Con la sentenza 20/01/2020, n. 1119, Sezione I della Suprema Corte, decidendo sulla domanda di revisione dell’assegno divorzile determinato anteriormente all’evoluzione giurisprudenziale recata da Sez. 1, 10 maggio 2017, n. 11504 e Sez. U, 11 luglio 2018, n. 18287 in ordine alla sua natura e funzione, ha affermato che tale mutamento dell’orientamento della S.C. non integra, ex se, i giustificati motivi sopravvenuti richiesti dall’art. 9, comma 1, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 per la revisione dell’assegno, atteso che – in forza della formazione rebus sic stantibus del giudicato sulle statuizioni cd. determinative e del carattere meramente ricognitivo dell’esistenza e del contenuto della regula iuris proprio della funzione nomofilattica, che non soggiace al principio di irretroattività – il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali degli ex coniugi attiene agli elementi di fatto e deve essere accertato dal giudice ai fini del giudizio di revisione, da rendersi, poi, al lume del diritto vivente.
Precisamente, con la sentenza n. 1119/2020 che qui si segnala, la Sezione I della Suprema Corte, ha testualmente precisato che:
«il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali delle parti attiene agli elementi di fatto ed è necessario, a monte, che esso sia accertato dal giudice perché possa procedersi al giudizio di revisione dell’assegno divorzile, da rendersi alla luce dei rinnovati principi giurisprudenziali. Pur considerando l’ampiezza della formula adottata dal legislatore, consentire l’accesso al rimedio della revisione dando alla formula dei “giustificati motivi” un significato che si riferisca alla sopravvenienza di tutti quei motivi che possono far sorgere l’interesse ad agire per il mutamento, tra i quali anche una diversa interpretazione avallata dal diritto vivente giurisprudenziale, non pare opzione esegetica percorribile, in quanto non considera che l’interpretazione giurisprudenziale costituisce una chiave di lettura dei dati di fatto rilevanti per il diritto e non li produce essa stessa, né nel mondo fenomenico, né quale fonte normativa».
Più chiaramente, la Corte con la sentenza 1119/2020 di questi giorni, dopo aver affermato quanto sopra riportato, con cui sembra voler inibire la revisione per il solo fatto del sopravvenire di un nuovo orientamento giurisprudenziale, tuttavia, poi in realtà finisce indirettamente per ammetterlo precisando che:
«il mutamento sopravvenuto delle condizioni patrimoniali delle parti attiene agli elementi di fatto ed è necessario, a monte, che esso sia accertato dal giudice perchè possa procedersi al giudizio di revisione dell’assegno divorzile, da rendersi, poi, al lume dei rinnovati principi giurisprudenziali».
In sostanza, sembra di capire, che il sopraggiungere di un nuovo e diverso orientamento giurisprudenziale non giustica di per sè la revisione dell’assegno divorzile (e questo lo si può comprendere, anche perchè altrimenti i giudici sarebbero presi d’assalto ogni volta che la Cassazione cambia indirizzo), tuttavia, se effettivamente sopravvenga un cambiamento nelle condizioni patrimoniali degli ex coniugi (che è il presupposto giuridico della revisione), ciò, riguardando la vicenda in punto di fatto, la relativa decisione deve essere rimessa al giudice di merito, il quale, a quel punto, potrà (cioè dovrà) giudicare secondo il «lume dei rinnovati principi giurisprudenziali».
La sentenza in questione, merita particolare attenzione anche perchè svolge un – seppur – sintetico riassunto dell’evoluzione giurisprudenziale in punto di assegno divorzile.
Ed in particolare ricorda che, con la sentenza delle SU di questa Corte n. 11490 del 1990, era stato affermato il carattere esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile, il cui presupposto era individuato nell’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge istante a conservargli un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, ed il cui ammontare da liquidare in base alla valutazione ponderata dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio), con riguardo al momento della pronuncia di divorzio.
Come noto, questo orientamento, rimasto fermo per circa un trentennio, è stato modificato con la sentenza n. 11504 del 2017 della Suprema Corte, che, muovendo anch’essa dalla premessa sistematica relativa alla distinzione tra il criterio attributivo e quello determinativo, ha affermato che il parametro dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante deve essere valutato al lume del principio dell’autoresponsabilità economica di ciascun coniuge, ormai “persona singola”, ed all’esito dell’accertamento della condizione di non autosufficienza economica, da determinare in base ai criteri indicati nella prima parte della norma.
Successivamente, poi, con la sentenza n. 18287 del 2018, le Sezioni Unite sono nuovamente intervenute nella materia, e, nell’ambito di una complessiva sua riconsiderazione, hanno ritenuto che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi o all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive del coniuge richiedente sia da riconnettere alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli durante lo svolgimento della vita matrimoniale e da ricondurre a determinazioni comuni, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età di detta parte, ed hanno affermato i seguenti principi di diritto:
a) all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo – compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate;
b) la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi;
c) il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonchè di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.
E venendo al caso di revisione di assegno sottoposto all’attenzione della Corte, questa precisa che in particolare che:
«in sede di revisione, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in sede di sentenza divorzile, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento della attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e adeguare l’importo, o lo stesso obbligo della contribuzione, alla nuova situazione patrimoniale-reddituale accertate»
In altri termini, il principio che viene affermato, è quello secondo cui in tema di statuizioni c.d. determinative il giudicato si forma sempre rebus sic stantibus e cioè esso è modificabile in caso di successive variazioni di fatto, le quali, per avere rilevanza, devono, poi, esser dedotte mediante l’esperimento dell’apposito procedimento di revisione, fermo restando che il diritto a percepirlo di un ex coniuge ed il corrispondente obbligo dell’altro a versarlo, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di divorzio, conservano la loro efficacia sino a quando non intervenga la modifica di tale provvedimento, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’assegno, talchè “in mancanza di specifiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all’autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (rebus sic stantibus), del precedente giudicato impositivo del contributo di mantenimento, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell’accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione (Cass. n. 16173 del 2015; cfr. pure Cass. n. 17689 del 2019, in tema di opposizione a precetto).
Con la sentenza n. 1119/2020, qui segnalata, inoltre, la Suprema Corte, sottolinea che:
«la funzione della giurisprudenza è meramente ricognitiva dell’esistenza e del contenuto della regula iuris, non già creativa della stessa, e che, come di recente affermato dalle SU di questa Corte, con la sentenza n. 4135 del 2019, l’interpretazione delle norme giuridiche da parte della Corte di Cassazione e, in particolare, delle Sezioni Unite mira ad una tendenziale stabilità e valenza generale, sul presupposto, tuttavia, di una efficacia non cogente ma solo persuasiva, trattandosi di attività consustanziale all’esercizio stesso della funzione giurisdizionale, sicchè un mutamento di orientamento reso in sede di nomofilachia non soggiace al principio di irretroattività, non è assimilabile allo ius superveniens ed è suscettibile di essere disatteso dal giudice di merito. Deve, ancora, aggiungersi che un orientamento del giudice della nomofilachia cessa di essere retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali, e può quindi parlarsi di prospective overruling, a condizione determinate, prima tra di esse che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza di legittimità su norme regolatrici del processo, e non anche, come nella specie, su disposizioni di natura sostanziale».
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