Illecito disciplinare atipico: caratteristiche e criteri di quantificazione della sanzione C.N.F., 16/07/2019, n. 60

By | 24/01/2020

C.N.F., 16/07/2019, N. 60

«Il nuovo Codice Deontologico Forense è informato al principio della tipizzazione della condotta disciplinarmente rilevante, “per quanto possibile” (art. 3 c. 3 L. 247/2012), poiché la variegata e potenzialmente illimitata casistica di tutti i comportamenti (anche della vita privata) costituenti illecito disciplinare non ne consente una individuazione dettagliata, tassativa e non meramente esemplificativa. Conseguentemente, ove l’illecito non sia stato espressamente previsto (rectius, tipizzato) dalla fonte regolamentare, deve quindi essere ricostruito sulla base della legge (art. 3 c. 3 cit.) e del Codice Deontologico, a mente del quale l’avvocato “deve essere di condotta irreprensibile” (art. 17 c. 1 lett. h). Nel caso di illecito atipico, inoltre, per la determinazione della relativa pena dovrà farsi riferimento ai principi generali ed al tipo di sanzione applicabile in ipotesi che presentino, seppur parzialmente, analogie con il caso specifico»

FATTO

1.

1.1. In data 29 luglio 2015, l’avv. [Omissis] del Foro di [Omissis] depositò presso la Segreteria del Consiglio di Disciplina locale una istanza con la quale chiedeva “l’autosospensione cautelare con effetti irrevocabili dall’Ordine degli Avvocati di [Omissis] sino alla emissione della sentenza di primo grado”.

1.2. In subordine, chiedeva all’Organo adito di “deliberare e dichiarare esso istante sospeso dal suddetto Ordine degli Avvocati di [Omissis] con effetti irrevocabili sino alla emissione della sentenza di primo grado”.

1.3. La istanza predetta era giustificata dalla pendenza del procedimento penale recante n. di R.G. [Omissis]/2014, che aveva visto coinvolto il [Omissis] per essersi egli prestato, nell’ambito del rapporto professionale con il proprio assistito, sig. [Omissis] – capoclan dell’omonimo sodalizio criminale – a far da tramite tra il suo assistito e soggetti terzi durante il periodo di sua detenzione nella Casa Circondariale “[Omissis] ” di [Omissis], assicurando il mantenimento di presunti rapporti illeciti e la asserita divulgazione di notizie ed informazioni assunte durante i colloqui al carcere, tenendo, in tal modo, costantemente informati i sodali del suo assistito in ordine alla volontà ed agli ordini impartiti dal [Omissis] ed il medesimo in ordine all’attività dei suoi sodali all’esterno del carcere.

1.4. Acquisita la documentazione relativa alla indagine a carico dell’avv. [Omissis], il CDD di [Omissis], con provvedimento del 9 ottobre 2015, approvò il capo di incolpazione che segue:

“a) violazione deontologica di cui all’art. 9 C.D. perché nell’adempimento dell’incarico conferitogli dal sig. [Omissis], detenuto preso la Casa Circondariale “[Omissis] ” di [Omissis], esercitava l’attività professionale in violazione del doveri di indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità e decoro e, segnatamente, per essersi prestato a far da tramite tra il suo assistito e soggetti terzi durante il periodo di detenzione dello stesso assicurando il mantenimento di rapporti illeciti e la divulgazione di notizie ed informazioni assunte durante i colloqui al carcere, tenendo, in tal modo, costantemente informati i sodali del suo assistito in ordine alla volontà ed agli ordini impartiti dal [Omissis] ed il medesimo in ordine all’attività dei suoi sodali all’esterno del carcere;

b) violazione dell’art. 23 nn. 3, 5 e 6 C.D. per aver intrattenuto, con le condotte

descritte al capo a9 della rubrica, con il suo assistito, [Omissis], nel corso del mandato professionale, rapporti in violazione dei doveri di indipendenza, lealtà e correttezza e per non essersi rifiutato di prestare la propria attività professionale per operazioni palesemente illecite, ovvero procurare notizie ed informazioni coperte da segreto, tenere informai i sodali del suo assistito in ordine alle notizie e disposizioni dallo stesso ricevute, tenere informato il suo assistito in relazione alle informazioni assunte dai sodali dello stesso e per aver suggerito al suo assistito comportamenti illeciti e fraudolenti;

c) violazione dell’art. 24 n. 2 C.D. perché con le condotte descritte ai capi che precedono non difendeva, nell’esercizio dell’attività professionale, la propria indipendenza nei confronti del suo assistito prestandosi a dei comportamenti in violazione dei doveri che incombono sul difensore nell’adempimento dell’incarico ricevuto;

d) violazione dell’art. 28 n. 1 C.D., per non aver mantenuto il segreto ed il massimo riserbo sull’attività professionale prestata nell’interesse di [Omissis], comunicando con il sig. [Omissis], soggetto estraneo al gruppo familiare del [Omissis] ed assolutamente estraneo al rapporto professionale.

