TRIB. REGGIO EMILIA, 06/02/2020
«Si possono definire prove atipiche quelle che non si trovano ricomprese nel catalogo dei mezzi di prova specificamente regolati dalla legge in relazione alle quali nell’ordinamento civilistico manca una norma generale, quale quella prevista dall’art. 189 c.p.p. nel processo penale, che ne legittimi espressamente l’ammissibilità.
Tuttavia, l’assenza di una norma di chiusura nel senso dell’indicazione del numerus clausus delle prove, l’oggettiva estensibilità contenutistica del concetto di produzione documentale, l’affermazione del diritto alla prova ed il correlativo principio del libero convincimento del Giudice, inducono ad escludere che l’elencazione delle prove nel processo civile sia tassativa, ed a ritenere quindi ammissibili le prove atipiche, le quali trovano ingresso nel processo civile, nel rispetto del contraddittorio, con lo strumento della produzione documentale e nel rispetto delle preclusioni istruttorie.
Non è facile ricondurre concettualmente ad unità tali prove – la cui efficacia probatoria è stata comunemente indicata come relativa a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. od argomenti di prova – poiché alcune di esse si caratterizzano per il fatto che l’atipicità dipende dalla circostanza che la prova, pur se astrattamente tipica, è stata raccolta in una sede diversa da quella ove viene adoperata (si pensi alla testimonianza resa in un processo penale ed utilizzata in un processo civile); altre sono connotate dall’utilizzo di mezzi probatori tipici con una finalità diversa da quella che tradizionalmente è loro riservata (si pensi ai chiarimenti resi dalle parti al CTU ed alle informazioni da lui assunte presso i terzi); in altre ancora, l’atipicità dipende dalla stessa fonte probatoria, e cioè dalla modalità con cui la prova viene acquisita al giudizio (si pensi alle dichiarazioni scritte provenienti da persone che potrebbero essere assunte come testi, od alle valutazioni tecniche delle perizie stragiudiziali che potrebbero essere effettuate in sede di CTU).
Nell’alveo delle prove atipiche, sicuramente rientrano anche le perizie e le consulenze espletate in un diverso giudizio tra le stesse od altre parti, e quindi anche la perizia disposta dal P.M., tanto più in un contesto come quello di causa nel quale i due periti sono un docente universitario grande esperto della materia ed un medico legale particolarmente apprezzato nel locale ambiente forense e spesso nominato CTU nelle controversie civilistiche» (Massima non ufficiale)
FATTO
La presente controversia trae origine dal decesso del signor [Omissis], avvenuto il 1/3/2014.
La moglie [Omissis] ed i figli [Omissis] ed [Omissis], hanno dedotto che tale decesso è ascrivibile a colpa medica derivante dalla mancata corretta prestazione delle cure e dalla mancata corretta gestione delle complicanze relative alla fase post operatoria di un intervento cardiochirurgico di inserzione di un tubo protesico nell’aorta, effettuato 15 mesi prima, il 3/12/2012, presso la casa di cura [Omissis] dal dottor [Omissis] ed in relazione al quale il paziente era stato successivamente visitato dal dottor [Omissis]
Sulla base di tale narrativa, i tre attori hanno convenuto in giudizio la casa di cura ed i due medici, per ottenerne la solidale condanna al risarcimento del danno non patrimoniale subìto, iure proprio per la perdita parentale ed iure hereditario per le sofferenze patite dal de cuius, anche a titolo di perdita di chance.
Costituendosi in giudizio, hanno resistito tutti e tre i convenuti, deducendo l’assenza di una propria responsabilità nella causazione dell’evento morte e comunque contestando il quantum delle somme richieste.
I due medici hanno poi richiesto ed ottenuto la chiamata in giudizio delle loro assicurazioni, e cioè [Omissis] per il dottor [Omissis] e [Omissis] per il dottor [Omissis], le quali si sono ritualmente costituite contestando sia la responsabilità dei propri assicurati, sia l’operatività della polizza.
