Responsabilità penale e disciplinare per lo stesso fatto: non vi è violazione del ne bis in idem C.N.F., 02/02/2021, n. 14

By | 09/07/2021

C.N.F., 02/02/2021, N. 14

«La doppia affermazione di responsabilità, in sede penale ed amministrativa per l’identico fatto, è conforme ai principi della convenzione CEDU e non vìola il divieto di bis in idem, stante la diversa natura ed i diversi fini del processo penale e del procedimento disciplinare, nel quale ultimo il bene tutelato è l’immagine della categoria, quale risultato della reputazione dei suoi singoli appartenenti»

FATTO

Con deliberazione del [Omissis], il Consiglio Distrettuale di Disciplina di [Omissis] deliberava la citazione a giudizio disciplinare nei confronti dell’Avvocato [Omissis] per rispondere del seguente capo di incolpazione, approvato con deliberazione del 27 febbraio 2017:

«per avere tentato nell’esplicazione – per lo meno inizialmente – di un asserito incarico professionale di costringere [Omissis] a versare la somma di € 200.000,00 con la minaccia di diffondere fotografie che la ritraevano nuda, in [Omissis] dal luglio al dicembre 2005, in violazione dei doveri di probità, dignità e decoro dei quali all’art. 5 CDF 1997».

Il procedimento era stato rimesso al CDD di [Omissis], nelle more insediatosi, ex art. 15 Reg. CNF 1/2014, dal COA di [Omissis], che già con provvedimento del [Omissis], per lo stesso fatto, aveva deliberato l’apertura del procedimento disciplinare nei confronti dell’Avvocato [Omissis] a seguito di un esposto d’ufficio che segnalava l’avvenuta condanna – a tre anni di reclusione e millecinquecento Euro di multa, oltre al risarcimento del danno cagionato alla parte civile – dell’incolpato, da parte del Tribunale di [Omissis], con sentenza n. [Omissis]/2013 – resa nel giudizio n. [Omissis]/2008 R.G. Tribunale di [Omissis], e n. [Omissis]/2006 R.G.N.R. – per il reato di tentata estorsione di cui agli art. 56 e 629 c.p.

L’Avvocato [Omissis] era stato infatti imputato di aver tentato di estorcere alla Signora [Omissis] – una sindacalista che dallo stesso [Omissis] era stata ritenuta responsabile di inadeguata tutela in occasione del licenziamento di un proprio assistito, la somma di euro duecentomila con la minaccia di diffondere alcune foto che la ritraevano nuda.

Il COA di [Omissis] aveva disposto, in via cautelare, la sospensione dell’incolpato dall’esercizio della professione forense con provvedimento del 16 giugno 2014, la cui efficacia venne dichiarata cessata con successivo provvedimento del CDD del 9 marzo 2015.

Nelle more, la Corte d’Appello di [Omissis], nel giudizio penale pure pendente, con sentenza n. [Omissis]/2015 del [Omissis] febbraio 2015, dichiarava di non doversi procedere in ordine al delitto tentato ascritto all’imputato, in quanto estinto per intervenuta

prescrizione, con conferma integrale delle statuizioni civili e condanna alla rifusione delle spese di costituzione di parte civile del grado.

Con sentenza n. [Omissis]/2016 R.G. Sent., decisa in udienza pubblica del [Omissis] 2015, la Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, dichiarava infine inammissibile il ricorso proposto dall’Avvocato [Omissis], con condanna al pagamento delle spese processuali ed ad una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle Ammende.

Il CDD aveva disposto la citazione in giudizio disciplinare con delibera del [Omissis] ed, esperita l’istruttoria dibattimentale con l’audizione dell’esponente e dei testi, in esito alla discussione nella seduta del [Omissis], ritenuta la responsabilità dell’incolpato per i fatti di cui al capo di incolpazione, disattese le difese dell’incolpato, ed in particolare l’eccezione di violazione del bis in idem e di prescrizione, comminava la sanzione della radiazione.

Avverso la suddetta decisione, l’Avv. [Omissis] ha proposto tempestiva impugnazione con ricorso del [Omissis], depositato presso il CDD il successivo [Omissis], sottoscritto personalmente e dal proprio Difensore.

I motivi di ricorso sono poi stati ulteriormente illustrati nelle deduzioni difensive depositate il 6 marzo 2020, richiamando le conclusioni di cui al ricorso stesso, chiedendosi in riforma della decisione il proscioglimento per prescrizione ovvero, in subordine, per la insussistenza del fatto od, ancor più in subordine, l’irrogazione di una più tenue sanzione.

DIRITTO

Il ricorso, affidato a plurimi mezzi, è infondato per le motivazioni appresso indicate e deve essere rigettato.