Condotte accertate in [Omissis] dall’ottobre 2011 al giugno 2015″.

1.5. Con successivo provvedimento, assunto all’adunanza del 23 novembre 2015, il CDD di [Omissis] deliberò la misura cautelare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale.

1.6. Esperito il dibattimento disciplinare., con provvedimento del 14.07.2015 il CDD di [Omissis] riteneva provati i fatti di cui al capo di incolpazione e, vistane la gravità, applicava nei confronti dell’avv. [Omissis] la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione forense per anni 3 (tre).

1.7. Avverso la decisione predetta, con ricorso tempestivamente depositato, insorge l’Avv. [Omissis], il quale – senza dedurre specifici motivi di impugnazione e senza formulare alcuna precisa richiesta – espone un iter argomentativo unitario dal quale è possibile evincersi che egli lamenta:

la erroneità della ricostruzione del fatto addebitato;

la erroneità della valutazione del “materiale probatorio” utilizzato dal CDD per fondare il giudizio di responsabilità disciplinare (cfr. pagina 2 del ricorso);

l’assenza di “elementi sufficienti ed inequivoci per fondare la responsabilità disciplinare dell’avocato [Omissis]”.

DIRITTO

2. Il diritto.

2.1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2.2. Va, preliminarmente, osservato che l’atto di impugnazione prodotto dall’Avv. [Omissis] si presenta, nel suo contenuto, ai limiti della inammissibilità, non essendo stati dedotti specifici motivi di gravame ed in tal modo disapplicandosi i principi che, in subiecta materia, devono essere osservati.

2.3. La giurisprudenza di questo Consiglio è, invero, solidamente attestata nella opinione di considerare inammissibile l’impugnazione carente della specificità dei motivi di gravame.

2.4. Il giudizio davanti al CNF, infatti, costituisce un giudizio di secondo grado o di appello alla decisione emessa dall’organo territoriale e, di conseguenza, ha le caratteristiche di un ‘impugnazione a critica vincolata (revisio prioris instantiae), anche secondo il prevalente modo di vedere della Corte regolatrice (Cass. 699/2016; 3033/2013; 16/2000; contra: Cass. 15122/2013, che richiama la giurisdizione non solo di legittimità ma anche di merito del CNF, per cui nulla impedisce di prendere contezza di tutta la documentazione del procedimento).

2.5. Si afferma, infatti, che “I motivi dell’impugnazione possono intendersi specifici quando, a prescindere da formule sacramentali, dall’impugnazione proposta emergano in maniera chiara, inequivoca e congiunta: a) l’individuazione delle statuizioni concretamente impugnate e b) l’esposizione delle ragioni volte a confutare le argomentazioni, logico giuridiche, che sono poste a base della decisione impugnata da parte del giudice di prime cure ovvero prospetti un nuovo assetto della sentenza impugnata che sia idoneo ad invertire la conclusione decisoria adottata dal primo giudice. La carenza o l’insufficienza di tali requisiti (motivi specifici) rende l’impugnazione inidonea al raggiungimento del suo scopo ed integra di fatto una nullità che ne determina l’inammissibilità” (così: Cons. Naz. Forense, 20 marzo 2018, n. 14; nello stesso senso: Cons. Naz. Forense, 25 settembre 2017, n. 136; Cons. Naz. Forense, 23 settembre 2017, n. 128).

2.6. Purtuttavia, per quel che attiene al caso di specie, il Consiglio ritiene che, ancorché le ragioni di fatto e di diritto addotte a sostegno della impugnazione non siano chiaramente e precisamente enucleate, appare possibile evincere, dal contesto del ricorso, gli esatti confini del devolutum, essendo stato, sia pure in maniera confusa e disordinata, richiesto il riesame dell’opinamento espresso dal CDD sulla sussistenza dell’illecito per l’organo giudicante correttamente valutato gli elementi probatori acquisiti al fascicolo del procedimento, che avrebbero indotto a ben diverse conclusioni.

2.7. Il Consiglio è, dunque, dell’avviso di superare, allorquando comunque appaia chiara la domanda di giustizia spiegata dall’istante, quel rigore formalistico – solitamente espresso sulla scorta di principi non sempre collimanti con le regole del giusto processo – che, molto spesso, preclude in concreto una decisione sui diritti fatti valere e sulle domande proposte.

