti.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali [Omissis] s.r.l. e [Omissis] e del ricorrente incidentale [Omissis], dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente per impedimento del Consigliere estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, articolo 1, comma 1, lettera A s.m.i.

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Scarica Cass. Civ., Sez. III, 14/06/2021, n. 16743

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