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TRIB. CROTONE, 26/06/2020, N. 557
«La natura contrattuale della responsabilità sanitaria e del personale sanitario da essa dipendente (risultando la fattispecie in esame sottratta ratione temporis alla disciplina dettata dall’art. 7 comma 3 della L. n. 24/2017) è predicabile solo limitatamente al risarcimento del danno richiesto iure successionis.
Invero, soltanto con riguardo ai pregiudizi che hanno attinto la sfera personale e giuridico-patrimoniale della c.d. vittima primaria può trovare applicazione il principio di diritto secondo cui il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un autonomo contratto a prestazioni corrispettive, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal s.s.n. o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze.
Diversamente, l’azione esperita dal congiunto jure proprio va invece ricondotta alla responsabilità extracontrattuale di cui agli artt. 2049 e 2043 c.c., non essendo le cc.dd. vittime secondarie legate alla struttura sanitaria ed al personale medico operante presso la stessa da alcun rapporto contrattuale» (Massima non ufficiale)
Concisa esposizione delle ragioni in fatto e diritto della decisione
In via preliminare si precisa che la presente sentenza viene redatta secondo lo schema contenutistico delineato dagli artt. 132 e 118 disp. att. c.p.c., come modificati dalla legge n. 69/09 e, quindi, con omissione dello svolgimento del processo ed espressione succinta delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, non essendo tenuto il giudice ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le questioni sollevate dalle parti, potendosi egli limitare alla trattazione delle sole questioni “rilevanti ai fini della decisione”.
Pertanto, le questioni non trattate non andranno ritenute come “omesse”, ma semplicemente assorbite (ovvero superate) per incompatibilità’ logico-giuridica con quanto concretamente ritenuto rilevante e/o provato dal giudicante.
In fatto
1. – Con l’atto introduttivo del presente giudizio [Omissis], coniuge di [Omissis], nato a [Omissis] il [Omissis] e deceduto in data [Omissis], ha esposto che il de cuius:
già’ nel 2003 era stato sottoposto ad operazione di artoprotesi totale dell’anca destra presso il P.O. [Omissis] di [Omissis] ad opera del medico primario del reparto di ortopedia dott. [Omissis];
nel 2009, a causa del fallimento dell’intervento protesico precedente, era stato costretto a ricoverarsi presso il medesimo P.O. di [Omissis], affidandosi anche in tale occasione al dott. [Omissis] al fine di installare una nuova protesi;
a far data dal novembre del 2010 accusava persistenti sofferenze, essendosi venuta a formare sul sito chirurgico una grave lacerazione per la quale veniva prescritta dai sanitari del P.O. di [Omissis] un trattamento terapeutico domiciliare;
in data 4.04.2011 veniva nuovamente ricoverato presso il medesimo nosocomio per essere sottoposto alla rimozione, ancora una volta ad opera del dott. [Omissis], della seconda protesi;
in data 14.04.2011 veniva dimesso dall’Ospedale di [Omissis] nonostante l’esistenza di una grave infezione all’anca, che presentava evidenti segni di rossore, gonfiore e fuoriuscita di liquido dalla ferita;
in data 21.05.2011, in considerazione dei persistenti e lancinanti dolori dovuti alla lacerazione, veniva ricoverato presso l’Istituto [Omissis] di [Omissis], i cui sanitari, dopo aver formulato la diagnosi “postumi infezione mezzo protesico anca destra (rimossa il 4.04.2011) allettato”, gli prescrivevano un trattamento terapeutico consistente nella “prevenzione dei decubiti in attesa di protesizzazione anca destra”;
nel mese di agosto 2011 veniva sottoposto all’installazione di una terza protesi;
in data 20.10.2011 veniva trasferito presso il reparto di malattie infettive e tropicali dello stesso P.O. di [Omissis];
in data 13.11.2011 decedeva per “infezione del sito chirurgico, insufficienza respiratoria e shock settico”.
Ha quindi invocato la responsabilità del P.O. di [Omissis] e del dott. [Omissis], lamentando che:
“appare evidente che il decesso sia avvenuto a causa della negligenza, imperizia ed imprudenza dei sanitari operanti che hanno eseguito in primo luogo un errato intervento protesico essendo lo stesso non andato a buon fine ed hanno successivamente provveduto alle dimissioni frettolose e superficiali del Sig. [Omissis] che non ha potuto ricevere delle cure specifiche al caso sebbene affetto in quel momento da grave infezione post-operatoria in corso”;
“inoltre, i sanitari hanno provveduto ad impiantare una nuova protesi su un sito chirurgico senza accertarsi preventivamente della guarigione dell’infezione”;
“così facendo i sanitari non hanno considerato alternative come ad esempio indirizzare il paziente presso un centro specializzato o procedere ad un altro tipo di soluzione che avrebbe garantito la sopravvivenza del Sig. [Omissis];
“il decesso del sig. [Omissis] ha determinato alla coniuge, Sig.ra [Omissis], una indescrivibile sofferenza interiore ed un terribile turbamento dell’animo tanto più in considerazione del fatto che i coniugi non avevano figli”.