2.8. Ritiene, dunque, ammissibile il ricorso.

2.9. Esso, però, appare totalmente destituito di fondamento, essendo state poste in discussione statuizioni del giudice disciplinare a quo che, invece, appaiono saldamente ancorate al materiale probatorio acquisito al procedimento, di cui è stato fatto ottimo e corretto governo.

2.10. In linea di principio, va ricordato che il Giudice della deontologia ha ampio potere discrezionale nel valutare la conferenza e la rilevanza delle prove dedotte in virtù del principio del libero convincimento, con la conseguenza che la decisione assunta in base agli atti acquisiti deve ritenersi legittima, allorquando essa risulti coerente con le risultanze documentali acquisite, di fronte alle quali può risultare del tutto ultroneo e non consentito l’espletamento di ulteriori mezzi di prova (cfr., ex plurimis: Cons. Naz. Forense, 10 maggio 2017, n. 57).

2.11. Nel caso in esame, la decisione gravata ripercorre, con puntuali e corretti riscontri, l’iter logico seguito per pervenire al giudizio di colpevolezza del professionista, individuando in maniera ineccepibile sia le fonti di prova che la loro pertinenza e concludenza.

2.12. In effetti, appare indubbio che l’Avv. [Omissis], nell’ambito del rapporto professionale con il proprio assistito [Omissis], abbia intrattenuto con il predetto capo-clan camorristico e persone a questi legate da cointeressati in vicende delittuose rapporti chiaramente esulanti rispetto al normale svolgimento di una attività difensiva.

2.13. Dagli atti del procedimento penale che ha visto coinvolto il ricorrente, emerge, invero, un quadro probatorio molto chiaro e delineato che evidenzia, al di là di ogni dubbio, come l’attività del difensore, nei rapporti di cui si è detto, abbia travalicato i limiti di un corretto patrocinio e si sia, invece, illegittimamente estesa ad un reiterato collegamento – fitto di informazioni ed istruzioni attinte nel corso di colloqui in carcere non certamente riguardanti l’esercizio del diritto di difesa – con il detenuto e suoi sodali.

2.14. Significativi sono, in proposito, i contenuti, limpidamente ricavabili anche dalle intercettazioni ambientali, dei colloqui intercorsi tra il [Omissis] ed il suo difensore, nonché tra quest’ultimo, la figlia del prevenuto e tal [Omissis], anch’esso chiaramente coinvolto in fatti di camorra.

2.15. Dagli atti del procedimento penale, nei quali è evidenziato anche il coinvolgimento del [Omissis] in precedenti vicende malavitose, emerge – dunque – uno scenario che evidenzia, in maniera indiscutibile la fondatezza delle contestazioni disciplinari mosse nei suoi confronti e la esattezza del giudizio di colpevolezza espresso dal CDD.

2.16. Quest ‘ultimo, con esauriente e condivisibile motivazione, ha evidenziato gli elementi su cui ha fondato il proprio convincimento e, pertanto, dato contezza di un corretto apprezzamento delle prove acquisite al procedimento, onde le conclusioni rassegnate nella decisione impugnata appaiono condivisibili ed immeritevoli di censura.

2.17. Analogamente, esatte si appalesano le notazioni svolte dal CDD sul fatto che la istanza di “autosospensione” prodotta dal ricorrente, più che collegata ad un ravvedimento dettato dalla consapevolezza della gravità delle violazioni deontologiche perpetrate, debba essere ricondotta alla richiesta di affievolimento o riduzione delle misure restrittive adottate

dal Giudice nei suoi confronti, sulla base di una presunta impossibilità di continuare a svolgere il mandato.

2.18. Dal giudizio di colpevolezza espresso dal CDD discende, logicamente, la violazione delle norme deontologiche correttamente contestate.

2.19. Sussiste, in primis, la violazione dell’art. 9 (Dovere di dignità, probità, decoro e indipendenza) del Codice Deontologico vigente [già artt. 5 (Doveri di dignità, probità e decoro) e 6 (Dovere di lealtà e correttezza) del Codice Deontologico Forense previgente], ritenuto che i concetti di probità, dignità e decoro costituiscono doveri generali e concetti guida, a cui si ispira ogni regola deontologica, giacché essi rappresentano le necessarie premesse per l’agire degli avvocati, e mirano a tutelare l’affidamento che la collettività ripone nella figura dell’avvocato, quale professionista leale e corretto in ogni ambito della propria attività (Cons. Naz. Forense, 16 luglio 2015, n. 105; in senso conforme, tra le altre, Cons. Naz. Forense, 26 settembre 2014, n. 112).