La causa è stata ritenuta dal giudice inizialmente procedente matura per la decisione senza bisogno di disporre CTU, essendo stata prodotta la perizia medico-legale disposta dal P.M. nel corso del procedimento penale instaurato nei confronti dei medici per omicidio colposo ed il decreto di archiviazione del GIP emesso su conforme richiesta del P.M.
Rigettata una istanza di revoca ex art. 177 c.p.c. dell’ordinanza che aveva disatteso la richiesta di CTU e fissata udienza di precisazione delle conclusioni, il fascicolo è per la prima volta pervenuto a questo Giudice, nominato nuovo istruttore in data 7/10/2019, all’udienza del 19/12/2019, ed alla successiva udienza del 6/2/2020 è stato deciso, previa concessione dei termini per finali, con la presente sentenza contestuale ex art. 281 sexies c.p.c., pubblicata mediante lettura alle parti presenti e depositata telematicamente.
DIRITTO
a) Risulta per tabulas che il signor [Omissis], affetto da aneurisma sacciforme dell’aorta ascendente con severa stenosi coronarica monovasale, in un quadro di notevole rischio cardiovascolare per ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete mellito e pregressa abitudine tabagica, il 3/12/2012 è stato sottoposto ad un complesso ed articolato intervento chirurgico programmato, cd. a cuore aperto, di inserzione di tubo protesico nell’aorta discendente ed arco aortico ed aorta ascendente, con reimpianto di tronchi sovra aortici in arresto di circolo e rivascolarizzazione coronarica discendente anteriore mediana.
Ciò detto, ad avviso degli attori, il decesso del loro congiunto avvenuto quindici mesi dopo, dipende da una non adeguatamente fronteggiata infezione peripotesica che si associò alla fistola aorto-esofagea generatasi dopo l’intervento.
b) Ciò premesso, ritiene il giudice che la causa possa essere decisa sulla base della perizia collegiale disposta dal P.M. nell’ambito del procedimento penale promosso nei confronti dei medici ed affidata al professor [Omissis], cardiochirurgo, ed al medico legale P.
Trattasi, in tutta evidenza, di prova atipica che ben può essere posta a fondamento della presente decisione.
Si possono infatti definire prove atipiche quelle che non si trovano ricomprese nel catalogo dei mezzi di prova specificamente regolati dalla legge.
Va in proposito osservato che nell’ordinamento civilistico manca una norma generale, quale quella prevista dall’art. 189 c.p.p. nel processo penale, che legittima espressamente l’ammissibilità delle prove non disciplinate dalla legge. Tuttavia, l’assenza di una norma di chiusura nel senso dell’indicazione del numerus clausus delle prove, l’oggettiva estensibilità contenutistica del concetto di produzione documentale, l’affermazione del diritto alla prova ed il correlativo principio del libero convincimento del Giudice, inducono le ormai da anni consolidate ed unanimi dottrina e giurisprudenza (tra le tante: Cass. n. 10825/2016, Cass. n. 840/2015, Cass. n. 12577/2014, Cass. n. 9099/2012, Cass. n. 5440/2010, Cass. n. 5965/2004, Cass. n. 4666/2003, Cass. n. 1954/2003, Cass. n. 12763/2000, Cass. n. 1223/1990), ad escludere che l’elencazione delle prove nel processo civile sia tassativa, ed a ritenere quindi ammissibili le prove atipiche, le quali trovano ingresso nel processo civile, nel rispetto del contraddittorio, con lo strumento della produzione documentale e nel rispetto delle preclusioni istruttorie (cfr. Cass. n. 5440/2010, Cass. n. 7518/2001, Cass. n. 12422/2000, Cass. n. 2616/1995, Cass. n. 623/1995, Cass. n. 12091/1990, Cass. n. 5792/1990).