Per le esposte ragioni ha pertanto chiesto l’accoglimento delle seguenti conclusioni: “1) Accertare e dichiarare la responsabilità in solido dei convenuti per i motivi esposti in fatto ed in diritto e per l’effetto condannare gli stessi in solido al risarcimento dei danni patiti dall’attrice per complessivi € 389.970,00 ovvero nelle somme diverse minori o maggiori ritenute di giustizia, oltre rivalutazione monetaria ed interessi nella misura di legge sulla somma rivalutata;
2) con vittoria di spese competenze ed onorari da distrarsi in favore del procuratore antistatario”.
2. – Radicatosi il contraddittorio, si sono costituiti in giudizio entrambi i convenuti.
2.1. – In particolare, l’ASP di [Omissis] ha chiesto di “Rigettare la domanda perché infondata in fatto ed in diritto, non provata con conseguente condanna al pagamento delle spese di lite”.
2.2. – Il dott. [Omissis] ha rassegnato le seguenti conclusioni: “1) Rigettare la domanda articolata, in quanto inammissibile, improcedibile, infondata in fatto ed in diritto, sia nell’an, sia nel quantum; 2) in via subordinata quantificare l’invalidità’ a carattere permanente e l’invalidità’ temporanea riconducibile alle patologie sofferte dal defunto [Omissis], distinguendola da quella riconducibile alla presunta responsabilità medica professionale; 3) con vittoria di spese e competenze tutte di giudizio, da distrarsi in favore del sottoscritto avvocato anticipante, ex art. 93 c.p.c. che ne fa qui espressa richiesta”.
3. – Chiamata in causa da quest’ultimo, si è costituita in giudizio la compagnia [Omissis] s.p.a., la quale ha chiesto: “1) In via principale, rigettare la domanda di risarcimento danno proposta dalla Signora [Omissis], siccome infondata tanto con riferimento alla sussistenza del diritto risarcitorio quanto in ordine all’ammontare della somma richiesta; 2) in via subordinata, nella non creduta ipotesi di ritenuta responsabilità professionale, accertare e dichiarare a quale o quali convenuti sia addebitabile e, in caso di riconoscimento di una addebitabilità’ congiunta che investa anche il dott. [Omissis], procedere alla graduazione delle rispettive colpe nella causazione del danno; 3) sempre in via subordinata e in surroga nei diritti del dott. [Omissis], per il caso in cui venisse accertata una responsabilità del nostro chiamante, accertare e dichiarare la responsabilità risarcitoria esclusiva della Struttura sanitaria e dell’Azienda sanitaria convenute, e comunque il diritto del medico ad essere tenuto indenne dal proprio datore di lavoro e dalla relativa compagnia assicurativa avente polizza in primo rischio assoluto anche in favore dei sanitari; 4) con riferimento al rapporto assicurativo instaurato tra il dott. [Omissis] ed [Omissis], accertare e dichiarare i limiti di operatività’ della polizza illustrati in comparsa di costituzione; 5) con condanna al pagamento di spese, competenze e onorari del presente procedimento, ivi compreso il contributo forfettario per spese generali ex art. 15 l.p.f. nonché CPA e IVA come per legge”.
4. – Espletata l’istruttoria dal precedente titolare del fascicolo mediante acquisizione documentale, prova per testi e c.t.u. medico-legale, all’udienza del 26.06.2020 la causa, previa discussione orale, è stata posta in decisione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.
In diritto
I. PREMESSA.
1. – Parte attrice insiste nell’invocare la natura contrattuale della responsabilità degli odierni convenuti con i conseguenti precipitati processuali in punto di riparto dell’onere della prova.
2. – Va tuttavia rilevato che la natura contrattuale della responsabilità sanitaria e del personale sanitario da essa dipendente (risultando la fattispecie in esame sottratta ratione temporis alla disciplina dettata dall’art. 7 comma 3 della L. n. 24/2017) è predicabile solo limitatamente al risarcimento del danno richiesto iure successionis.
Invero, soltanto con riguardo ai pregiudizi che hanno attinto la sfera personale e giuridico-patrimoniale della c.d. vittima primaria può trovare applicazione il principio di diritto secondo cui “il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un autonomo contratto a prestazioni corrispettive, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal s.s.n. o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu” alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto” (cfr. Cass., sez. III, 14.07.2004 n. 13066; Cass., Sez. Un., 11.01.2008 n. 577).
