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CASS. CIV., SS.UU., 12/10/2022, N. 29862
Il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso dal contribuente o da persona che del fatto di quest’ultimo debba rispondere direttamente nei confronti dell’erario, non può farsi coincidere automaticamente con il tributo evaso, ma deve necessariamente consistere in un pregiudizio ulteriore e diverso”, ricorrente qualora l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilità di riscuotere il credito erariale.
Il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso da persona diversa dal contribuente e non altrimenti obbligata nei confronti dell’erario, può coincidere sia con il tributo evaso, sia con ulteriori pregiudizi, ma nella prima di tali ipotesi il risarcimento sarà dovuto a condizione che l’erario alleghi e dimostri la perdita del credito o la ragionevole probabilità della sua infruttuosa esazione.
Nel giudizio di danno promosso dall’erario nei confronti di persona diversa dal contribuente, cui venga ascritto di avere concausato la perdita del credito erariale, spetta all’amministrazione provare l’esistenza del credito, la perdita di esso ed il nesso causale tra la lesione del credito e la condotta del convenuto; spetta, invece, al convenuto dimostrare che la perdita del credito sia avvenuta per negligenza dell’amministrazione, negligenza che rientra nella previsione di cui all’art. 1227, primo comma, c.c.» (Massima non ufficiale)
FATTI DI CAUSA
1. Premessa per una migliore comprensione dei fatti di causa.
L’importazione della frutta da Paesi extracomunitari è soggetta a regole intese a favorire la concorrenza.
Tra queste regole, all’epoca dei fatti che diedero origine al presente giudizio, vi erano le seguenti:
-) contingentamento delle importazioni (ciascun importatore non può importare più del quantitativo autorizzato);
-) ripartizione delle quote di mercato tra importatori già da tempo attivi sul mercato (c.d. “operatori tradizionali”, cui è assegnato il 92% delle importazioni) e operatori presenti sul mercato da minor tempo (c.d. “nuovi arrivati”, cui è assegnato l’8% delle importazioni);
-) i dazi cui è soggetta l’importazione di frutta variano in funzione del Paese di provenienza e della qualità dell’importatore: sono più bassi – sino ad arrivare a zero – per la frutta proveniente dall’Africa e dai Caraibi, nonché per la frutta importata dai “nuovi arrivati”;
-) l’importatore di frutta per beneficiare del dazio agevolato deve munirsi di un titolo (“certificato AGRIM”) rilasciato dall’allora Ministero del commercio con l’estero; i certificati indicavano quantità e provenienza della frutta che l’importatore era autorizzato ad acquistare, e non potevano essere ceduti ad altri importatori.
2. Il fatto
Nel 2003 [Omissis] e [Omissis] vennero rinviati a giudizio dinanzi al Tribunale di [Omissis] con l’accusa di avere, eludendo la normativa suddetta, evaso il pagamento di dazi sull’importazione di oltre 5.000 tonnellate di banane, beneficiando di esenzioni e riduzioni non dovute, e commettendo così il delitto di contrabbando di cui agli artt. 292, 295 e 301 d.p.r. 23.1.1973 n. 43.
Secondo l’ipotesi accusatoria, il contrabbando si sarebbe consumato – detto in estrema sintesi e semplificando alquanto – con le seguenti modalità:
a) la società [Omissis] s.r.l. (avente la veste di “operatore tradizionale” e della quale [Omissis] era direttore generale) acquistava all’estero ingenti partite di banane;
b) il prodotto veniva poi rivenduto solo formalmente, e sempre all’estero, a società compiacenti aventi la veste di “nuovi arrivati”;
c) queste ultime importavano il prodotto in Italia beneficiando del dazio ridotto ad esse accordato;
d) una volta importato il prodotto in Italia, gli importatori (sempre formalmente) le rivendevano alla [Omissis].
L’intera operazione sarebbe stata solo cartolare, ed era intermediata dall’altro imputato, [Omissis], dominus di fatto della società [Omissis] s.r.l..
3. Nel giudizio si costituirono parti civili la Commissione europea, il Ministero dell’economia e l’Agenzia delle Dogane, chiedendo la condanna degli imputati al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio.
4. Nel 2005 il Tribunale di [Omissis] assolse [Omissis] e condannò [Omissis].
La sentenza venne appellata dalle parti civili e da [Omissis].
Con sentenza 24.11.2011 n. 1252 la Corte d’appello di [Omissis] rigettò l’appello delle parti civili, e dichiarò estinto per prescrizione il reato ascritto a [Omissis], confermando le statuizioni civili a suo carico.
La suddetta sentenza d’appello fu impugnata per cassazione dalle parti civili e da [Omissis].
Ambedue tali impugnazioni vennero accolte e la sentenza d’appello fu cassata con rinvio – ai soli effetti civili – dalla III Sezione penale di questa Corte (sentenza 29.8.2016 n. 35575).
La suddetta sentenza ritenne che:
a) il giudice di merito avrebbe dovuto previamente stabilire se la condotta degli imputati costituisse un mero “abuso del diritto”, come tale penalmente irrilevante; oppure una dolosa violazione delle norme doganali;
b) il giudice di merito aveva motivato in modo illogico e contraddittorio la decisione di ritenere indimostrato che [Omissis] avesse volutamente aggirato la normativa doganale.
4. Riassunto il giudizio a cura delle parti civili, con sentenza 13.6.2019 n. 2420 la Corte d’appello di [Omissis] in sede civile ritenne che:
a) [Omissis] e [Omissis] avevano consapevolmente tenuto una condotta qualificabile non già come “abuso del diritto” (ex art. 10 bis I. 212/00), ma una condotta intesa a violare in modo diretto la normativa sui dazi: una condotta, dunque, astrattamente qualificabile come reato ed idonea a far sorgere l’obbligo di risarcimento del danno in favore delle parti civili;
b) le prove raccolte dimostravano che gli accordi tra la società [Omissis] e [Omissis] avevano lo scopo di “dissimulare la vendita di certificati AGRIM”, e consentire in tal modo alla società [Omissis] di importare frutta in misura eccedente la quantità ad essa assegnata, per di più non pagando alcun dazio, oppure pagandone uno minore del dovuto.
5. La Corte d’appello condannò di conseguenza [Omissis] e [Omissis] in via generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio.
La condanna venne pronunciata in favore del solo Ministero della finanze, sul presupposto che mancasse la prova del danno subito dalla Commissione Europea.
La Corte d’appello condannò altresì [Omissis] e [Omissis], in solido, al pagamento in favore del Ministero d’una provvisionale di euro 1.580.950,15, pari alla metà della differenza tra il dazio dovuto e quello effettivamente riscosso, oltre gli interessi nella misura legale dal 31.12.2000 alla sentenza (13.6.2019).
6. La sentenza d’appello pronunciata in sede di rinvio è stata impugnata per cassazione da [Omissis] e [Omissis], con separati ricorsi fondati il primo su otto ed il secondo su nove motivi, ed in via incidentale condizionata dal Ministero dell’economia, dall’Agenzia delle Dogane e dalla Commissione Europea.
7. Il ricorso venne assegnato alla Terza Sezione Civile e discusso nella camera di consiglio del 22.9.2021, prima della quale [Omissis] depositò una memoria illustrativa.
All’esito, con ordinanza 6.12.2021 n. 38711, la III Sezione di questa Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché ne valutasse l’assegnazione alle Sezioni Unite: ciò sul presupposto che alcuni dei motivi del ricorso principale (il 3°, il 6°, il 7° e l’8°) ponevano questioni di massima di particolare importanza.
8. [Omissis] e l’Avvocatura dello Stato hanno depositato memoria.
Il Procuratore Generale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso di [Omissis], e l’accoglimento del terzo motivo del ricorso di [Omissis], con rimessione alla Terza Sezione civile del ricorso, per l’esame degli altri motivi.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Inammissibilità del ricorso proposto da [Omissis].
Preliminarmente va dichiarata l’irrilevanza della rinuncia al mandato depositata dal difensore di [Omissis], giusta la previsione di cui all’art. 85 c.p.c., e l’inammissibilità del ricorso proposto da [Omissis], per tardività.
La ricorrente principale ([Omissis]), infatti, ha notificato il proprio ricorso per cassazione anche a [Omissis], nel domicilio da questi eletto presso l’indirizzo PEC del proprio difensore.
Da tale momento, pertanto, è iniziato a decorrere per [Omissis] il doppio termine di cui agli articoli 370 e 371 c.p.c. per la proposizione del ricorso incidentale.
Tale termine tuttavia è vanamente scaduto, in quanto:
-) [Omissis] ha ricevuto la notifica del ricorso principale il 17 luglio 2019;
-) il termine per la proposizione del ricorso incidentale sarebbe dunque scaduto il 26 agosto 2019;
-) per effetto della sospensione feriale di 31 giorni la suddetta data fu prorogata ope legis al 26 settembre 2019;
-) il ricorso incidentale di [Omissis], tuttavia, è stato proposto soltanto l’11 gennaio 2020.
1.1. La tardività del ricorso incidentale di [Omissis] non è evitata, né sanata, dalla circostanza che questi abbia proposto la propria impugnazione non già contro l’impugnante principale, ma aderendo alle censure di quest’ultima, e dunque proponendo un ricorso incidentale adesivo.
Questa Corte, infatti, da oltre quarant’anni viene ripetendo che “il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo”, e dunque nel rispetto dei termini di cui agli artt. 370 e 371 c.p.c.. Altrettanto pacifica è l’affermazione che tale principio “non trova deroghe” nel caso di impugnazione di tipo adesivo che venga proposta dal litisconsorte dell’impugnante principale e persegue il medesimo intento di rimuovere il capo della sentenza sfavorevole ad entrambi (Sez. 3, Ordinanza n. 36057 del 23/11/2021, Rv. 663183 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 18696 del 22/09/2015, Rv. 636708 – 01; Sez. L, Sentenza n. 5695 del 20/03/2015, Rv. 634799 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 26622 del 06/12/2005, Rv. 586075 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 21829 del 17/10/2007, Rv. 599244 – 01; Sez. U, Sentenza n. 11219 del 13/11/1997, Rv. 509833 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 6873 del 23/07/1994, Rv. 487481 – 01; Sez. L, Sentenza n. 5601 del 09/06/1990, Rv. 467589 – 01; Sez. L, Sentenza n. 4860 del 29/07/1986, Rv. 447562 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 616 del 22/01/1983, Rv. 425361 – 01).