Detto quindi che non si dubita dell’ammissibilità delle prove atipiche e della loro parificazione alle prove documentali per l’ingresso nel processo, l’efficacia probatoria di tali prove è stata comunemente indicata come relativa a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. od argomenti di prova (Cass. n. 4667/1998, Cass. n. 1670/1998, Cass. n. 624/1998, Cass. n. 4925/1987, Cass. n. 4767/1984, Cass. n. 3322/1983).
Non è facile ricondurre concettualmente ad unità tali prove, poiché alcune di esse si caratterizzano per il fatto che l’atipicità dipende dalla circostanza che la prova, pur se astrattamente tipica, è stata raccolta in una sede diversa da quella ove viene adoperata (si pensi alla testimonianza resa in un processo penale ed utilizzata in un processo civile); altre sono connotate dall’utilizzo di mezzi probatori tipici con una finalità diversa da quella che tradizionalmente è loro riservata (si pensi ai chiarimenti resi dalle parti al CTU ed alle informazioni da lui assunte presso i terzi); in altre ancora, l’atipicità dipende dalla stessa fonte probatoria, e cioè dalla modalità con cui la prova viene acquisita al giudizio (si pensi alle dichiarazioni scritte provenienti da persone che potrebbero essere assunte come testi, od alle valutazioni tecniche delle perizie stragiudiziali che potrebbero essere effettuate in sede di CTU).
Nell’alveo delle prove atipiche, sicuramente rientrano anche le perizie e le consulenze espletate in un diverso giudizio tra le stesse od altre parti (Cass. n. 15714/2010, Cass. n. 2904/2009, Cass. n. 28855/2008, Cass. n. 12422/2000, Cass. n. 8585/1999, Cass. n. 16069/2001), e quindi anche la perizia disposta dal P.M., tanto più in un contesto come quello di causa nel quale i due periti sono un docente universitario grande esperto della materia ed un medico legale particolarmente apprezzato nel locale ambiente forense e spesso nominato CTU nelle controversie civilistiche.
c) Tutto ciò premesso, hanno spiegato i periti del P.M., con motivazione convincente e pienamente condivisibile, che ha adeguatamente replicato ai rilievi delle parti civili, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi in quanto frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti agli atti ed allo stato di fatto analizzato, che nel caso che qui occupa non vi è alcuna colpa medica.
Infatti, ribadita la particolare ed oggettiva difficoltà tecnica dell’intervento chirurgico, riconosciuta peraltro anche dai consulenti di parte in quanto relativa ad operazione che ha una “significativa percentuale di morbilità/mortalità” (cfr. pag. 23 perizia), nulla si può eccepire, ed invero nulla è stato eccepito, “in merito all’indicazione dell’intervento chirurgico ed alla tecnica operatoria adottata” (pag. 23).
Quanto alle complicanze verificatesi sin dall’immediato post-operatorio in un quadro di sofferenza ischemica cerebrale, trattasi di “complicanze emboliche ampiamente previste in tale tipologia di chirurgia”, per le quali “alcun addebito può essere mosso nei confronti dei chirurghi intervenuti”; e la complicanza neurologica è poi stata “immediatamente rilevata e trattata sin da subito con idonea terapia farmacologica ed altrettanto idonea fisiokinesiterapia” (pag. 23).
Le doglianze dai consulenti degli attori riguardano la gestione di una complicanza legata alla comparsa di una fistola aorto-esofagea generatasi dopo l’intervento, provocata dal decubito della protesi endo-aortica dell’aorta toracica cui era associata un’infezione protesica.
Ciò posto, deve replicarsi che “coerentemente con quanto previsto delle principali linee guida, il paziente è stato sottoposto a profilassi antibiotica” (pag. 24): tale “profilassi antibiotica risultava, nel caso di specie, assolutamente indicata, così come corretta deve intendersi la scelta dell’antibiotico utilizzato”; e “neppure censurabile” è “la somministrazione nel post operatorio di terapia analgesica ed antinfiammatoria, entrambe del tutto adeguate per il trattamento del caso” (pag. 25).