3. – Diversamente, l’azione spiegata dall’odierna attrice ai fini del ristoro dei danni patiti iure proprio va invece ricondotta alla responsabilità extracontrattuale di cui agli artt. 2049 e 2043 c.c., non essendo le cc.dd. vittime secondarie legate alla struttura sanitaria ed al personale medico operante presso la stessa da alcun rapporto contrattuale (cfr., Cass., sez. III, 20.03.2015 n. 5590; Cass., sez. III, 8.05.2012 n. 6914; più di recente, Trib. Milano, sez. I, 12.04.2019; Trib. Torre Annunziata, sez. II, 10.09.2018 n. 1943).
4. – Da ciò consegue che un diverso regime di distribuzione dell’onus probandi.
5 – Solo nel primo caso il congiunto può limitarsi ad allegare un “inadempimento qualificato”, i.e. astrattamente idoneo alla produzione dell’evento dannoso, gravando sui convenuti la prova che l’inadempimento denunciato non vi è stato ovvero che, pur essendovi stato, è dipeso da causa non imputabile o non ha avuto rilevanza eziologica nella produzione del danno (cfr. Cass., Sez. Un., 30.10.2001 n. 13533; Cass., Sez. Un., 11.01.2008 n. 577).
5.1. – L’allegazione deve però essere “tempestiva”, dovendo essere dedotta entro il termine di cui art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c., la cui scadenza segna l’ultimo momento utile ai fini della delimitazione del thema decidendum.
5.2. – La doglianza, inoltre, deve essere “specifica”.
In particolare, nell’ipotesi di responsabilità sanitaria, ciò implica che l’attore non può dolersi della generica sussistenza di una diversa alternativa terapeutica e/o chirurgica rispetto a quella concretamente praticata, dovendo invece indicare – in modo puntuale – la regola di diligenza, prudenza e perizia asseritamente violata dai sanitari nella fase della “scelta” ovvero in quella della “esecuzione” del trattamento terapeutico somministrato al paziente.
Essendo difatti pacifico il superamento delle più risalenti teorie che fondavano la responsabilità colposa su elementi puramente psicologici quali la mera “volontà’ inosservante” o una “negligenza interiore”, risulta oggi ormai pressoché generalmente accettata, tanto in ambito penale che civile, una “concezione normativa di colpa”, intesa come giudizio di rimproverabilità’ per la violazione di regole cautelari aventi finalità’ precauzionale e tese ad evitare eventi dannosi della medesima tipologia cui appartiene quello concretamente verificatosi.
L’addebito di una responsabilità colposa postula, dunque, la violazione di un “sistema normativo esterno”, i cui precetti, nella colpa generica, sono individuabili mediante il criterio della condotta cui si sarebbe attenuto l’ “agente modello” (homo ejusdem professionis et condicionis), laddove, nella colpa specifica, risultano invece già’ positivizzati.
É dunque onere dell’attore chiarire l’oggetto della contestazione, indicando la regola di perizia che si assume violata, i criteri adottati per la sua individuazione ovvero la fonte che già’ espressamente la contempla, le ragioni – non certo soggettive e/o valutative, ma tecniche ed oggettivamente valutabili – che avrebbero dovuto indurre il sanitario a disattendere le leges artis perché inadeguate e non pertinenti al caso concreto.
5.3. – L’accertamento di tali elementi non può essere integralmente devoluta al consulente tecnico d’ufficio.
La funzione che il consulente è infatti chiamato ad assolvere è solo quella di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi già’ acquisiti al giudizio o nella soluzione di questioni che necessitano di competenze tecnico-specialistiche, senza tuttavia poter sopperire alle lacune assertive e probatorie in cui siano incorse le parti (cfr., ex multis, Cass., sez. III, 6.06.2003 n. 9060; Cass., sez. III, 14.02.2006 n. 3191; Cass., sez. VI, 8.02.2011 n. 3130; Cass., sez. VI, 15.12.2017 n. 30218).
La regola deve ritenersi operante tanto per la consulenza c.d. deducente, che presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova ed ha per oggetto fatti già’ completamente provati dalle parti, quanto per quella c.d. percipiente, che può costituire invece essa stessa fonte oggettiva di prova.
Tuttavia, anche in tale ipotesi è pur sempre necessario che la parte onerata abbia quanto meno puntualmente dedotto – nei termini testé chiariti – il fatto che pone a fondamento della propria domanda.
Ciò assume rilievo ancor più pregnante nelle ipotesi di domande eterodeterminate (al cui novero è senza alcun dubbio riconducibile la domanda risarcitoria di cui si discute), postulando le stesse – diversamente dalle domande autodeterminate – l’identificazione di un preciso fatto genetico della responsabilità colposa enunciato nell’atto di citazione.