2. Il primo motivo del ricorso principale.
Col primo motivo [Omissis] lamenta, ai sensi dell’articolo 360, n. 4, c.p.c., la violazione degli articoli 538 e 539 c.p.p. o, in subordine, dell’articolo 278 c.p.c.
Nella illustrazione del motivo si sostiene che il giudice di rinvio non poteva condannare [Omissis] al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio, per due indipendenti ragioni:
-) sia perché il giudice civile in sede di rinvio ai sensi dell’articolo 622 c.p.p. non può pronunciare una condanna provvisionale;
-) sia perché in ogni caso l’articolo 278 c.p.c. non consente la condanna del convenuto al pagamento di una provvisionale, se l’attore non abbia formulato espressa domanda di quantificazione del danno.
Con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., e poi ancora nella discussione orale, la difesa della ricorrente principale ha corroborato il motivo in esame con un ulteriore argomento di diritto: quello secondo cui il giudice di merito non avrebbe potuto pronunciare una condanna generica (né, di conseguenza, condannare [Omissis] al pagamento d’una provvisionale) perché la legge consente, a chi abbia formulato una domanda di condanna, di limitare in corso di causa la propria richiesta all’an debeatur; non consentirebbe, invece, di formulare ab origine una domanda di condanna generica, come invece avevano fatto nel giudizio di merito le Amministrazioni oggi controricorrenti.
A sostegno di tale allegazione ha invocato il decisum di Sez. 3, Ordinanza n. 17984 del 3.6.2022, secondo cui “l’attore che chiede la tutela giurisdizionale di una situazione giuridica soggettiva (…) non può proporre la domanda limitando la richiesta di tutela ad una condanna generica, cioè al solo an debeatur e fare riserva di introdurre un successivo giudizio per l’accertamento del quantum, a somiglianza di quanto l’art. 278 c.p.c. consente all’attore di chiedere nel corso del processo in cui abbia proposto la domanda di condanna in modo pieno”.
2.1. Il motivo è infondato in tutte le censure in cui si articola.
2.2. Sulla ammissibilità di domande di condanna_ limitate all’an debeatur.
Infondata, in primo luogo, è l’allegazione secondo cui il codice di rito non consentirebbe la proposizione di domande di condanna limitate all’an debeatur.
Tale questione è stata già affrontata e risolta da queste Sezioni Unite, con orientamento dal quale non v’è motivo di discostarsi – ed al quale, anzi, si intende qui dare continuità -, secondo cui la domanda di danno può essere legittimamente rivolta ab origine ad ottenere una condanna generica, senza che sia necessario il consenso del convenuto.
Tale facoltà costituisce infatti espressione del principio di libera scelta delle forme di tutela offerte dall’ordinamento. Spetterà poi al convenuto, ove lo ritenga, formulare domanda riconvenzionale di accertamento dell’insussistenza del danno: domanda che, se proposta, ribalterà sull’attore l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare del danno.
Questo principio è stato più volte affermato sia da queste Sezioni Unite (in particolare da Sez. U, Sentenza n. 12103 del 23/11/1995, che rappresentò la sentenza capostipite, e poi da Sez. U, Sentenza n. 390 del 2.6.2000; Sez. U, Sentenza n. 390 del 2.6.2000; Sez. U, Sentenza n. 108 del 10.4.2000); sia da tutte le sezioni semplici di questa Corte: dalla Prima Sezione (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 16776 del 24.5.2022); dalla Seconda Sezione (ex multis, Sez. 2, Ordinanza n. 19873 del 20.6.2022; Sez. 2, Ordinanza n. 10323 del 29.5.2020; Sez. 2, Sentenza n. 4962 del 04/04/2001); dalla Terza Sezione (ex multis, Sez. 3, Ordinanza n. 4653 del 22.2.2021; Sez. 3, Sentenza n. 25113 del 24.10.2017); dalla Sezione Lavoro (ex multis, Sez.. L, Sentenza n. 2262 del 16.2.2012; Sez. L, Sentenza n. 15154 del 5.7.2007).
E se principio analogo non risulta mai affermato dalla giurisprudenza della Sezione Tributaria, ciò è dovuto solo all’ovvia considerazione che il processo tributario è un giudizio c.d. “di impugnazione-merito”, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva, sicché il giudice non può limitarsi ad annullare l’atto dell’Amministrazione, ma deve esaminare nel merito la pretesa fiscale o il diniego del rimborso e determinarne la corretta misura: con il che resta di norma esclusa la possibilità di una sentenza limitata all’an debeatur o di una condanna generica (ex multis, Sez. 5, Ordinanza n. 27875 del 31.10.2018).
2.3. A fronte di questo orientamento così risalente e consolidato, tale da costituire un vero e proprio “diritto vivente”, non può essere condiviso il precedente di questa Corte invocato dalla difesa della ricorrente (e cioè l’ordinanza 17984/22, cit.), per quattro ragioni.
2.3.1. In primo luogo perché, in quella decisione, l’affermazione del principio secondo cui l’attore non potrebbe chiedere ab origine una condanna generica costituisce un mero obiter dictum. È la stessa ordinanza, infatti, ad affermare che la domanda introduttiva del primo grado di quel giudizio non era affatto limitata al solo an debeatur. Il principio di cui si discorre, pertanto, è stato affermato in relazione ad un caso in cui l’applicazione di esso non era necessaria.
2.3.2. In secondo luogo alla decisione invocata dalla difesa della ricorrente non è possibile dare continuità, in virtù del principio della necessaria stabilità nell’interpretazione delle norme processuali.
Questo principio, ripetutamente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, può così riassumersi: sebbene nel nostro sistema processuale non viga la regola dello stare decisis, nondimeno la stabilità dell’interpretazione delle norme processuali è un valore immanente nell’ordinamento, a salvaguardia della certezza del diritto ed a tutela del diritto di difesa.
Pertanto quando l’interpretazione di una norma processuale sia consolidata, essa può essere abbandonata solo in due casi: o in presenza di “forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dai mutare dei fenomeni sociali o del contesto normativo” (così, testualmente, Sez. U, Sentenza n. 13620 del 31/07/2012; nonché, nello stesso senso ed ex multis, Sez. U, Sentenza n. 927 del 13.1.2022; Sez. U, Ordinanza n. 2736 del 2.2.2017); oppure quando l’interpretazione consolidata “risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o ingiusti, atteso che l’affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo” (così Sez. U, Ordinanza n. 23675 del 06/11/2014, Rv. 632844 – 01).
Corollario di quanto esposto è che quando una norma processuale può teoricamente essere interpretata in due modi diversi, ambedue compatibili con la lettera della legge, è doveroso preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione.
2.3.3. In terzo luogo, il principio invocato dalla ricorrente non può essere condiviso perché il nostro ordinamento costituzionale e processuale è imperniato sui princìpi di libertà del diritto di azione (art. 24 Cost.), e la libertà del diritto di azione si manifesta ovviamente con la facoltà dell’attore di stabilire, in totale libertà, cosa chiedere, quanto chiedere e quando chiedere, con l’unico limite del divieto di abuso del diritto.
2.3.4. Infine, al precedente invocato dalla difesa della ricorrente non può essere data continuità, in quanto l’interpretazione da esso preferita non è compatibile con vari princìpi stabiliti dal diritto comunitario, ovvero da norme interposte ai sensi dell’art. 10 Cost..
È noto che l’art. 6, comma 3, del Trattato Sull’Unione Europea (c.d. “Trattato di Lisbona”, ratificato e reso esecutivo con I. 2 agosto 2008, n. 130), stabilisce che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…) fanno parte del diritto dell’unione in quanto principi generali”.
Per effetto di tale norma i princìpi della CEDU sono stati “comunitarizzati”, e sono divenuti “princìpi fondanti dell’unione Europea”.
Tra questi princìpi la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’unione europea da tempo include quello di certezza del diritto.
Il principio della certezza del diritto secondo la Corte di giustizia discende dall’art. 6 CEDU; è recepito dall’ordinamento comunitario dall’art. 6 TUE, ed ha – fra gli altri – due corollari: il principio di tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei diritti quesiti (per l’affermazione di questi princìpi, ex multis, si vedano in particolare le tre decisioni pronunciate da Corte giust. CE, 14 aprile 1970, Bundesknappschaft, in causa C-68/69, in particolare § 7; Corte giust. 7 luglio 1976, IRCA, in causa C-7/76, e Corte giust. CE 16 giugno 1998, Racke, in causa C-162/96).
In campo processuale i principi affermati dalla Corte di Lussemburgo sono stati ripresi e sviluppati dalla Corte EDU, la quale ne ha tratto il corollario che è impedito ai giudici degli Stati membri interpretare le norme processuali in modo che conducano all’inammissibilità d’una domanda giudiziale, quando tali interpretazioni siano “troppo formalistiche”, adottate “a sorpresa” e niente affatto chiare ed univoche (Corte EDU, sez. I, 15.9.2016, Trevisanato c. Italia, in causa n. 32610/07, §§ 42-44; Corte EDU, sez. II, 18.10.2016, Miessen c. Belgio, in causa n. 31517/12, §§ 71-73).
In particolare, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che costituisce violazione dell’art. 6 CEDU l’adozione d’una interpretazione della norma processuale che comporti per l’individuo la perdita della possibilità di adire un Tribunale, senza che tale effetto potesse essere previsto ex ante (ex multis, Corte EDU, 20 dicembre 2016, Ljaskaj c. Croazia, in causa n. 58630/11); che la legge processuale “deve essere accessibile ai giustiziabili e da loro prevedibile quanto agli effetti” (Corte EDU 27.1.2017, Paradiso e Campanelli c. Italia, in causa n. 25358/12, § 169); che ogni soggetto deve essere in grado di prevedere le conseguenze che possono derivare da un determinato atto (così Corte EDU 7.6.2012, Centro Europa 7 s.r.l. e Di Stefano c. Italia, in causa n. 38433/09, § 140; nello stesso senso Corte EDU 17.5.2016, Karàcsony ed al. c. Ungheria, in cause nn. 42641/13 e 44357/13); che non possono imporsi cause di inammissibilità non previste dalla legge, se non indispensabili (Corte EDU, sez. I, 24.4.2008, Kemp c. Lussemburgo, in causa n. 17140/05); che, infine, i giudizi degli Stati membri devono osservare per quanto possibile orientamenti stabili, sicché non è loro consentito esercitare nel corso del tempo le loro competenze in modo da ledere imprevedibilmente situazioni e rapporti giuridici soggettivi (Corte giust. UE, 15 Febbraio 1986, Duff, in causa C-63/93).