Con il primo motivo, il ricorrente eccepisce l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare, invocando l’applicazione dello jus superveniens costituito dall’art. 56 della nuova legge professionale, essendo trascorso il termine massimo di prescrizione ivi previsto dal fatto contestato.

In particolare, secondo il ricorrente, si applicherebbe nel caso specifico la nuova disciplina della prescrizione in virtù dell’art. 65 co. 5 della lex 247/2012, della medesima legge, secondo il quale le norme contenute nel nuovo codice deontologico si applicano anche ai procedimenti in corso, se più favorevoli per l’incolpato.

Il ricorrente ritiene quindi abbia errato il CDD nel ritenere applicabile il termine di prescrizione quinquennale previgente, siccome correlato a fatti compiuti prima dell’entrata in vigore della nuova Legge Professionale ed accertati nella sede penale, mentre avrebbe dovuto ritenere applicabile il nuovo regime della prescrizione, in considerazione del fatto che il procedimento disciplinare venne aperto dopo l’entrata in vigore della Legge 247/2012.

In altri termini, secondo il ricorrente, sarebbe applicabile lo ius superveniens in tema di prescrizione allorché il procedimento venga aperto successivamente alla data di entrata in vigore della nuova legge professionale id est, il 2 febbraio 2013, in quanto occorrerebbe aver riguardo non già all’epoca della commissione del fatto, bensì al momento dell’apertura del procedimento disciplinare.

Il ricorrente richiama all’uopo il principio enunciato da Cass. S.U. 9558/2018.

Inoltre, secondo il ricorrente, applicandosi ratione temporis la nuova legge professionale, che consacra l’autonomia assoluta tra il procedimento penale e quello disciplinare, avrebbe parimenti errato il CDD a fare riferimento, quale data di decorrenza dal termine prescrizionale, alla sentenza penale, piuttosto che al momento della commissione del fatto.

Nella sostanza, in estrema sintesi, il ricorrente ritiene applicabile lo jus superveniens in tema di prescrizione perché il procedimento è stato aperto dopo l’entrata in vigore della novella e contesta che il termine possa invece decorrere dalla sentenza penale, data l’autonomia dei rispettivi procedimenti.

Il motivo è infondato.

Contrariamente all’assunto del ricorrente, l’azione disciplinare non può ritenersi prescritta. Va premesso come consolidato debba ormai ritenersi il principio di diritto secondo cui l’art. 65, comma 5, della lex 247/2012, ove prevede che le norme del nuovo codice deontologico si applicano, se più favorevoli per l’incolpato, anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, riguarda esclusivamente la successione nel tempo delle norme del previgente e del nuovo codice deontologico, laddove per l’istituto della prescrizione, la cui fonte è legale e non deontologica, resta operante il criterio generale della irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative, sicché è inapplicabile lo jus superveniens introdotto con l’art. 56 comma 3 della legge 247/2012 (si veda, da ultimo, ex plurimis, Corte di Cass. SS.UU. Sent. n. 14233/2020).

Le Sezioni Unite della S.C. hanno più volte affermato come l’articolo 56, comma 3, della legge n. 247/2012 non si applica agli illeciti commessi – come nel caso di specie – anteriormente alla sua entrata in vigore, e ciò in quanto il potere disciplinare sanzionatorio – che oggi si appartiene ai CDD – per la sua natura amministrativa, resta insensibile al diritto sopravvenuto più favorevole.

Così, infatti, SS.UU. 14233/2020 che richiama Cass. S.U. 18/04/2018 n. 9558, Cass. S.U. 25319 n. 8313, Cass. S.U. 24/01/2020 n. 1609.

Nel ricorso oggetto di scrutinio, agli effetti della prescrizione, è quindi applicabile ratione temporis il regime previgente di cui all’art. 51 R.D.L. n. 1578/1933.

Ciò premesso, quanto al dies a quo del termine di prescrizione, soccorre l’ulteriore principio di diritto, pure consolidato, a mente del quale nel caso in cui il procedimento disciplinare abbia luogo per fatti costituenti anche reato e per i quali sia stata iniziata l’azione penale, come certamente nel caso in esame, il termine di prescrizione non può che decorrere dalla definizione del processo penale, ossia dal giorno in cui la sentenza

penale diviene irrevocabile, restando irrilevante il periodo decorso dalla commissione del fatto all’instaurarsi del procedimento penale (cfr. Corte di Cass. Sez. Un. Sent. n. 8313 del 25/03/2019, idem, CNF – Pres. f.f. Lo Grieco, Rel. Salazar, Sent. del 2/11/2018 n. 140).