2.20. Parimenti configurabile, nella fattispecie, appare la violazione dell’art. 23 n. 3, 5 e 6 (Conferimento dell’incarico) del Codice Deontologico vigente [già artt. 36 (Autonomina dell’incarico) 38 (Inadempimento al mandato) del Codice Deontologico Forense previgente], in base alla quale, giova ricordare, sono state, in precedenza, confermate la radiazione dall’Albo inflitta per la affiliazione di un avvocato a cosca mafiosa (Cons. Naz. Forense, 30 aprile 2012 n. 79) e la sospensione cautelare dall’esercizio della professione dell’avvocato indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (Cons. Naz. Forense, 20 ottobre 2016, n. 305; Cons. Naz. Forense, 19 dicembre 2014, n. 192).

2.21. Va, inoltre, confermata la violazione dell’art. 24 n. 1 (Conflitto di interessi) del Codice Deontologico vigente [già art. 37 (Conflitto di interessi) del Codice Deontologico Forense previgente], norma che mira ad evitare situazioni che possano far dubitare della correttezza dell’operato dell’avvocato, sì che, perché si verifichi l’illecito, è sufficiente che potenzialmente l’opera del professionista possa essere condizionata da rapporti di interesse con la controparte o altri soggetti: trattasi di illecito di pericolo, che comporta la irrilevanza di una eventuale, asserita mancanza di danno, poiché il danno effettivo non è elemento costitutivo dell’illecito contestato (Cons. Naz. Forense, 12 settembre 2018, n. 101; in senso conforme, tra le altre, Cons. Naz. Forense, 24 aprile 2018, n. 38; Cons. Naz. Forense, 24 novembre 2017, n. 186).

2.22. Né può revocarsi in dubbio la sussistenza della violazione dell’art. 28 n. 1 (Riserbo e segreto professionale) del Codice Deontologico vigente [già art. 9 (Dovere di segretezza e riservatezza) del Codice Deontologico Forense previgente], giusta il quale il professionista è tenuto a mantenere il segreto ed il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato; elementi costitutivi del relativo illecito disciplinare sono quindi, da un lato, l’esistenza di un mandato professionale tra cliente e professionista e, dall’altro, che le notizie siano state riferite dal proprio assistito in funzione del mandato (Cons. Naz. Forense. 14 luglio 2016, n. 203). 2.23. Per quel che concerne il regime sanzionatorio applicato al ricorrente, va osservato che:

– La violazione dei principi di cui alla previsione di cui all’art. 9 del C.D.F. non è assistita da sanzione disciplinare tassativamente stabilita, con la conseguenza che devesi aver riguardo al principio elaborato da questo Consiglio in merito alla tendenziale tipicità dell’illecito disciplinare: nel nuovo sistema deontologico l’illecito ove non espressamente previsto, rectius tipizzato, dalla fonte regolamentare deve essere ricostruito sulla base sia della legge che del Codice Deontologico onde vengono in rilievo, quanto alla fonte primaria della L. n. 247/2012, sia l’art. 3 c. 3, già richiamato, sia l’art. 51 c. 1° a mente del quale “..le infrazioni ai doveri ed alle regole di condotta della legge e della deontologia sono sottoposte al giudizio…” sia l’art. 17 c. 1° lett. h il quale prevede che l’avvocato “.deve essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal vigente Codice Deontologico Forense “(v., per tutte: Cons. Naz. Forense 18 settembre 2015, n. 137);

– L’art. 23 del Codice Deontologico Forense stabilisce che per le violazioni delle previsioni di cui ai commi 1 e 2 possa essere irrogato l’avvertimento, per le violazioni delle previsioni di cui ai commi 3 e 4, la censura, per le violazioni delle previsioni di cui ai commi 5 e 6, la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni;

– L’art. 24 del Codice Deontologico Forense attualmente in vigore stabilisce prevede che per la violazione dei precetti di ai commi 1, 3 e 5 possa essere irrogata la sospensione da uno a tre anni e per la violazione di cui al comma da 2 e 4, la censura;

– L’art. 28, comma 5, del Codice Deontologico Forense attualmente in vigore stabilisce che la violazione dei doveri di cui ai commi precedenti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura e, nei casi in cui la violazione attenga al segreto professionale, l’applicazione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.

2.24. Alla luce della conferma del giudizio di responsabilità disciplinare del ricorrente e della riconosciuta violazione di tutte le norme deontologiche contestate, considerato il carico sanzionatorio previsto per ognuna di esse, che avrebbe consentito la applicazione di più grave sanzione, il Consiglio – in difetto di impugnazione della pubblica accusa ed in applicazione del principio del divieto di reformatio in pejus – conferma la sanzione irrogata dal CDD di sospensione dalla attività professionale per anni tre, ritenendo peraltro la sanzione stessa ben commisurata alla gravità delle infrazioni accertate.

P.Q.M.

visti gli artt. 36 e 37 L. n. 247/2012 e gli artt. 59 e segg. del R.D. 22.1.1934, n. 37;

il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso.

Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.

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