Alla luce di tali princìpi deve concludersi che la regola di diritto invocata dalla ricorrente (“non è ammissibile una domanda ab origine limitata all’an debeatur”) non può essere seguita perché non espressamente prevista dalla legge, imprevedibile dai litiganti e non indispensabile.
2.4. Sui restanti profili di censura del primo motivo di ricorso.
La deduzione secondo cui il giudice civile, pronunciando in sede di rinvio ai sensi dell’articolo 622 c.p.p., non potrebbe pronunciare una condanna provvisionale è infondata in diritto.
Il giudizio di rinvio ex articolo 622 c.p.p. si svolge dinanzi al giudice civile con le regole del processo civile (Sez. 3 -, Sentenza n. 517 del 15/01/2020, Rv. 656811 – 01): e fra queste regole rientra l’art. 278 c.p.c., che consente per l’appunto la condanna del convenuto al pagamento d’una provvisionale.
2.5. Anche in questo caso non è decisivo, in senso contrario, il precedente invocato dalla difesa della ricorrente (e cioè Sez. 3, Sentenza n. 11117 del 28/05/2015, non massimata sul punto, secondo cui la condanna provvisionale ex art. 278 c.p.c. non può essere pronunciata quando l’azione “ha ad oggetto l’accertamento di responsabilità del convenuto e la sua condanna generica al risarcimento dei danni”, perché in tal caso “esula dal giudizio la concreta quantificazione del danno risarcibile”).
Tale orientamento non può essere condiviso per due concorrenti ragioni.
2.5.1. Innanzitutto, negare la possibilità d’una condanna provvisionale nel giudizio limitato all’an debeatur è conclusione non sostenibile sul piano della logica formale, perché eleva il presupposto della norma (la richiesta di condanna generica) a fattore impeditivo dell’applicazione di essa.
Ed infatti il presupposto per la pronuncia d’una condanna provvisionale è la formulazione d’una domanda di condanna generica. Se, infatti, fosse formulata una richiesta di condanna estesa al quantum, la concessione d’una provvisionale non avrebbe senso né utilità, dal momento che il processo si chiuderebbe comunque con una sentenza – di accoglimento o di rigetto – definitiva.
Negare, dunque, la possibilità di pronunciare la condanna provvisionale quando l’attore abbia limitato la propria richiesta all’an debeatur, significherebbe interpretare abrogativamente l’art. 278 c.p.c..
A seguire quel ragionamento, infatti, mai tale norma potrebbe essere applicata, perché delle due l’una: o l’attore ha chiesto una condanna piena, ed allora la provvisionale non può essere pronunciata perché il giudice dovrà decidere su tutta la domanda; oppure è stata chiesta una condanna generica, ed allora la provvisionale non potrebbe essere pronunciata perché la causa non ha ad oggetto il quantum.
Quanto, poi, all’osservazione secondo cui in caso di domanda limitata all’an debeatur la provvisionale non potrebbe essere pronunciata perché la quantificazione del danno non forma oggetto del giudizio, è agevole replicare che proprio perché la quantificazione del danno non forma oggetto del giudizio, è accordata al giudice la potestà di pronunciare una condanna sommaria, nei limiti in cui, anche a prescindere dall’attività assertiva delle parti, la prova del danno sia comunque rifluita nel giudizio. Basti pensare al caso – a mò d’esempio – del danno non patrimoniale da uccisione d’un prossimo congiunto, ipotesi nella quale, anche in assenza di prove specifiche, non potrà di norma dubitarsi dell’esistenza d’un danno non inferiore ad un certo ammontare.
2.5.2. La seconda ragione per la quale non può essere condiviso il principio invocato dalla ricorrente è che l’art. 278 c.p.c. subordina la condanna generica alla circostanza che sia “accertata l’esistenza d’un diritto, ma [sia] ancora controversa la quantità della prestazione dovuta” (art. 278, primo comma, c.p.c.). La norma, dunque, non impone affatto che la “controvertibilità” del quantum debba sussistere nel medesimo giudizio in cui si è chiesta la condanna generica.
La quantità della prestazione dovuta infatti può essere qualificata come “ancora controversa” sia quando la liquidazione del danno sia richiesta nel medesimo giudizio in cui è stata pronunciata la condanna generica; sia quando la quantificazione del danno è stata riservata dall’attore ad un futuro e separato giudizio.
La formula che subordina la concessione della provvisionale alla circostanza che sia “ancora controversa la quantità della prestazione dovuta” sta a significare che sul quantum debeatur è mancata una decisione, ma non che quella decisione dovrà emettersi nello stesso giudizio in cui si è chiesta o pronunciata la condanna generica.
L’art. 278 c.p.c., pertanto, anche sul piano letterale non solo non esclude, ma anzi impone di ritenere ammissibile la richiesta – e la pronuncia – d’una condanna provvisionale nel giudizio incardinato al solo fine di ottenere una pronuncia generica sull’an debeatur.
2.6. La deduzione, infine, secondo cui l’art. 278 c.p.c. non consentirebbe la condanna del convenuto al pagamento di una provvisionale, se l’attore non abbia formulato espressa domanda di quantificazione del danno, è infondata in punto di fatto.
Le Amministrazioni oggi controricorrenti, infatti, nel riassumere il giudizio dinanzi al giudice civile in sede di rinvio avevano espressamente chiesto la condanna dei convenuti al pagamento d’una provvisionale: in tal modo hanno non solo formulato la “istanza” di cui all’art. 278, secondo comma, c.p.c., ma manifestato implicitamente la volontà di chiedere una aestimatio anche parziale del danno.
2.7. Il primo motivo di ricorso va dunque rigettato, in applicazione dei seguenti princìpi di diritto:
-) “È consentito alla vittima di un fatto illecito proporre una domanda limitata ab origine all’accertamento del solo an debeatur, con riserva di accertamento del quantum in un separato giudizio”.
-) “La condanna provvisionale di cui all’art. 278 c.p.c. può essere pronunciata – su istanza di parte – anche nel giudizio introdotto da una domanda limitata all’accertamento del solo an debeatur”.
-) “Il giudice civile, adito in sede di rinvio ai sensi dell’art. 622 c.p.p. con una domanda di condanna generica, può condannare il responsabile al pagamento di una provvisionale, ai sensi dell’art. 278 c.p.c.”.
2. Il secondo motivo del ricorso principale.
Col secondo motivo [Omissis] prospetta sia il vizio di nullità della sentenza, sia quello di omesso esame d’un fatto decisivo.
La censura investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto sussistente la prova del fatto che l’odierna ricorrente evase od eluse, con dolo, il pagamento dei dazi doganali.
Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene come accennato due censure.
2.1. Con una prima censura la ricorrente sostiene che la Corte d’appello ha trascurato di esaminare un “fatto decisivo”, rappresentato da un parere diramato da una Direzione Generale della Commissione europea.
In questo parere si sosteneva che il Regolamento comunitario disciplinante la materia (Regolamento 2362/98) andasse interpretato nel senso che esso non vietava agli importatori “nuovi arrivati” né di avvalersi di società terze per il trasporto della merce importata; né – una volta immessa la merce nel mercato interno – di venderla ad un “operatore tradizionale”; né, infine, di stipulare tali contratti di vendita prima ancora dell’importazione.
Sostiene la ricorrente che tale documento, se fosse stato esaminato, avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a ritenere che la condotta di [Omissis] fu coincidente con l’interpretazione che della normativa sui dazi diede la stessa Commissione europea: e dunque non poteva ritenersi “dolosa” la condotta d’un operatore commerciale, conforme all’opinione d’un organismo comunitario.
2.2. Con una seconda censura la ricorrente sostiene che, anche a voler ammettere l’ipotesi che la Corte d’appello abbia effettivamente esaminato e valutato il documento suddetto, in ogni caso la motivazione con cui è stato ritenuto sussistente l’elemento soggettivo dell’illecito deve ritenersi inesistente o comunque soltanto apparente. La sentenza impugnata, infatti, si limita a rinviare su questo punto alla decisione di primo grado, decisione nella quale tuttavia non era contenuto alcun accertamento dell’elemento soggettivo del reato, tanto è vero che [Omissis] in primo grado fu assolta con una formula in ius concepta (e cioè “perché il fatto non costituisce reato”).
2.3. Sulla prima censura.
La prima censura del secondo motivo del ricorso principale è infondata.
In primo luogo essa è infondata perché il documento del cui omesso esame la ricorrente si duole risulta essere stato preso in esame dalla Corte d’appello a pagina 27, terzo capoverso, della sentenza impugnata.
In secondo luogo essa è infondata perché il “fatto controverso” fra le parti era l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato, e questo fatto è stato effettivamente esaminato dalla Corte d’appello.
L’omesso esame di un documento, per contro, non integra gli estremi del vizio di cui all’articolo 360, n. 5, c.p.c., dal momento che il giudice non è obbligato a dare conto di ogni e ciascun elemento di prova acquisito nel corso dell’istruttoria, ma può limitarsi ad indicare solo quelli sui quali ha fondato il proprio convincimento.
In terzo luogo la censura è infondata perché il documento del cui omesso esame la ricorrente si duole comunque non era decisivo.
In quel documento, infatti, si esprimeva l’opinione che l’importatore “nuovo arrivato” potesse legittimamente importare merci avvalendosi di mezzi altrui, e rivenderle – una volta importate – ad un “operatore tradizionale”.
Ma la Corte d’appello ha condannato [Omissis] non già per il solo fatto di avere venduto le banane importate ad un “operatore tradizionale”, ma in base al diverso presupposto che quella vendita dissimulava una vendita di certificati AGRIM, e dunque una pratica abusiva.
2.4. Sulla seconda censura.
La seconda censura è del pari infondata.
Secondo queste Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014) la nullità della sentenza per vizio di motivazione può affermarsi soltanto in due casi eccezionali: quando la motivazione manchi del tutto “sinanche come segno grafico”; oppure quando sia oggettivamente e insuperabilmente incomprensibile.
