Inammissibile l’appello che non “dialoga” con la sentenza di primo grado Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 02/10/2019, n. 24585

By | 08/10/2019

CASS. CIV., SEZ. I, ORDINANZA 02/10/2019, N. 24585

«Le doglianze mosse avverso la sentenza oggetto di appello, devono “dialogare” con quest’ultima, ponendosi in rapporto di diretta pertinenza rispetto alle soluzioni accolte dal primo giudice e confrontandosi in modo conferente con il contenuto delle stesse.

Mancando tale caratteristica, il gravame va dichiarato inammissibile» (Massima non ufficiale)

FATTI DI CAUSA

La Corte distrettuale di [Omissis] ha dichiarato inammissibile – ai sensi dell’art. 342 c.p.c. – l’appello proposto da [Omissis] avverso la decisione con cui il locale tribunale aveva respinto la domanda volta a far accertare il mancato avveramento della condizione apposta ad un contratto preliminare di vendita di quote sociali, stipulato nel maggio 2006 con l’ente proprietario di un immobile inserito in zona [Omissis] (condizione che esigeva, per la stipula del definitivo, l’autorizzazione dell’ente competente) e con cui, in accoglimento della riconvenzionale, era stata dichiarata la legittimità del recesso della promittente venditrice, con diritto a trattenere la caparra.

Dopo aver riassunto le diverse interpretazioni dell’art. 342 c.p.c. nella formulazione introdotta dal D.L. 83/2012, convertito con L. 134/2012 e dopo aver dichiarato di condividere le tesi che non esigono l’impiego di formule sacramentali, ma la sola articolazione, da parte dell’appellante, di una rigorosa critica alla parti della motivazione impugnata, il giudice di merito ha però rilevato che l’impugnazione dello [Omissis] non dialogava con la sentenza di primo grado.

Con il primo motivo di appello questi aveva richiesto la restituzione della caparra in applicazione della clausola n. 14 del preliminare (che prevedeva l’integrale rimborso delle somme versate qualora l'[Omissis] non avesse autorizzato il trasferimento), ma la censura, a parere del Giudice distrettuale, ignorava totalmente la risposta data dal tribunale, opponendovi obiezioni del tutto inconferenti, poiché il primo giudice aveva ritenuto inapplicabile la clausola invocata dall’appellante “perla preponderanza logico giuridica della legittimità del recesso della parte venditrice”.

Anche il secondo motivo di appello, volto a denunciare l’errata applicazione dell’art. 1359 c.c., sollevava -a parere della Corte di merito – questioni del tutto estranee alle motivazioni della sentenza di primo grado, basate esclusivamente sulla legittimità del recesso.

La cassazione della sentenza di secondo grado è chiesta da [Omissis] sulla base di sei motivi di ricorso, illustrati con memoria.

[Omissis] e [Omissis] hanno depositato controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 1359 c.c. e la falsa applicazione dell’art. 1385, comma secondo, c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., lamentando che la Corte di appello abbia erroneamente sostenuto che la condizione apposta al preliminare di vendita si fosse avverata per non aver il ricorrente inoltrato la richiesta di autorizzazione, benché, trattandosi di condizione legale, apposta nell’interesse di entrambe le parti, non fosse invocabile l’art. 1359 c.c.

Il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 2, L. 241/1990, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., sostenendo che la richiesta di autorizzazione al perfezionamento dell’operazione di cessione non poteva considerarsi respinta, occorrendo che l’ente competente adottasse un provvedimento negativo espresso.

Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 c.p.c., contestando alla Corte di merito di aver sposato le tesi più rigorose quanto ai requisiti di ammissibilità dell’atto di impugnazione, sanzionando non solo e non tanto l’assenza di argomentazioni, quanto piuttosto le modalità di stesura dell’appello.

Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 1384 c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., sostenendo che, dopo lo scioglimento del contratto preliminare, gli acquirenti avevano colto più favorevoli opportunità di acquisto e che quindi la mancata stipula del definitivo non aveva arrecato alcun danno. Di conseguenza i resistenti erano tenuti anche a restituire la caparra, il cui importo, essendo manifestamente iniquo, doveva esser ridotto d’ufficio dal giudice.

Il quinto motivo denuncia la falsa applicazione dell’art. 11, L. Reg. Friuli Venezia Giulia 25/2002 e dell’art. 3, comma secondo, della delibera regolamentare n. 95/2005, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., assumendo che, a norma della disciplina regionale, occorreva che gli atti di trasferimento riguardanti immobili compresi nell’area amministrata dall'[Omissis] fossero inviati, per l’autorizzazione, all’ente competente entro 15 gg. dalla stipula, intendendosi approvati in caso di mancata adozione del provvedimento di rigetto nel termine di legge, mentre non era necessario che il ricorrente sottoscrivesse alcun modulo conforme alla delibera n. 95/2005, sia perché l’onere di inoltrare la richiesta di autorizzazione gravava sul cedente, sia perché la citata delibera disciplinava solo le cessioni di immobili ricompensi nei nuovi insediamenti.

Il sesto motivo denuncia la contradditoria ed insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360, comma primo n. 5 c.p.c., sostenendo che la Corte di merito non avrebbe esaminato le contestazioni del ricorrente riguardo al fatto di non aver mai ricevuto il modulo da compilare ed inviare all'[Omissis] per ottenere l’autorizzazione all’acquisto, ed abbia travisato il contenuto delle deposizioni testimoniale, dalle quali nulla di certo era emerso in proposito.

2. Va esaminato in via preliminare il terzo motivo di ricorso, che deve esser respinto per le ragioni che seguono.

A parere del ricorrente la Corte di merito avrebbe prescelto, tra le diverse opzioni interpretative dell’art. 342 c.p.c, la posizione più rigorosa, privilegiando le modalità di stesura dell’impugnazione e la osservanza di formule sacramentali a scapito della specificità, adeguatezza e pertinenza delle critiche mosse alla sentenza di primo grado.

La censura non considera che – però – la Corte di [Omissis] non ha affatto dichiarato l’inammissibilità dell’appello a causa della mancata osservanza di modalità vincolanti sul piano formale, avendo – invece – ritenuto che le doglianze proposte dall’appellante non dialogassero con la pronuncia di primo grado e non fossero pertinenti rispetto alle soluzioni accolte dal primo giudice.

Con entrambi i motivi di appello il ricorrente aveva, nella sostanza, dedotto che il rilascio dell’autorizzazione per il trasferimento delle quote sostanziasse una condizione legale di efficacia sottratta alla disciplina dell’art. 1359 c.c.

Il giudice distrettuale ha invece ritenuto dette deduzioni fossero del tutto inconferenti rispetto al decisum, poiché il tribunale aveva respinto la domanda di restituzione della caparra non in applicazione dell’art. 1359 c.c. ma perché i resistenti avevano legittimamente esercitato il recesso dal contratto (cfr. sentenza pag. 16 e ss.).

Ne discende che anche il motivo in esame non si confronta con il contenuto della decisione impugnata e non merita, per tali ragioni, accoglimento.

Le ulteriori censure sono inammissibili sia perché la pronuncia di inammissibilità dell’appello è divenuta definitiva a seguito del rigetto del terzo motivo di ricorso, sia perché sollevano contestazioni di merito sostanzialmente rivolte alle decisioni assunte in primo grado e su cui la Corte di appello non ha pronunciato.

Il ricorso è, pertanto, respinto.

Le spese seguono la soccombenza con liquidazione in dispositivo. Sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, D.P.R. 115/2002.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari a [Omissis].

Dà atto che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002.

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