Con riferimento al caso concreto, l’azione disciplinare risulta intrapresa nei termini con delibera del COA di [Omissis] del [Omissis], a seguito di esposto che riferiva l’intervenuta sentenza di condanna in primo grado dell’incolpato resa dal Tribunale Penale di [Omissis] (Sent. n. [Omissis]/2013), ancor prima quindi che la condanna divenisse irrevocabile, con effetto interruttivo della prescrizione, effetto conseguito poi da tutti gli altri atti propulsivi del procedimento.

Inconferente è il richiamo del ricorrente alla sentenza delle Sez. U. n. 9558 del 2018, dalla quale vorrebbe inferire il principio che lo jus superveniens più favorevole in tema di prescrizione non sarebbe applicabile quando la contestazione dell’addebito sia avvenuta anteriormente all’entrata in vigore della nuova normativa, mentre lo sarebbe quando la contestazione sia successiva a tale data, come nel caso di specie.

È il caso di riportare a contrariis qui la parte motiva di Cass. Sez. U. n. 5596 del 28 febbraio 2020 ove è fatto chiaro che, proprio con riferimento a Cass. S. U. n. 9558 del 2018, «[…] il principio di diritto è però, come si evince dalla lettura della motivazione, esclusivamente quello secondo cui le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa con la conseguenza che, con riferimento al regime giuridico della prescrizione, non è applicabile lo jus superveniens ove più favorevole all’incolpato. Trattasi di interpretazione della portata della disposizione contenuta nell’art. 65 legge n. 247 del 2012 […] che ne esclude l’estensione al regime della prescrizione, corrispondente all’indirizzo prevalente e più di recente di questa Corte […]».

Le S.U. hanno peraltro ribadito il principio, da ultimo, con la sentenza n. 23746 del 6 ottobre 2020.

Il motivo deve pertanto essere disatteso.

Con il secondo motivo, il ricorrente, eccepisce la violazione del divieto di bis in idem, per l’asserito illegittimo cumulo della sanzione penale con quella disciplinare della radiazione – talmente afflittiva da ritenersi di natura sostanzialmente penale – invocando l’art.4 del protocollo n. 7 della convenzione CEDU.

Il motivo è parimenti infondato.

Lo stesso attiene al rapporto tra il processo penale ed il procedimento disciplinare, informato dal principio della autonomia e della indipendenza (art. 54 l. 247/2012), considerato il loro ben diverso ambito soggettivo e di efficacia delle rispettive sanzioni, pur quando siano i medesimi i fatti loro oggetto.

Se l’accertamento definitivo dei fatti nella sede penale vale nel procedimento disciplinare, resta l’autonomia delle valutazioni, così come delle sanzioni rispettive.

A tal riguardo è saldo principio di diritto quello secondo cui «in tema di giudizio disciplinare nei confronti dei professionisti, in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in relazione al principio del “ne bis in idem”, – secondo le statuizioni della sentenza della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/o Italia – in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale» (cfr., tra le altre, Cass. Sez. U. n. 2927 del 03/02/2017; Cass. Sez. U. n. 29878/2018).

Le Sezioni Unite della S.C. hanno affermato più volte che la sanzione disciplinare e quella penale hanno finalità, intensità ed ambiti diversi di applicazione, sicché non è coerente pervenire ad una loro identificazione (v. Cass. sez. U. 12 marzo 2015, n. 4953).

L’azione disciplinare è, invero, promossa indipendentemente dall’azione penale relativa allo stesso fatto, e ben può il procedimento disciplinare proseguire anche dopo il giudicato penale di condanna con pena accessoria, atteso che la diversità di natura delle sanzioni è confermata anche dalla circostanza che la pena accessoria può (come le altre sanzioni penali) estinguersi nel corso del tempo per amnistia (art. 151 primo comma, cod. pen.) o per effetto della riabilitazione (art. 178 cod. pen.), laddove la permanenza degli effetti della sanzione disciplinare ne evidenzia, con particolare rilievo in relazione alla più severa di esse, la specifica afflittività (cfr. Cass. Sez. U. 29 febbraio 2016 n. 4004).

Tali principi son stati correttamente affermati nella decisione oggetto di scrutinio, ragion per cui il motivo di ricorso deve respingersi.

Il terzo e quarto motivo di ricorso, per la loro connessione, possono esaminarsi congiuntamente.

Con il terzo motivo, rubricato testualmente come falsa o comunque erronea applicazione dell’art. 653 co. 1 bis c.p.c. e contestuale violazione dell’art. 54 legge n. 247/2012, il ricorrente lamenta come il CDD abbia errato nell’adeguarsi alla sentenza penale, negando l’effetto vincolante della stessa per l’organo disciplinare in ordine alla sussistenza del fatto addebitato.