Nel caso di specie non ricorre alcuno dei suddetti presupposti. Da un lato, infatti, sarebbe arduo affermare che una sentenza di 38 pagine sia “nulla per mancanza di motivazione sinanche come segno grafico”; dall’altro lato la sentenza impugnata ha dato ampiamente conto degli elementi di fatto sui quali ha fondato il giudizio di colpevolezza.
La Corte d’appello ha ritenuto che la società di cui [Omissis] era direttore generale importava banane in eccesso rispetto ai contingenti ad essa assegnati, avvalendosi di società prestanome, e così facendo pagava dazi agevolati cui non aveva diritto.
Questa motivazione è ben chiara, e lo stabilire poi se essa sia stata corretta nel merito è questione di puro fatto, esulante dal perimetro del giudizio di legittimità.
3. Il terzo motivo del ricorso principale.
Col terzo motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione degli articoli 1227, 2056, 2059 e 2697 c.c.
Il motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto di poter pronunciare una condanna generica a carico dei convenuti ed a favore del Ministero delle finanze.
3.1. Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene cinque censure tanto processuali quanto sostanziali, che questa Corte – nell’esercizio del proprio potere-dovere di qualificazione ed interpretazione degli atti processuali – ritiene siano così riassumibili:
a) la Corte d’appello non poteva pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, perché le parti civili avevano a tal riguardo formulato domande generiche;
b) la Corte d’appello non poteva pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, perché le parti civili non avevano indicato le prove di cui intendevano avvalersi nel futuro giudizio sul quantum debeatur;
c) la Corte d’appello aveva accolto (anche) la domanda di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, danno concepibile solo con riferimento alle condotte di soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione, ma non con riferimento alle condotte di soggetti estranei ad essa;
d) la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno presuppone l’accertamento in concreto dell’esistenza d’un danno, accertamento che nel caso di specie era mancato;
e) il danno sofferto della pubblica amministrazione in caso di evasione fiscale non coincide con il tributo evaso, se non nei casi in cui l’erario, in conseguenza del fatto illecito, abbia perduto la possibilità di recuperare l’imposta con gli ordinari strumenti a tal fine previsti dall’ordinamento.
3.2. Prima di esaminare tali doglianze nel merito, va premesso che le censure appena riassunte, sub (a), (b) e (c), non possono ritenersi già esaminate e decise dall’ordinanza di rimessione, nonostante in essa si dica delle prime due che sono “smentite” dagli atti; e della terza che “appare inammissibile”.
Infatti il dispositivo dell’ordinanza di rimessione non contiene altra statuizione che la rimessione alle SS.UU.; né vi è una statuizione espressa di rigetto delle due censure suddette.
Pertanto le affermazioni di “inammissibilità” di cui alle pp. 26-28 dell’ordinanza di rimessione debbono ritenersi delle mere valutazioni preliminari ai fini della motivazione sulla rilevanza della questione di massima, questione che riguardava un profilo del motivo logicamente subordinato a quelle valutazioni.
3.3. Sulla prima censura (genericità delle domande).
L’allegazione secondo cui la Corte d’appello non avrebbe potuto pronunciare una condanna generica al risarcimento del danno, poiché i danneggiati avevano formulato domande generiche, è infondata.
La prima ragione è che le parti civili provvidero ad indicare il tipo di danni che assumevano di aver subito: turbamento della normale attività dell’amministrazione; perdita del tributo; costi dell’attività di accertamento del fatto-reato; danno all’immagine; danno da sviamento di funzione.
3.4. Sulla seconda censura (inammissibilità della domanda per mancata indicazione dei mezzi di prova).
La ricorrente allega poi che la domanda di condanna generica al risarcimento del danno si sarebbe dovuta dichiarare inammissibile, perché non corredata dall’indicazione dei mezzi di prova di cui le parti danneggiate avevano intenzione di avvalersi nel successivo giudizio di liquidazione, a dimostrazione dell’entità del danno sofferto.
Tale censura è infondata.
Infatti ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno è sufficiente che siano dimostrati la colpa e il nesso causale, mentre è sufficiente che sia anche solo probabile l’esistenza del danno.
Se dunque, ai fini dell’accoglimento della domanda generica, è necessario che il danno sia soltanto “probabile”, l’unica prova che il danneggiato deve offrire è quella della “probabilità” del danno, non della sua certezza.
Ma se ai fini della condanna generica è sufficiente la dimostrazione della “probabilità” del danno, non si comprende a qual fine e per qual frutto l’attore avrebbe l’onere, nel giudizio sull’an, di indicare analiticamente i mezzi di prova di cui intende avvalersi nel futuro e separato giudizio sul quantum.
La prova analitica del quantum debeatur andrà fornita nel relativo e successivo giudizio, sicché a pretendere che essa debba essere offerta già nel giudizio sull’an si perverrebbe al paradosso di obbligare la parte, a pena di inammissibilità della domanda, ad indicare mezzi di prova irrilevanti, perché non aventi ad oggetto una questione devoluta al giudicante.
Quel che è sufficiente, nel giudizio limitato all’an debeatur, è che l’attore fornisca la prova della probabile esistenza d’un danno, prova che ovviamente può essere fornita con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici.
Infine, non pertinente è la giurisprudenza invocata dalla ricorrente a p. 17, nota 13, del ricorso.
In tutti e quattro i precedenti ivi richiamati, infatti, non si afferma affatto che una domanda di condanna generica sia inammissibile se non corredata dall’indicazione della prova del quantum debeatur, ma si afferma il diverso principio secondo cui ai fini d’una condanna generica è sufficiente che l’attore alleghi e provi la mera “potenzialità dannosa” del fatto illecito. In particolare:
-) Sez. L, Sentenza n. 1631 del 22/01/2009, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da perdita di chance;
-) Sez. 3, Sentenza n. 25638 del 17.12.2010, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da distruzione dell’azienda commerciale;
-) Sez. 2, Ordinanza n. 6235 del 14.3.2018, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da violazione delle norme sulle distanze legali: qui, per di più, la domanda di condanna generica venne rigettata per difetto di “allegazione” del danno, sicché il riferimento alla prova costituiva una motivazione ad abundantiam;
-) Sez. 2, Sentenza n. 21326 del 29.8.2018, ha affermato il suddetto principio in tema di danno da inadempimento d’un contratto preliminare.
3.4.1. In talune decisioni della Corte, ivi compresa l’ultima di quelle appena elencate, si legge la tralatizia affermazione secondo cui “l’art. 278 cod. proc. civ. (…) non esonera l’attore, all’atto della rimessione della causa al collegio, dall’onere di (…) indicare i mezzi di prova dei quali intenda avvalersi per la determinazione del “quantum”, secondo la disciplina generale, con la conseguenza che, in difetto di tali adempimenti, il giudice deve pronunciarsi sulla domanda di risarcimento, rigettandola se non adeguatamente provata” (così Sez. 1, Sentenza n. 5736 del 23/03/2004, e, prima ancora, Sez. 2, Sentenza n. 5193 del 28/05/1999).
Questo principio tuttavia non è pertinente rispetto al caso che qui ci occupa. Esso venne infatti affermato dalla sentenza capostipite (Cass. 5193/99, cit.), in un caso in cui l’attore, al momento della rimessione della causa al collegio, aveva chiesto sì una condanna generica del convenuto, ma nella forma d’una sentenza non definitiva, con rimessione della causa sul ruolo per il prosieguo del giudizio ai fini dell’accertamento del quantum.
È dunque ovvio che, in quel caso, si pretese dall’attore la formulazione anche delle richieste istruttorie, giusta la previsione dell’art. 189 c.p.c..
Lo stesso principio, però, non potrebbe valere quando l’attore chieda che il quantum debeatur sia accertato in un separato giudizio, e non nel prosieguo del medesimo giudizio.
3.5. Sulla terza censura (insussistenza d’un danno all’immagine dell’Amministrazione).
Con una terza censura la ricorrente ha dedotto che la Corte d’appello avrebbe illegittimamente accolto (anche) la domanda di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione, danno non concepibile con riferimento alle condotte di soggetti estranei alla pubblica amministrazione.
Il motivo è, in primo luogo, inammissibile per estraneità alla ratio decidendi. La sentenza impugnata, infatti, non ha preso affatto posizione sull’esistenza d’un “danno all’immagine”, sicché il motivo censura una statuizione che nella sentenza impugnata manca.
3.5.1. Benchè tale rilievo sia assorbente, osserva il Collegio ad abundantiam che la censura sarebbe comunque infondata.
Il principio di diritto invocato dalla ricorrente, secondo cui soltanto soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione potrebbero essere condannati a risarcire il danno all’immagine sofferto da quest’ultima, non è infatti corretto. Il danno civile è atipico: chiunque può arrecarlo a chiunque, e con qualunque condotta. Così, ad esempio, il funzionario di fatto, il calunniatore, il millantatore, l’appaltatore infedele, il concessionario di pubblici servizi disonesto, pur non appartenendo alla pubblica amministrazione, con le loro condotte ben potrebbero arrecare un danno all’immagine di quest’ultima.
L’esistenza di un danno all’immagine della p.a. è un giudizio analitico a posteriori che dipende dalla natura della condotta illecita e dalle sue conseguenze, e non un giudizio sintetico a priori che dipenda dalla qualità soggettiva del responsabile.
Che un reato doganale possa nuocere all’immagine della p.a. è stato del resto già ammesso dalla giurisprudenza penale di questa Corte (Sez. 5 pen., Sentenza n. 12777 del 22.3.2019, in motivazione, § 8.3; Sez. 3 pen., Sentenza n. 35457 del 1/10/2010, Rv. 248632 – 01), così come in ripetute occasioni si è ammesso che il reato commesso dall’extraneus alla p.a. possa recare nocumento all’immagine di questa, suscitando nei cittadini la sensazione dell’inefficienza o della collusione di essa col reo (così Sez. 3, Sentenza n. 11752 del 17/03/2008, Rv. 239464; Sez. 3, n. n.35868 del 1.10.2002, Rv. 222512; nonché Sez. 2 pen., Sentenza n. 150 del 4/01/2013, Rv. 254675, e Sez. 1 pen., Sentenza n. 10371 del 18/10/1995, Rv. 202736, ambedue con riferimento al danno all’immagine causato da una associazione criminale all’amministrazione comunale nel cui territorio si era insediata ed aveva operato).
