Il datore di lavoro che contesta la richiesta risarcitoria del dipendente deve provare l’aliunde perceptum Cass. Civ., Sez. Lav., 12/05/2020, n. 880

By | 02/07/2020

CASS. CIV., SEZ. LAV., 12/05/2020, N. 8801

«Il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito.

La deduzione dell’aliunde non integra un’eccezione in senso stretto, ben potendo essere rilevata dal giudice anche in assenza di eccezione di parte, comunque presupponendo l’allegazione da parte del datore di lavoro di circostanze di fatto specifiche, sulla base di indicazioni puntuali, essendo inammissibili richieste probatorie generiche o meramente esplorative» (Massima non ufficiale)

RILEVATO:

che:

con sentenza in data 30 maggio 2016, la Corte d’appello di [Omissis] dichiarava nulla dovuto a [Omissis], [Omissis] e [Omissis] sulla base dei decreti ingiuntivi dai medesimi ottenuti dal Tribunale di [Omissis] nei confronti di [Omissis] s.p.a. sulla base della sentenza dello stesso Tribunale del [Omissis], n. [Omissis] di accertamento dell’illegittimità della cessione dei contratti di lavoro dei predetti dalla società citata a [Omissis] (ora [Omissis] s.p.a.), con ordine di loro reintegrazione nel posto di lavoro e di adibizione alle mansioni svolte prima del settembre 2006 o equivalenti e di condanna al risarcimento del danno, in loro favore, in misura delle retribuzioni non percepite dal 19 giugno 2006, comprensive dell’indennità riconosciuta dall’accordo 19 luglio 2000 e del superminimo individuale, con detrazione di quanto percepito alle dipendenze di [Omissis] e poi di [Omissis]: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato le riunite opposizioni di [Omissis] s.p.a. ai predetti decreti ingiuntivi;

avverso tale sentenza i lavoratori, con atto notificato il 29 novembre 2016, ricorrevano per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c., cui [Omissis] s.p.a. resisteva con controricorso.

CONSIDERATO:

che:

1. i ricorrenti deducono nullità della sentenza per vizio di ultrapetizione in violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto una violazione degli obblighi di correttezza e buona fede nella mancata ricerca fattiva di una nuova occupazione, in ordine all’aliunde percipiendum, negando l’esistenza di un danno risarcibile, in difetto di eccezione della società datrice cedente e di una conclusione in tale senso, essendosi limitata ad una richiesta di riduzione della condanna al risarcimento (primo motivo);

2. esso è infondato;

2.1. in via di premessa, il potere-dovere del giudice di inquadrare nella esatta disciplina giuridica i fatti e gli atti che formano oggetto della contestazione incontra il limite del rispetto del petitum e della causa petendi, sostanziandosi nel divieto di introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, sicché il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass. 24 settembre 2015, n. 18868; Cass. 11 aprile 2018, n. 9002; Cass. 21 marzo 2019, n. 8048);

2.2. nel caso di specie, non sussiste il vizio denunciato, avendo la società datrice, cedente il ramo d’azienda interessante i lavoratori, allegato la circostanza dell’aliunde percipiendum tanto in primo che in secondo grado: come risulta dalla sentenza impugnata (ultimo capoverso di pg. 1 e secondo capoverso di pg. 8 della sentenza), ma pure da quanto dedotto dagli odierni ricorrenti (a pg. 8 del ricorso), oltre che dalla società controricorrente (sub n. 3 dal penultimo capoverso di pg. 3 al terzo di pg. 4 del controricorso);

3. i ricorrenti deducono poi nullità della sentenza per violazione degli artt. 115,414 e 416 c.p.c., art. 2697 c.c., per erronea ripartizione dell’onere probatorio, spettante (puri per presunzioni semplici) al datore di lavoro anche in ordine all’aliunde percipiendum in riferimento alla mancata ricerca dai lavoratori di una nuova occupazione, essendosi [Omissis] s.p.a. limitata ad una generica allegazione, nonché per non corretta applicazione del principio di “non contestazione”, in merito alla medesima circostanza, oggetto di considerazioni assolutamente generiche, di mero stile, senza deduzione di alcun fatto specifico (diverso dal reperimento di una nuova occupazione, immediatamente contestato e pure contraddittorio con l’allegata inerzia: per l’alternatività delle eccezioni di aliunde perceptum e percipiendum, in relazione allo stesso intervallo temporale), sussistendo l’onere del convenuto di “prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione” esclusivamente rispetto ai “fatti affermati dall’attore a fondamento della sua domanda”, ai sensi dell’art. 416 c.p.c., comma 3 (secondo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 1183,1218 e 1227 c.c., per addebito ai lavoratori creditori, a titolo di concorso nel danno subito, dell’omesso sollecito alla datrice debitrice inadempiente, senza necessità di un tale onere, consistendo il tempo di adempimento in materia di retribuzioni nella fine di ciascun mese di prestazione o nell’inizio del mese ad essa successivo (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1227,2697 e 2729 c.c., per erronea assunzione della negligenza dei lavoratori nella ricerca di altra occupazione, che avrebbe eliminato integralmente il danno subito, con esonero della datrice dalla prova della possibilità dei predetti di percepire una retribuzione pari a quella perduta (quarto motivo);

4. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono inammissibili;

4.1. è noto, per principio di diritto comunemente ritenuto che, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore sia onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’aliunde perceptum o dell’aliunde percipiendum, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito (Cass. 17 novembre 2010, n. 23226; Cass. 12 maggio 2015, n. 9616); e che la deduzione dell’aliunde non integri un’eccezione in senso stretto, ben potendo essere rilevata dal giudice anche in assenza di eccezione di parte, comunque presupponendo l’allegazione da parte del datore di lavoro di circostanze di fatto specifiche (Cass. 4 dicembre 2014, n. 25679), sulla base di indicazioni puntuali, essendo inammissibili richieste probatorie generiche o meramente esplorative (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2499);

4.2. la Corte territoriale ha esattamente applicato i suenunciati principi, con particolare riguardo alla spettanza datoriale dell’onere probatorio in materia ed alla qualità della sua modulazione (al terzo capoverso di pg. 8 della sentenza), operando quindi un accertamento in fatto (all’ultimo capoverso di pg. 8 della sentenza) di esclusiva spettanza del giudice del merito, nell’ambito del giudizio di fatto riservatogli, in ordine all’esistenza e al valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. 7 febbraio 2019, n. 3680; Cass. 28 ottobre 2019, n. 27490), quale contenuto della sua posizione processuale, rientrante nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, insindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione (Cass. 16 dicembre 2005, n. 27833; Cass. 3 maggio 2007, n. 10182): sicuramente da escludere alla luce del più rigoroso ambito devolutivo circoscritto dal novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940), applicabile ratione temporis;

5. pertanto il ricorso deve essere rigettato e le spese essere regolate secondo il regime di soccombenza, con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i lavoratori alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

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