Anche l’attuale Governo non ha resistito alla tentazione di varare l’ennesimo progetto di legge delega per la riforma del codice di procedura civile, nell’intento, va senza dire, di pervenire a centrare gli agognati «obiettivi di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo», da decenni inutilmente proclamati come primari da ogni parte politica.
Una vera e propria orgia riformista e di segno neutro, giacché fatta propria di tutte le forze che si sono succedute alla guida del Paese. Una montagna di norme affastellatesi negli anni incapace di partorire persino il proverbiale topolino, se si fa eccezione per la meritoria parentesi del processo telematico, che ha obiettivamente migliorato la qualità del lavoro degli operatori del settore.
E tuttavia tant’è: nessuno, ma proprio nessuno, è riuscito a resistere alla tentazione del diluvio normativo, ricordando che il meglio è nemico del bene; che un sistema allo stremo, come quello della Giustizia italiana, non va stressato con continue modifiche; che occorre lavorare sull’esistente, razionalizzandolo e migliorandolo, per consentirgli di adattarsi ai nuovi regimi; che non bisogna dimenticare come la giustizia sia un sistema economico e che esso, come tale, deve incoraggiare e non disincentivare la domanda, adeguando ad essa l’offerta; che occorre, dunque, lavorare sulle risorse (come in parte si è fatto con l’investimento telematico) ed attendere una serie verifica dei risultati prima di rimettere mano alle carte; etc.
E così, eccoci alla nuova riforma d’epoca, il cui testo – approvato il 5 dicembre scorso in C.d.M. –, vi proponiamo oggi in allegato.
Le principali novità sembrano consistere: nella possibilità concessa agli avvocati, di svolgere istruttoria in fase di negoziazione (art. 2); nell’adozione, come rito generale della cognizione monocratica, del processo sommario di cognizione (che, manco a dirlo, cambierà nome, divenendo «rito semplificato davanti al tribunale in composizione monocratica»), con definitivo addio all’atto di citazione in favore del ricorso e con l’adozione di un sistema di decadenze e preclusioni fondamentalmente ricalcato sul rito del lavoro (art. 3), di fatto esteso anche al procedimento collegiale (art. 4) e a quello dinanzi al G.d.P. (art. 5); nella previsione di modalità più celeri di svolgimento del processo di appello, anch’esso introdotto con ricorso (art. 6); nell’emanazione di una serie di disposizioni comuni a tutte le giurisdizioni (civile, tributaria e amministrativa), finalizzate all’armonizzazione delle procedure telematiche (art. 7); nell’ulteriore implementazione delle modalità telematiche di notificazione (art. 8); nella revisione del procedimento di scioglimento di comunioni, decisamente “privatizzato” (art. 9); nell’attribuzione al debitore esecutato nell’espropriazione immobiliare della facoltà di chiedere al G.E. di vendere direttamente il bene pignorato per un prezzo non inferiore a quello di mercato (art. 10); nella previsione di misure «dirette a rafforzare i doveri di leale collaborazione delle parti e dei terzi» (art. 11. E qui, al di là dei principi e criteri direttivi dettati dal D.D.L., si può star certi che ne vedremo delle belle).
Un anno di tempo, infine, è concesso al legislatore per attuare tali buone intenzioni, di cui, viene da dire, se non sono lastricate le vie dell’inferno, lo sono almeno quelle del nostro malandato processo civile.
Documenti & materiali
D.D.L. di riforma del processo civile varato dal C.d.M. il 5 dicembre 2019.