3.5.2. Né rileva, ai fini qui in esame, il disposto dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. 1.7.2009 n. 78 (c.d. “lodo Bernardo”), ovvero la contestata norma la quale, nel novellare le regole sulla responsabilità erariale dei pubblici dipendenti, stabilì che “procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97”, e quindi soltanto nel caso di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Quale che sia, infatti, l’interpretazione che si volesse adottare di tale norma (se, cioè, essa escluda o meno la responsabilità dei pubblici dipendenti nei confronti della p.a. per i danni all’immagine causati in conseguenza di reati comuni), quel che è certo è che: a) quella norma disciplina unicamente i limiti della responsabilità per danno erariale, la quale ha ambito e presupposti diversi dalla responsabilità civile; b) essa disciplina unicamente la responsabilità dei pubblici funzionari, non dei privati; c) il secolare canone ermeneutico inclusio unius, exclusio alterius, impone di ritenere che l’espressa limitazione della responsabilità dei pubblici funzionari verso la p.a. non possa estendersi anche ai soggetti ad essa estranei.
In tal senso si è già espressa la Corte costituzionale con la sentenza 15.12.2010 n. 355, stabilendo che l’art. 17, comma 30 bis, d.l. cit. è norma la quale ha inteso limitare unicamente la responsabilità dei pubblici funzionari, e limitarla solo nell’ambito della giurisdizione contabile.
3.6. Sulla quarta censura (inammissibilità della condanna generica in assenza di prova del danno).
Con una quarta censura, come accennato, la ricorrente deduce che la pronuncia di condanna generica al risarcimento del danno presuppone l’accertamento in concreto dell’esistenza d’un danno, accertamento che nel caso di specie era mancato.
La censura è infondata in quanto, come già detto, presupposto della condanna generica ex art. 278 c.p.c. è la mera probabilità del danno, non la prova certa della sua esistenza.
Questa Corte, da molti anni e con orientamento costante, viene ripetendo che dinanzi ad una domanda di condanna generica al risarcimento del danno “l’attività e la indagine del giudice (…) è principalmente diretta ad acquisire la certezza giuridica sui punti pregiudiziali dell’illiceità e della colpa e, quindi, della responsabilità.
La pronunzia positiva sull’an debeatur si deve fondare sulla certezza giuridica dell’illiceità della condotta della persona contro la quale la condanna stessa viene pronunziata, e, quindi, sulla responsabilità di questa, sulla prova di un fatto idoneo, sia pure potenzialmente, a produrre conseguenze dannose, secondo un apprezzamento anche di semplice probabilità o di verosimiglianza dell’evento (…), nel senso che per la particolare natura dell’illecito sia legittimo presumere il verificarsi di dette conseguenze, la cui valutazione, in concreto sarà poi compiuta in sede di liquidazione, e sull’esistenza del nesso di causalità fra il comportamento illecito dell’agente ed il danno” (così, testualmente, ovvero Sez. 1, Sentenza n. 2507 del 09/08/1962).
E questa mera “potenzialità dannosa” del fatto illecito, per altrettanto pacifica giurisprudenza, prescinde dalla misura e anche dalla stessa concreta esistenza del danno, come già stabilito da queste Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 8545 del 03/08/1993; nello stesso senso, ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 21326 del 29/08/2018, Rv. 650031 – 01; Sez. 2 -, Ordinanza n. 6235 del 14/03/2018, Rv. 647851 – 01; Sez. L, Sentenza n. 1631 del 22/01/2009, Rv. 606294 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16123 del 14/07/2006, Rv. 591479 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9709 del 18/06/2003, Rv. 564383 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6257 del 02/05/2002, Rv. 554050 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 2724 del 25/02/2002, Rv. 552505 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 10453 del 01/08/2001, Rv. 548638 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 14454 del 06/11/2000, Rv. 541416 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 985 del 14/05/1962, Rv. 251626 – 01).
3.7. Sulla quinta censura (‘possibilità di qualificare come “danno aquiliano”, per l’erario, l’evasione d’un tributo).
Con la quinta censura del secondo motivo la ricorrente, come accennato, lamenta che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che nei reati tributari il danno patito dall’erario coincida col tributo evaso.
Deduce la ricorrente che la commissione d’un reato tributario non fa venir meno la perdita del credito erariale; che l’amministrazione finanziaria può sempre agire per la riscossione coattiva del tributo evaso; che pertanto l’esistenza d’un danno risarcibile potrebbe ammettersi soltanto se l’amministrazione deduca e dimostri che, in conseguenza del reato, abbia perduto irrimediabilmente il proprio credito tributario.
3.7.1. La quinta censura del terzo motivo del ricorso principale è una delle due che l’ordinanza 38711/21 ha ritenuto meritevole di essere sottoposta a queste Sezioni Unite.
A tale riguardo l’ordinanza di rimessione riferisce innanzitutto dell’esistenza d’un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte. Segnala che secondo Cass. pen. 5554/91 il “danno da reato”, di cui all’art. 185 c.p., derivante da un reato tributario, non coincide col tributo evaso, se non a due condizioni: che a causa del reato l’erario abbia perduto il credito tributario, e che il reo sia persona diversa dal debitore d’imposta.
Secondo Cass. pen. 52752/14, invece, la astratta possibilità di ravvisare il danno da reato nel tributo evaso deve ammettersi sempre, e non soltanto nel caso di non coincidenza tra reo e contribuente.
L’ordinanza di rimessione prosegue chiedendosi se, ad exemplum di quanto comunemente ammesso in tema di concorso dell’azione contrattuale di danno con quella aquiliana, non possa parimenti accordarsi all’erario la facoltà di scelta tra la riscossione coattiva del tributo e l’ordinaria azione di danno mediante costituzione di parte civile, e come debba ripartirsi nel relativo giudizio di danno l’onere della prova che il credito tributario sia andato perduto in conseguenza della commissione del reato.
L’ordinanza di rimessione conclude la propria illustrazione formulando – con riferimento a questo terzo motivo di ricorso – tre quesiti così riassumibili:
1) se e a quali condizioni il danno causato da una evasione fiscale coincida con l’imposta evasa;
2) se, in caso di evasione fiscale, l’amministrazione finanziaria abbia l’onere di procedere all’accertamento ed alla riscossione coattiva del tributo, o possa scegliere di agire ai sensi dell’articolo 2043 c.c. nei confronti del responsabile civile;
3) se nel giudizio di risarcimento del danno proposto dall’erario nei confronti dell’evasore o del suo correo debba essere l’amministrazione a dover dimostrare di aver perduto senza colpa il proprio credito in conseguenza del fatto illecito, oppure se debba essere il convenuto a dimostrare che l’erario non ha perduto il proprio credito tributario, ovvero l’ha perduto per propria colpa.
Tali questioni saranno esaminate separatamente.
3.7.2. (A) Evasione fiscale e azione aquiliana: il rapporto tra erario e contribuente.
Il debito d’imposta è una obbligazione scaturente dalla legge, ai sensi dell’art. 1173 c.c.. Non mette conto in questa sede seguire le sottilissime distinzioni dottrinarie sulla natura dell’atto d’accertamento o della autodichiarazione nella tassonomia delle fonti dell’obbligazione. Per l’art. 1173 c.c. le fonti dell’obbligazione possono essere solo tre: il contratto, il fatto illecito e la legge: e poiché l’obbligazione tributaria ovviamente non sorge né da contratti, né da fatti illeciti, è giocoforza inquadrarla nella terza.
Questa obbligazione ha ad oggetto una somma di denaro, ed è dunque una obbligazione pecuniaria.
Il creditore di una obbligazione pecuniaria, in caso di inadempimento, conserva il diritto di esigere coattivamente il proprio credito, ed acquista quello di pretendere il risarcimento del danno (art. 1218 c.c.).
Diritto alla prestazione e diritto al risarcimento del danno formano oggetto di due obbligazioni diverse: la prima nascente dalla legge, la seconda dall’inadempimento della prima.
Il creditore d’una obbligazione pecuniaria non perde il credito sol perché il debitore sia inadempiente: il debito di denaro è infatti debito di cosa generica, e genus numquam perit.
Il creditore d’una obbligazione pecuniaria, se questa resti inadempiuta, resta creditore e il suo credito conserva intatti fonte, struttura, contenuto e mezzi di tutela.
“Danno” in senso tecnico, invece, è il pregiudizio causato dall’inadempimento, non la prestazione dovuta. Ed infatti nelle obbligazioni pecuniarie il creditore che domandi la condanna del debitore non esercita un’azione di danno, ma un’azione di adempimento. La stessa esecuzione forzata non è un “risarcimento” per il creditore, ma la coattiva realizzazione di quel risultato non garantito spontaneamente dal debitore.
Dalla distinzione tra prestazione dovuta e risarcimento del danno discende che l’imposta non versata dall’evasore non costituisce – di norma – per l’erario un “danno” in senso tecnico.
In primo luogo perché il credito accertato e non adempiuto spontaneamente non è perduto, ma se ne potrà esigere l’esecuzione forzata.
In secondo luogo perché l’amministrazione finanziaria dispone d’una vasta gamma di strumenti sostanziali, processuali e cautelari per tutelare le proprie ragioni e riscuotere i propri crediti tributari. L’esistenza di tali strumenti, e la concreta possibilità di ricorrervi, impedirà di norma all’erario di pretendere a titolo di risarcimento del danno l’importo dell’imposta evasa. Gli atti di imposizione o di accertamento compiuti dall’amministrazione finanziaria le consentiranno infatti di procedere alla riscossione coattiva del tributo, e soddisfarsi sul patrimonio del debitore ai sensi dell’art. 2740 c.c..
In terzo luogo, perché l’amministrazione finanziaria è titolata ad emettere provvedimenti idonei ad acquistare ex se l’efficacia del titolo esecutivo, ed il creditore munito di titolo esecutivo senza utilità ne pretenderebbe un secondo, sicché un’azione di danno sarebbe inammissibile per difetto di interesse.
In definitiva, nei rapporti tra l’erario ed il contribuente che abbia commesso un reato tributario, il capitale dovuto da quest’ultimo a titolo d’imposta costituisce l’oggetto dell’obbligazione tributaria, non un “danno” che a quella vada ad aggiungersi ai sensi dell’art. 1218 c.c..
Dunque in tutti i casi in cui l’amministrazione non abbia perduto il diritto di agire esecutivamente nei confronti del debitore, e questi abbia un patrimonio capiente, il danno causato dal reato non può ravvisarsi nell’importo del tributo evaso.