In realtà, diversamente da quanto opinato dai consulenti di parte, né la situazione fattuale all’epoca, né gli elementi successivamente acquisiti “depongono oggi come allora per un’infezione in corso”, ciò che rendeva non necessari “ulteriori approfondimenti rispetto a quelli posti in essere”, e “meno che meno” rendeva necessario “procedere ad un reintervento chirurgico”: infatti, “se effettivamente si fosse impiantata un’infezione nella sede dell’intervento ovvero ci fosse stata un effettiva deiscenza nei punti di sutura, il quadro clinico, biomorale e strumentale, presentato dal paziente, sarebbe dovuto essere ben diverso” (pag. 26).
Concludono quindi i periti del P.M. che la complicanza che ha portato al nuovo ricovero del paziente ed al successivo decesso, deve essere individuata “in una fistola aorto-esofagea sviluppatasi, del tutto verosimilmente, nel corso di un lungo lasso di tempo come lesione da decubito della protesi impiantata, senza che si possa rilevare alcuna criticità in capo agli specialisti che ebbero a predicare l’intervento cardiochirurgico del 3/12/2012.
Tale complicanza, da considerarsi come silente in base alla documentazione esaminata, si è manifestata drammaticamente nel febbraio 2014 con ematemesi, febbre e importante dolore dorsale.
Una volta individuata la patologia sottesa a tale sintomatologia, la antibiotico terapia ad ampio spettro iniziata alla cieca su consulenza infettivologica appare appropriata ed efficace sui germi successivamente isolati. L’agente patogeno in causa per la sepsi è, più verosimilmente, lo streptococco anginosus.
La complicanza fistoloso aorto-esofagea non era comunque suscettibile di guarigione con la antibiotico terapia, ed anche il tentativo di un approccio chirurgico sarebbe stato ad altissimo rischio di morte o di ulteriori complicanze morbose che avrebbero fortemente condizionato il decorso post-operatorio.
La successiva triplice terapia del 26/2/2014… appare giustificata ed efficace rispetto ai potenziali germi in causa ed allo stato di sepsi in un paziente così critico ed esposto ad ulteriori infezioni acquisibili in ospedali da germi multiresistenti.
La prognosi severissima della complicanza fistoloso appare comunque indipendente dal trattamento antibiotico praticato” (pag. 25-26).
Per tali motivi, deve ritenersi che non possano rilevarsi criticità “a carico dei sanitari che, a diverso titolo, si sono occupati del paziente sia per quanto attiene l’intervento chirurgico praticato il 3/12/2012, sia per la monitorizzazione dello stesso nel corso del lungo intervallo di tempo intercorso tra intervento e giorno del decesso dell’uomo il 1/3/2014” (pag. 30).
Tali conclusioni sono state fatte proprie, su conforme richiesta del PM, anche dal GIP del Tribunale di Reggio Emilia, che con decreto 1/6/2018 ha archiviato il procedimento penale, sul presupposto che “la malattia che ha portato alla morte del paziente costituisce una delle più grave complicanze (fistola aorto-esofagea come lesione da decubito della protesi impiantata) che possono insorgere a seguito dell’intervento praticato”.
Tale complicanza, “silente fino ad una settimana prima del decesso”, è stata correttamente trattata con cura antibiotica.
Una diversa e più mirata cura, così come pure un ulteriore intervento chirurgico, “non sarebbero stati idonei e neppure consigliati, visto l’elevatissimo rischio di morte o di ulteriori complicanze morbose, ad impedire l’infausto evento poi verificatosi”: ciò rende “indimostrabile un nesso eziologico tra le condotte ipotizzabili come doverose e l’evento”, e quindi esclude il nesso causale tra la condotta dei medici e la morte del paziente, posto che “qualunque fosse stata la scelta terapeutica intrapresa, l’evento morte non si sarebbe comunque potuto impedire, vista la situazione di estrema gravità e criticità in cui versava il paziente, dovuta anche al fatto che nel corso dei mesi successivi all’intervento tale complicanza è sempre rimasta silente”.
d) Né può essere accolta la richiesta di parte attrice di una rimessione in istruttoria della causa per potere verificare, tramite CTU, se il decesso è avvenuto per una infezione da microbatterio chimera, essendo il signor [Omissis] sottoposto al medesimo macchinario che, secondo notizie giornalistiche, ha cagionato il decesso di due pazienti per infezione chimera presso [Omissis] Hospital.