Con il quarto motivo, analogo al terzo, il ricorrente lamenta l’erronea ricostruzione dei fatti e la valutazione meramente apparente e formale delle risultanze istruttorie emerse all’esito del dibattimento disciplinare, nonché di quelle rivenienti dagli atti del processo penale versati nel fascicolo del procedimento disciplinare.

Tali doglianze, in sostanza, che attengono al merito, si risolvono nella contestazione della adeguatezza della motivazione, che non conterrebbe una valutazione autonoma dei fatti rispetto a quella compiuta nel giudizio penale.

Sulla scorta di tale premessa, il ricorrente offre la propria rappresentazione dei fatti negando la fondatezza tanto delle risultanze istruttorie del processo penale, quanto quelle del procedimento disciplinare che, ove meglio valutate, avrebbero dovuto condurre ad un esito diverso.

Anche tali mezzi di ricorso appaiono non fondati.

La indipendenza ed autonomia del giudizio disciplinare da quello penale quanto alla valutazione del fatto ed all’ambito di efficacia delle diverse sanzioni, esige, per la necessaria conformità dell’accertamento materiale di uno stesso fatto oggetto di giudizio penale e disciplinare, che la sentenza penale di condanna abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare, quanto all’accertamento del fatto, della sua illiceità penale e della circostanza che l’imputato lo ha commesso, restando riservata al giudice della deontologia la valutazione della rilevanza disciplinare nello specifico ambito professionale alla luce della evidenziata autonomia dei rispettivi ordinamenti, penale e disciplinare (cfr. Cass. Sez. U. n. 19367 del 18 luglio 2019; CNF Pres. Picchioni, rel. Sica sent. n. 28 del 6 maggio 2019; CNF Pres. f.f. Lo Grieco, rel. Siotto, sent. n. 13 dicembre 2018, ed altre).

Tale autonomia di giudizio, nel caso di specie, appare rispettata nell’ambito del principio del libero convincimento che opera anche nella sede disciplinare.

La decisione del Consiglio di disciplina, infatti, compiutamente motivata, non è fondata soltanto sulla sentenza penale – che tuttavia, certamente, ha valore di giudicato – e sulle prove raccolte in quella sede, che ben possono fondare la decisione, ma anche sulle risultanze probatorie raccolte durante il dibattimento disciplinare, ove di esaustivo rilievo risultano le dichiarazioni di tenore univoco rese dai testi sentiti, nella adunanza del 18 giugno 2018, che depongono per la conferma, con autonoma valutazione, del giudizio di colpevolezza dell’incolpato.

Infatti, tutti i testi hanno confermato il comportamento negativo dell’incolpato diretto al tentativo di estorsione ai danni di [Omissis] mediante la diffusione di foto intime in possesso dell’incolpato stesso.

Non meritano accoglimento, pertanto, le censure suddette, essendo la decisione congruamente motivata, in relazione ad un comportamento contrario ai canoni etici fondamentali.

Infine, con il quinto ed ultimo motivo, il ricorrente si duole, in mero subordine, della eccessività della grave sanzione adottata senza adeguata motivazione né considerazione della sospensione già sofferta, chiedendo quindi una riduzione della stessa.

Anche tale motivo deve essere rigettato.

Nella decisione del CDD appare congruamente indicato il criterio di determinazione della sanzione in concreto irrogata, la più grave, della radiazione.

La pretesa mancata indicazione, da parte del Consiglio territoriale – circostanza che nella decisione scrutinata non ricorre – non integra peraltro nullità alcuna della decisione, non sussistendo uno specifico obbligo di motivazione, ma esclusivamente di indicazione di un criterio di adeguatezza e proporzionalità della sanzione inflitta in relazione all’offesa della dignità e decoro della classe professionale che dal comportamento colpevole possono derivare.

La decisione del CDD appare coerente al disposto dell’art. 21 del vigente codice deontologico, tenendo conto del comportamento complessivo dell’incolpato alla stregua della gravità dell’illecito, che appare non dubbia, del fatto doloso, del pregiudizio recato alla parte offesa dal reato, anche nella sua sfera familiare, del disdoro recato all’immagine della professione forense.

Non ravvisa Questo Collegio ragioni per non confermare la decisione del Consiglio territoriale, anche in merito alla sanzione inflitta, adeguata alla gravità ed alla natura dell’offesa recata al prestigio dell’Ordine Forense

P.Q.M.

visto l’art. 50, comma III, del R.D.L. n. 1578/1933,

Il Consiglio Nazionale Forense rigetta il ricorso, confermando la sanzione della radiazione. Dispone la comunicazione della decisione al Consiglio territoriale.

Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità o degli altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.

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