3.7.3. Si è già detto che il debito del contribuente verso l’erario è una obbligazione pecuniaria.
L’evasione del tributo costituisce dunque inadempimento d’una obbligazione pecuniaria, e l’inadempimento d’una obbligazione pecuniaria può generare un solo tipo di danni patrimoniali: quelli disciplinati dall’art. 1224 c.c..
Nell’ordinamento tributario gli interessi di mora formano oggetto di una disciplina ad hoc, che deroga all’art. 1224, primo comma, c.c. quanto a saggio applicabile e decorrenza (art. 13, comma 3, d. Lgs. 24.9.2015 n. 159).
Anche il credito per interessi moratori, tuttavia, deve essere obbligatoriamente liquidato e riscosso secondo le forme della riscossione delle imposte. E l’esistenza di tale obbligo esclude che di tale credito si possa chiedere la liquidazione al giudice penale, a titolo di risarcimento del danno da reato, per le stesse ragioni già esposte al § precedente.
3.7.4. Non può tuttavia escludersi che l’evasione fiscale possa causare all’erario un pregiudizio ulteriore o diverso rispetto a quello ristorato dagli interessi di mora, e per il quale non sia possibile ricorrere agli strumenti dì riscossione coattiva previsti dal diritto tributario.
Tali ipotesi, avendo ad oggetto un danno diverso od ulteriore rispetto a quello ristorato ope legis dagli interessi di mora, rientrano nell’ipotesi del “maggior danno” di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c..
Infatti il secondo comma dell’art. 1224 c.c. è espressione d’un precetto generale. Pertanto in assenza di norme che ad esso deroghino espressamente è applicabile anche alle obbligazioni tributarie, come ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 4131 del 20.2.2009; Sez. 5, Sentenza n. 14909 del 28.6.2007; Sez. 5, Sentenza n. 10783 del 11.5.2007; Sez. 5, Sentenza n. 17919 del 6.9.2004; Sez. 5, Sentenza n. 2087 del 04/02/2004). Quale possa essere nel caso concreto questo “maggior danno” non è ovviamente possibile stabilire a priori. Esso potrà sussistere – ad esempio – allorché in presenza di forti fenomeni inflazionistici l’Amministrazione alleghi e dimostri che la tardiva riscossione del tributo le abbia impedito di adottare adeguate misure per salvaguardare il valore reale del proprio credito; oppure allorché l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilità giuridica o di fatto di riscuotere il credito erariale, per decadenza od altra causa (beninteso, sempre che non ricorrano le condizioni per ritenere prorogato il dies a quo del termine di decadenza, come stabilito in tema di dazi doganali da Corte giust. UE, 16 luglio 2009, in cause C-124/08 e C- 125/08, Gilbert Snauwaert e altri, e come già ritenuto da questa Corte: Sez. 5 -, Sentenza n. 25979 del 15/10/2019, Rv. 655445 – 01).
Va però escluso che il “maggior danno” di cui si discorre possa ritenersi in re ipsa ed identificarsi nel c.d. “danno funzionale” (e cioè nel “turbamento dell’attività amministrativa” conseguito all’attività di accertamento dell’evasione).
L’attività di accertamento è infatti una delle funzioni per le quali gli uffici dell’amministrazione finanziaria sono costituiti e finanziati, e non può ritenersi “danno” ex art. 1218 c.c. lo svolgimento proprio di quell’attività per la quale una struttura amministrativa è costituita.
Un “maggior danno” ex art. 1224, comma secondo, c.c., derivante dalla commissione d’un reato tributario, potrà dunque ammettersi solo a condizione che l’amministrazione deduca e dimostri l’esistenza d’uno specifico pregiudizio, che sia conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.), ulteriore o diverso rispetto a quello costituito dal costo della propria normale attività istituzionale (come già ritenuto dalle Sezioni penali di questa Corte: in tal senso, Sez. 5 pen., Sentenza n. 3555 del 1°.2.2022; Sez. 3, Sentenza n. 52752 del 19.12.2014).
3.7.4.1. Le conclusioni che precedono ricevono indiretta conferma dall’evoluzione del quadro normativo.
L’art. 6 del d.l. 31.12.1996 n. 669 (convertito nella I. 28.2.1997, n. 30) stabilì come dovesse effettuarsi il risarcimento spontaneo del danno, nell’ambito del processo penale per reati tributari, chiarendo che degli importi a tal fine versati dovesse “tenersi conto” nella liquidazione dell’imposta dovuta in base all’accertamento tributario.
Tale norma suscitò in parte della dottrina la convinzione che in presenza d’un reato tributario, il “danno da reato” di cui all’art. 185 c.p. consistesse per l’appunto nell’imposta evasa.
La norma, tuttavia, ebbe vita breve, dal momento che fu successivamente abrogata dall’articolo 25, comma 1, lettera m), del d. lgs. 10.3.2000, n. 74, e sostituita dalla introduzione (art. 14 d. lgs. cit.) d’una circostanza attenuante, rappresentata dallo spontaneo versamento di un importo indicato dallo stesso imputato, a titolo di “equa riparazione” nell’ipotesi in cui il credito erariale fosse andato perduto per prescrizione o decadenza.
Ora, se l’imputato d’un reato tributario è ammesso a versare del denaro all’erario a titolo di “equa riparazione” solo quando il credito tributario sia andato perduto, mentre tale facoltà non è prevista nel caso in cui l’erario abbia conservato le proprie ragioni di credito, ciò dimostra indirettamente che solo nel primo, ma non nel secondo caso, il legislatore ha ritenuto ipotizzabile un “danno da inadempimento”, diverso dall’imposta non versata.
3.7.4.2. Resta solo da aggiungere che, ovviamente, ai fini del problema qui in esame non vengono in rilievo le opinioni contenute nella Circolare del Ministero delle Finanze 4 agosto 2000 n. 154.
Con tale Circolare l’amministrazione finanziaria ha ritenuto di fornire “istruzioni operative” agli Uffici finanziari interpretando il d. lgs. 74/2000, e affermando (al § 7.1) che nel caso di costituzione di parte civile degli uffici finanziari le domande da essi avanzate dinanzi al giudice penale, “per quanto non possano essere rappresentate, di per sé, dall’esercizio della pretesa tributaria, potranno avere come contenuto (…) una richiesta di risarcimento del danno coincidente con il debito tributario”.
Ma va da sé, per un verso, che il concetto di “danno risarcibile” ed i suoi limiti sono stabiliti dalla legge (artt. 1223 e ss. c.c.), e non possono essere modulati per mezzo d’un atto, quale la Circolare, che non è fonte del diritto; per altro verso la suddetta Circolare prevede la mera possibilità, ma non certo la necessità, che il danno patito dall’erario coincida col tributo evaso. Possibilità che, per quanto detto, deve ammettersi nelle residuali ipotesi indicate supra, al § 3.7.4.
3.7.5. In conclusione, nel rapporto tra il contribuente e l’erario il danno patrimoniale da evasione penalmente rilevante di cui l’amministrazione finanziaria può chiedere il risarcimento è necessariamente diverso dall’imposta evasa, dalle sanzioni e dagli interessi moratori previsti dalla legislazione speciale, e potrà consistere solo negli eventuali ulteriori o diversi pregiudizi sopportati dalla p.a..
Tali pregiudizi rientrano nella previsione di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c., non sono in re ipsa e vanno allegati e dimostrati in modo preciso.
Il danno non patrimoniale da evasione penalmente rilevante, ovviamente, resta soggetto alle regole di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p..
3.7.6. CB) Evasione fiscale e azione aquiliana: il rapporto tra erario e reo diverso dal contribuente.
Resta da dire dell’ipotesi in cui il reato tributario sia stato commesso da, o col concorso di, persona diversa dal contribuente.
3.7.7. All’esame della questione va premesso che sul punto non sussiste il contrasto tra i due precedenti segnalati dall’ordinanza di rimessione (Cass. pen. 5554/91 e Cass. pen. 52752/14).
La sentenza 5554/91, avente ad oggetto una imputazione per false fatturazioni, si limitò infatti ad affermare il principio secondo cui il danno patito dall’amministrazione finanziaria in conseguenza d’un reato tributario non coincide col tributo evaso, ma consiste nello “sviamento e turbamento dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’accertamento tributario” (Sez. 3 pen., Sentenza n. 5554 del 22/04/1991, Rv. 187973 – 01).
Quella decisione non si occupò del problema della coincidenza soggettiva tra autore del reato e debitore d’imposta, e non affermò affatto che il danno da reato tributario coincide con l’imposta evasa “quando il soggetto attivo del reato e il soggetto passivo del tributo non coincidono”.
Questa testuale affermazione, mai compiuta dalla sentenza 5554/91, le venne attribuita da una sentenza di merito: quella cassata da Cass. pen. 52752/14.
Nel caso deciso da quest’ultima decisione l’Agenzia delle Entrate si era costituita parte civile nel procedimento penale a carico d’un contribuente che, falsificando le scritture contabili, aveva evaso l’IVA.
Il giudice di merito tuttavia rigettò la domanda di danno proposta dall’erario, affermando che un danno si sarebbe potuto risarcire solo “quando il soggetto attivo del reato e il soggetto passivo del tributo non coincidono”, ed attribuendo (erroneamente) tale affermazione a Cass. pen. 5554/91.
La sentenza 52752/14, cassando tale decisione di merito, affermò il principio che il danno causato da un reato tributario può in determinati casi consistere anche nell’importo del tributo evaso, quando la commissione del reato abbia avuto per effetto l’impossibilità per l’erario di recuperarne l’importo con gli ordinari mezzi di riscossione: e ciò a prescindere dal fatto che reo e contribuente coincidano o no.
3.7.8. Venendo dunque al merito della questione, occorre muovere dal rilievo che l’erario nei confronti del contribuente vanta un credito pecuniario.
Se dunque l’evasione è agevolata o concausata da un terzo, non possono che darsi due possibilità: o il credito tributario resta esigibile, oppure la sua esazione in conseguenza del reato è divenuta impossibile o di difficile realizzo. Nel primo caso non è ipotizzabile alcun danno. Nel secondo caso, se in conseguenza dell’evasione l’erario perde la possibilità di riscuotere il proprio credito, ecco che il terzo avrà arrecato all’erario un pregiudizio che non può definirsi altrimenti che “danno da lesione del credito”.