Infatti, già sotto il profilo di fatto, la tesi attorea prova troppo, perché nel periodo in esame sono stati operati circa 2000 pazienti, i quali avrebbero tutti dovuto o potuto contrarre l’infezione.
In ogni caso, mai è stata riscontrata la presenza dell’infezione da microbatterio chimera sul signor [Omissis], non risultando il suddetto patogeno dagli esami colturali e dalla documentazione agli atti: non sono infatti stati riportati i relativi problemi di carattere infettivologico, e gli esami ecocardiografici non hanno mostrato alterazioni, posto che il quadro descritto è quello di un’infezione della protesi aortica da streptococcus arginosus, ed il batterio è un commensale del cavo orale e non può quindi ritenersi un patogeno nosocomiale.
La stessa distanza tra l’intervento e l’esordio dei sintomi, superiore ad un anno, rende improbabile la genesi nosocomiale; e l’infezione da microbatterio chimera, già estremamente rara, è poi ulteriormente esclusa dalla mancata verificazione dei sintomi tipici quali febbre, astenia e dispnea.
Anche poi sotto il profilo più strettamente giuridico, e l’argomento è dirimente, la richiesta di rimessione in istruttoria e di nuova CTU non può essere accolta, per l’assorbente rilievo relativo al fatto che trattasi di una asserita causa del decesso formulata più di due anni dopo l’inizio di causa e completamente diversa e distinta da quella dedotta nell’atto introduttivo: trattasi quindi di domanda radicalmente nuova nella sua causa petendi, che evidenzia un presunto profilo di colpa dell’ospedale (l’omessa manutenzione del macchinario) assolutamente differente da quello azionato dell’atto introduttivo con riferimento ai medici (la non corretta prestazione di cure da parte dei sanitari per una complicanza post operatoria).
Aliis verbis, l’eventuale infezione da microbatterio chimera avrebbe imposto un’istruttoria sulla manutenzione del macchinario da parte dell’ospedale, non già sul comportamento dei medici nel periodo post operatorio, tenendo comunque conto che non esiste una terapia protocollata e mirata per la cura dell’infezione da microbatterio chimera, e che la correlazione tra l’infezione e l’utilizzo del macchinario al momento dei fatti di causa neppure era nota.
e) In ragione di tutto quanto sopra, la domanda attorea va rigettata, rimanendo assorbite tutte le rimanenti questioni.
Nonostante la soccombenza attorea, sussistono le gravi ed eccezionali ragioni di cui all’articolo 92 comma 2 c.p.c., così come rimodulato a seguito della sentenza di Corte Costituzionale n. 77/2018, per compensare integralmente tra tutte le parti le spese di lite, ragioni integrate sia dall’esigenza di non penalizzare oltre la parte debole del rapporto, e cioè una famiglia che ha comunque visto perdere, in un contesto di grande sofferenza, un suo componente ancora in giovane età; sia dall’oggettiva difficoltà tecnica di comprendere le cause mediche di tale decesso.
Ai sensi dell’art. 52 comma 2 D.Lgs. n. 196/2003, si dispone d’ufficio che, in caso di diffusione della sentenza, vengano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di tutte le parti.
P.Q.M.
il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica
definitivamente pronunciando, nel contraddittorio tra le parti, ogni diversa istanza disattesa
rigetta la domanda;
compensa tra tutte le parti le spese di lite.
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