Il danno da lesione del credito ha tre presupposti: l’esistenza d’un credito; la sopravvenuta impossibilità (fattuale o giuridica) della sua esazione; un nesso di causa tra l’illecito e la perdita del credito (principio pacifico: così già Sez. 1, Sentenza n. 2938 del 13/06/1978, e poi sempre conforme).
Il terzo correo del reato tributario potrà quindi essere chiamato a rispondere nei confronti dell’erario:
a) del danno da perdita del credito tributario, se sia dimostrato che in assenza della condotta illecita l’amministrazione finanziaria avrebbe potuto esigere il proprio credito dal contribuente, secondo la regola causale della preponderanza dell’evidenza;
b) di eventuali ed ulteriori danni diversi dal tributo evaso, ai sensi dell’art. 1224, comma secondo, c.c., secondo quanto esposto al § 3.7.4 che precede;
c) nel caso di corresponsabilità penale, del danno non patrimoniale di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p..
3.7.9. CC) Sull’alternatività tra riscossione coattiva del tributo ed azione aquiliana.
Deve escludersi che, nel caso di reati tributari, l’erario possa scegliere tra la riscossione coattiva del tributo e l’azione aquiliana, per la ragione che questa alternativa non è mai data.
Nei confronti del contribuente, infatti, l’alternativa tra riscossione coattiva e azione di danno è esclusa dalla già rilevata circostanza che il “danno” in senso tecnico causato dall’evasore all’erario non coincide con l’imposta evasa (supra, § 3.7.2).
Se si ammette che quella tributaria è una obbligazione rientrante nel novero di cui all’art. 1173 c.c., si dovrà conseguentemente ammettere che il tributo non riscosso è la prestazione dovuta dal contribuente, non il danno che dall’inadempimento è derivato.
Nel caso di evasione fiscale dunque non vi può essere alcuna scelta da parte dell’erario tra la riscossione coattiva e l’azione di danno, perché l’azione aquiliana è inutilizzabile per ottenere l’esatta esecuzione della prestazione dovuta.
Nel caso, poi, in cui l’erario abbia diritto di agire ai sensi dell’art. 1224, comma secondo, c.c., per pretendere il ristoro del maggior danno secondo quanto esposto in precedenza, nemmeno è data alcuna facoltà di scelta, perché le forme speciali della riscossione coattiva dei tributi non consentono di esigere il ristoro del “maggior danno” di cui alla norma citata: e dunque la scelta dell’azione ordinaria di danno non avrebbe alternative.
3.7.10. Anche nei confronti di eventuali correi (ex art. 110 c.p) o corresponsabili (ex art. 2055 c.c.) dell’evasione non è possibile alcuna alternativa tra riscossione coattiva del credito tributario e azione di danno. Delle due, infatti l’una:
-) se l’erario ha titolo, in base alla legislazione di settore, per agire in executivis nei confronti di persona diversa dal contribuente, l’esistenza di tale titolo rende inconcepibile l’azione di danno, secondo quanto già detto al § 3.7.2;
-) se l’erario non ha titolo per agire in executivis nei confronti del responsabile diverso dal contribuente, la via dell’azione aquiliana è obbligata e non vi saranno alternative possibili.
3.7.11. (D) Sull’onere della prova.
Dai princìpi sin qui esposti discende la soluzione dell’ultima questione di particolare importanza segnalata dall’ordinanza di rimessione, ovvero come debba ripartirsi l’onere della prova nei giudizi tra l’erario, l’evasore e il terzo correo (o corresponsabile dell’evasione).
3.7.12. Tra erario e contribuente, poiché l’unico danno (patrimoniale) risarcibile è quello di cui all’art. 1224, secondo comma, c.c., spetterà all’erario dimostrarne l’esistenza, l’entità e la derivazione causale dal fatto illecito.
3.7.13. Tra erario e terzo corresponsabile dell’evasione, come s’è visto il fatto costitutivo della pretesa è la perduta possibile di esigere, in tutto od in parte, il credito tributario nei confronti del contribuente. Spetterà dunque all’erario dimostrare la titolarità del credito; la perdita di questo per fatto del terzo; il nesso di causa tra condotta del terzo e perdita del credito.
Se poi l’erario, per negligenza, trascuri di riscuotere il proprio credito; incorra colpevolmente in prescrizione o decadenze; trascuri di avvalersi degli strumenti di conservazione della garanzia patrimoniale, tali condotte saranno concausative del danno (che è la perdita del credito), e non aggravative di esso. Rientreranno pertanto nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 1227 c.c., e spetterà al convenuto eccepire e dimostrare che l’erario ha perso il credito per propria negligenza, ai sensi della norma appena citata.
3.8. Alla luce di quanto esposto nei § 3.7 e ss., la quinta censura del terzo motivo di ricorso deve essere accolta.
[Omissis], infatti, in quanto reputata “colpevole del contrabbando”, era debitrice del dazio doganale, giusta la previsione dell’art. 338 d.p.r. 23.1.1973 n. 43.
Nei suoi confronti pertanto l’erario vantava un credito tributario. L’evasione non estingue di per sé il credito erariale, per quanto già detto: e dunque l’accoglimento della domanda di danno avrebbe imposto al giudice di merito di accertare la probabile esistenza di un “maggior danno” ex art. 1224, comma secondo, c.c..
Naturalmente, trattandosi di un giudizio limitato all’an debeatur, tali accertamenti sarebbero potuti avvenire anche solo in via probabilistica, secondo quanto già detto; tuttavia non era consentito al giudice di merito parametrare tout court il risarcimento del danno all’imposta evasa.
3.9. Il terzo motivo di ricorso va dunque accolto in parte, in applicazione dei seguenti princìpi di diritto:
a) ai fini dell’accoglimento della domanda di condanna generica al risarcimento del danno è sufficiente che l’attore dimostri la colpa e il nesso causale; mentre è sufficiente che l’esistenza del danno appaia anche solo probabile;
b) ai fini dell’ammissibilità della domanda di condanna generica al risarcimento del danno non è necessario che l’attore indichi le prove di cui intende avvalersi per dimostrare il quantum debeatur;
c) il danno civile all’immagine della pubblica amministrazione può essere arrecato tanto da un pubblico funzionario, quanto da persona estranea all’amministrazione stessa, ed è risarcibile in ambo i casi;
d) il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso dal contribuente o da persona che del fatto di quest’ultimo debba rispondere direttamente nei confronti dell’erario, non può farsi coincidere automaticamente con il tributo evaso, ma deve necessariamente consistere in un pregiudizio ulteriore e diverso”, ricorrente qualora l’evasore abbia con la propria condotta provocato l’impossibilità di riscuotere il credito erariale;
e) il danno causato dall’evasione fiscale, allorché questa integri gli estremi di un reato commesso da persona diversa dal contribuente e non altrimenti obbligata nei confronti dell’erario, può coincidere sia con il tributo evaso, sia con ulteriori pregiudizi, ma nella prima di tali ipotesi il risarcimento sarà dovuto a condizione che l’erario alleghi e dimostri la perdita del credito o la ragionevole probabilità della sua infruttuosa esazione;
f) nel giudizio di danno promosso dall’erario nei confronti di persona diversa dal contribuente, cui venga ascritto di avere concausato la perdita del credito erariale, spetta all’amministrazione provare l’esistenza del credito, la perdita di esso ed il nesso causale tra la lesione del credito e la condotta del convenuto; spetta, invece, al convenuto dimostrare che la perdita del credito sia avvenuta per negligenza dell’amministrazione, negligenza che rientra nella previsione di cui all’art. 1227, primo comma, c.c.”.
4. Il quarto motivo del ricorso principale.
Anche col quarto motivo la ricorrente principale prospetta due diverse censure.
4.1. Con una prima censura la ricorrente lamenta la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.
Deduce che le amministrazioni costituitesi parti civili avevano posto a fondamento delle rispettive pretese risarcitorie la seguente condotta illecita: avere contrabbandato banane, mediante l’utilizzazione di certificati “AGRIM” rilasciati a “nuovi operatori”.
La Corte d’appello, per contro, ha posto a fondamento della condanna una condotta diversa, e cioè l’avere dissimulato una illecita compravendita di certificati “AGRIM”.
4.1.1. Il motivo è infondato.
Esso, infatti, pretende di esaltare una differenza puramente formale tra petitum e decisum.
Non vi è infatti differenza sostanziale tra il fatto di “contrabbandare banane utilizzando benefici non dovuti” (tale fu la condotta dedotta in giudizio dalle parti civili), e Ì “utilizzare benefici non dovuti per contrabbandare banane” (ovvero la condotta ritenuta dalla Corte d’appello).
4.2. La seconda censura, secondo l’unica interpretazione che questa Corte ritiene plausibile, si può così riassumere:
-) la Corte d’appello ha, nello stesso tempo, da un lato ritenuto che la società diretta da [Omissis] avesse illecitamente acquistato certificati “AGRIM”; e dall’altro ritenuto sussistere, a carico di [Omissis], l’aggravante di aver commesso il contrabbando in connessione con altro delitto contro la fede pubblica, nella specie consistente nella falsificazione dei suddetti certificati;
-) tale valutazione fu contraddittoria, dal momento che l’illecita compravendita di certificati veri escludeva la possibilità di contestare l’aggravante di aver falsificato i medesimi certificati, -) tale errore della Corte d’appello “si riflette in maniera assai rilevante sul risarcimento del danno richiesto dalle parti civili”.
4.2.1. Il motivo è inammissibile per più di una ragione.
In primo luogo è inammissibile per irrilevanza: ed infatti la censura non espone per quali ragioni la pretesa contraddittorietà segnalata dalla ricorrente abbia inciso sulla misura della provvisionale.
In secondo luogo è inammissibile in quanto non si comprende perché mai questo errore costituisca una violazione dell’articolo 112 c.p.c.. Le parti civili formularono una domanda (generica) di danno, e su una domanda (generica) di danno la Corte d’appello ha provveduto. Divergenza tra chiesto e pronunciato, dunque, non vi fu; lo stabilire poi se la Corte d’appello abbia giudicato bene o male nel liquidare la provvisionale è questione che resta assorbita dall’accoglimento del terzo motivo di ricorso.
In terzo luogo il motivo è inammissibile per difetto di decisività: nel presente giudizio, infatti, si discorre unicamente della sussistenza d’una condotta illecita e dei danni da essa in tesi derivati, sicché è irrilevante stabilire se ricorrano o no gli estremi di questa o quella aggravante del fatto-reato. Il risarcimento del danno infatti non è una sanzione, e prescinde dall’esistenza di circostanze aggravanti od attenuanti, così come prescinde dall’intensità del dolo o dalla gravità della colpa.
5. Il quinto motivo di ricorso principale.
Col quinto motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la violazione dell’articolo 1 d.lgs. 8/16, in relazione all’articolo 25 Cost. ed all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea.
5.1. L’illustrazione del motivo prospetta una tesi che possiamo riassumere come segue:
-) i fatti contestati a [Omissis] risalgono al 2000;
-) nel 2016 il legislatore depenalizzò numerosi reati con il d.lgs. 15.1.2016 n. 8;
-) tale provvedimento stabilì che:
–) i reati puniti con la sanzione pecuniaria fossero depenalizzati;
–) i reati puniti con la sanzione pecuniaria per l’ipotesi di base, e con la pena detentiva per le ipotesi aggravate, fossero depenalizzati solo per l’ipotesi di base;
–) i reati puniti con la sanzione pecuniaria per l’ipotesi di base, e la pena detentiva per le ipotesi aggravate, fossero considerati fattispecie autonoma di reato limitatamente alle ipotesi aggravate;
-) poiché a [Omissis] venne contestata un’ipotesi aggravata del delitto di contrabbando, per la quale la legge prevedeva anche la pena detentiva, ella non potè beneficiare del provvedimento di depenalizzazione;
-) la legge di depenalizzazione, pertanto, per effetto della previsione di cui all’articolo 1, secondo comma, finì per assoggettare l’odierna ricorrente ad “un trattamento in concreto più sfavorevole” rispetto agli altri imputati del medesimo reato, cui non era stata contestata l’aggravante di cui all’articolo 295, secondo comma, lettera c), d.p.r. 42/73.
5.3. Il motivo è inammissibile per più ragioni.
In primo luogo è inammissibile perché impugna una statuizione che nella sentenza impugnata non c’è.
La sentenza impugnata, infatti, non si è affatto occupata del problema della inapplicabilità a [Omissis] della legge di depenalizzazione di cui al d. lgs. 8/16.
In secondo luogo è inammissibile perché sulla questione si è formato il giudicato interno.
Che [Omissis] non potesse beneficiare della legge di depenalizzazione è statuizione contenuta nella decisione di questa Corte con cui venne cassata la prima sentenza d’appello (penale), ovvero Cass. pen. 35575/16.
Il motivo pertanto invoca una pronuncia che avrebbe l’effetto di modificare le statuizioni d’una pronuncia di questa Corte in sede penale.
6. Il sesto motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale condizionato.
Col sesto motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360, n. 3, c.p.c., la “violazione delle decisioni CE 728/94 e 597/00”.
Il motivo censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha condannato la ricorrente al risarcimento del danno in favore del Ministero delle finanze.
Deduce la ricorrente che l’imposta evasa costituiva un’entrata propria dell’unione Europea, non del Ministero delle finanze; sicché la sentenza impugnata non avrebbe potuto da un lato affermare che la Commissione non avesse “offerto alcuna prova del danno subito”, e dall’altro condannare la convenuta al risarcimento del danno in favore del Ministero delle finanze.
6.1. Con riferimento a tale motivo di ricorso la Terza Sezione civile di questa Corte ha chiesto di stabilire, qualora si ammetta che il danno causato all’erario dal reato di contrabbando possa consistere nel tributo evaso, “se la pretesa risarcitoria debba riconoscersi in capo all’unione europea ovvero in capo allo Stato membro cui attribuito il compito della relativa riscossione”.
6.2. Il motivo è fondato.
A partire dal 1970 (decisione del Consiglio del 21 aprile 1970, n. 70/243), l’Unione Europea si è dotata di un sistema di finanziamento autonomo e diretto, attraverso le c.d. “risorse proprie”, e cioè entrate autonome rispetto alle finanze degli Stati membri.
Nell’ambito del sistema delle “risorse proprie”, l’art. 2, lettera (b), della Decisione del Consiglio 94/728/CE, Euratom (abrogata dall’art. 10 della Decisione 29/09/2000 n. 597, ma applicabile ratione temporis ai fatti di causa), stabilì che costituiscono entrate proprie dell’unione, tra le altre, “dazi della tariffa doganale comune e da altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni delle Comunità sugli scambi con i paesi terzi e dazi doganali sui prodotti rientranti nel trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio”.
Il successivo art. 8 della medesima Decisione attribuì agli Stati membri il mero compito di provvedere alla riscossione “conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, eventualmente adattate alle esigenze della normativa comunitaria”.
Da ciò consegue che qualunque fatto illecito che abbia per effetto la perdita del credito tributario avente ad oggetto un tributo “proprio” dell’unione Europea costituisce un danno per quest’ultima.
Lo Stato italiano, tramite i suoi organi, è certo legittimato a domandare tale risarcimento, ma ovviamente nella qualità di soggetto incaricato della riscossione. Nel presente giudizio, però, la domanda è stata formulata direttamente dalla Commissione Europea, sicché a quest’ultima andava riconosciuta la qualità di creditore del diritto al risarcimento del danno.
In tal senso deve pertanto darsi risposta all’interrogativo posto dall’ordinanza di rimessione circa il problema della legitimatio ad causam.
6.3. La fondatezza del sesto motivo di ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato proposto dalla Commissione Europea.
7. Il settimo motivo del ricorso principale.
Il settimo motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha determinato la misura della provvisionale.
Con tale motivo la ricorrente sostiene che la sentenza d’appello, su questo punto, è priva di motivazione e di conseguenza nulla ex art. 132 c.p.c..
Deduce che non è possibile ricostruire l’iter logico-giuridico seguito dalla Corte d’appello per pervenire alla quantificazione del danno nella misura di 3,8 milioni di euro; e comunque tale importo non trova alcun riscontro negli atti di causa.
7.1. Con riferimento a tale motivo di ricorso la terza sezione civile della Corte di cassazione ha chiesto alle sezioni unite di stabilire “in presenza di quali presupposti, nel caso di translatio del processo dinanzi al giudice civile ex art. 622 c.p.p., possa accordarsi la provvisionale richiesta dalle amministrazioni danneggiate al momento della costituzione di parte civile nel processo penale”.
A tal riguardo l’ordinanza di rimessione osserva che, una volta trasferito il giudizio penale dinanzi al giudice civile ai sensi della norma appena ricordata, dovevano trovare applicazione le regole del processo civile e, con esse, quella di cui al secondo comma dell’articolo 278 c.p.c., in virtù della quale la condanna provvisionale ivi prevista esige il raggiungimento della prova concreta ed effettiva del danno.
7.2. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del terzo motivo di ricorso. Reputa tuttavia utile il Collegio dare risposta alle due questioni poste dall’ordinanza di rimessione.
La prima di esse (se il giudice civile, in sede di rinvio ex art. 622 c.p.p., possa pronunciare una condanna provvisionale) trova risposta affermativa in base alle osservazioni già svolte supra, ai §§ 2.4 e ss., con riferimento al secondo motivo di ricorso.
Quanto alla seconda questione (quale prova debba essere fornita dal creditore, per invocare la provvisionale di cui all’art. 278 c.p.c., nel caso di danno da reato tributario), la risposta ad essa deve muovere dal rilievo già svolto, secondo cui il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. si celebra con le regole del processo civile, e tra queste regole rientra l’art. 278, secondo comma c.p.c.: dunque il giudice civile una provvisionale può concederla “nei limiti in cui ritiene raggiunta la prova”.
Questo principio non è in contrasto con il precedente invocato dall’ordinanza di rimessione (e cioè Cass. pen. 52752/14).
Quella sentenza, infatti, non ha affermato che la condanna al pagamento d’una provvisionale possa pronunciarsi anche in assenza di prova.
Ha affermato (richiamando una massima tralatizia della giurisprudenza civile) che la condanna generica (e non la condanna provvisionale) al risarcimento del danno possa pronunciarsi anche quando “il fatto-reato appaia solo potenzialmente produttivo di conseguenze dannose”.
Affermazione, quest’ultima, che non contrasta con la regola processuale di cui al secondo comma dell’articolo 278 c.p.c..
Pertanto:
a) per l’accoglimento della domanda generica di danno è sufficiente che l’esistenza d’un danno sia probabile;
b) per l’accoglimento dell’istanza di provvisionale ex art. 278 c.p.c. è necessario che l’esistenza d’un danno sia certa, almeno in parte.
8. L’ottavo motivo del ricorso principale.
Con l’ottavo motivo la ricorrente prospetta la violazione dell’articolo 115 c.p.c. Anche con questo motivo è censurata la sentenza d’appello nella parte in cui ha quantificato il danno e, di conseguenza, la misura della provvisionale.
Nella illustrazione del motivo si sostiene che tale quantificazione sarebbe erronea per molteplici ragioni:
-) la quantificazione del tributo evaso compiuta dalla Corte d’appello era superiore a quella che si sarebbe dovuta desumere dal “prospetto sinottico” depositata dalle stesse parti civili;
-) la Corte d’appello aveva ritenuto di desumere la prova della natura simulata delle transazioni commerciali tra la società amministrata da [Omissis] e gli importatori “nuovi arrivati” da una serie di circostanze di fatto erroneamente ritenute “non contestate”.
8.1. La censura resta assorbita dall’accoglimento del terzo motivo di ricorso.
9. Nei rapporti tra [Omissis] e le controparti, le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.
Nei rapporti tra [Omissis] e le controparti le spese del presente giudizio vanno compensate interamente tra le parti, in considerazione della novità delle questioni disputate e della circostanza che il ricorso dichiarato inammissibile aveva un contenuto pressoché sovrapponibile a quello di [Omissis], sicché le amministrazioni controricorrenti non hanno dovuto svolgere difese ulteriori per resistere al ricorso di [Omissis].
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) accoglie il terzo ed il sesto motivo del ricorso principale, nei limiti indicati in motivazione;
(-) rigetta il primo, il secondo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale; dichiara assorbiti il settimo e l’ottavo;
(-) dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato;
(-) dichiara inammissibile il ricorso proposto da [Omissis];
(-) cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di [Omissis], in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità relativamente al rapporto tra le amministrazioni e [Omissis];
(-) compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità tra [Omissis] e le amministrazioni qui controricorrenti;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di [Omissis] di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.