In assenza di tale indispensabile presupposto minimo, la devoluzione al c.t.u. dell’accertamento di profili di negligenza dei sanitari diversi da quelli tempestivamente e specificamente denunciati dall’attore risulterebbe difficilmente compatibile, prima ancora che con il principio dispositivo di cui all’art. 115 c.p.c., con il principio della domanda sancito dall’art. 112 c.p.c., con la conseguenza che un integrale intervento sostitutivo del giudice sortirebbe l’inevitabile effetto di alterare i connotati proprio del processo civile.
Pertanto, solo ove sia previamente assolto l’onere di specifica contestazione dell’inadempimento colposo addebitato ai convenuti, può farsi applicazione del principio di diritto, ribadito anche di recente dalla S.C., secondo cui “in materia di responsabilità per attività’ medico-chirurgica, il rispetto, da parte del sanitario, delle “linee guida” – pur costituendo un utile parametro nell’accertamento di una sua eventuale colpa, peraltro in relazione alla verifica della sola perizia del sanitario – non esime il giudice dal valutare, nella propria discrezionalità’ di giudizio, se le circostanze del caso concreto non esigessero una condotta diversa da quella da esse prescritta” (cfr. Cass., sez. III, 15.06.2018 n. 15749).
6. – Quanto sin qui chiarito in punto di delimitazione del sindacato devoluto con la domanda spiegata dagli eredi del paziente deceduto per asserita negligenza medica, deve ritenersi a fortiori valevole allorché venga in questione la responsabilità extracontrattuale invocata dai prossimi congiunti per i danni da loro autonomamente subiti.
In tale diverso caso, infatti, sugli stessi incombe il ben più gravoso onere della prova dell’integrazione di tutti i presupposti all’uopo normativamente richiesti.
Ciò significa che costoro dovranno, non solo allegare, bensì – amplius – dimostrare tutti gli elementi costitutivi della colpa medica, ossia: 1) la negligenza, imprudenza, imperizia dei sanitari; 2) la c.d. causalità’ della colpa, ravvisabile solo ove l’evento dannoso concretamente verificatosi sia riconducibile al novero degli eventi che la norma cautelare violata mirava a prevenire (c.d. concretizzazione del rischio) ed a condizione che sarebbe stato probabilmente evitato dall’adozione del c.d. comportamento alternativo lecito, conforme a tale regola cautelare; 3) l’esigibilità’ di una condotta corrispondente al precetto cautelare nelle concrete e specifiche condizioni in cui i medici sono stati chiamati ad operare.
7. – Le due ipotesi sin qui descritte, pur divergendo quanto alla natura della responsabilità ed ai conseguenti criteri di riparto dell’onere di allegazione e prova della colpa, risultano purtuttavia accomunate sotto il profilo della dimostrazione del danno.
Quest’ultima infatti resta in ogni caso a carico del danneggiato, a prescindere dalla natura – contrattuale o extracontrattuale – della responsabilità dal medesimo invocata.
A tal riguardo, con precipuo riferimento alla domanda di risarcimento del danno iure proprio formulata dai prossimi congiunti, va osservato che la perdita del rapporto parentale integra il solo “danno-evento”, ovvero la lesione del diritto di rilevanza costituzionale all’intangibilità’ della propria sfera degli affetti e della reciproca solidarietà’ nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità’ della libera e piena esplicazione delle attività’ realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2,29 e 30 Cost. (cfr. sentenze gemelle Cass., sez. III, 7.05.2003 nn. 8827 e 8828).
Ad essere meritevoli di ristoro sono però le sole conseguenze pregiudizievoli derivanti da tale perdita, suscettibili di essere ricondotte, in seno al danno non patrimoniale di cui all’articolo 2059 c.c., alle voci – aventi finalità’ meramente descrittiva – del danno morale, del danno biologico e del danno alla sfera del fare areddituale (cfr. sentenze di San Martino, Cass., Sez. Un., 11.11.2008 n. 26972-26975).
Trattandosi dunque di “danni-conseguenza”, il riconoscimento della relativa pretesa risarcitoria presuppone, anche nell’ipotesi di danno subito a seguito della morte di un prossimo congiunto, che il pregiudizio sia compiutamente descritto e che ne vangano allegati e provati gli elementi costitutivi (cfr. Cass., sez. III, 17.07.2012 n. 12236).
La possibilità’ di provare per presunzione non esonera chi lamenta il danno e ne chiede il ristoro dal darne concreta allegazione e prova (cfr. Cass., sez. III, 17.01.2018 n. 907).
Rimangono difatti fermi anche in tale ambito i principi generali che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità’ minima del danno, nel senso di una dimostrazione, anche presuntiva, ma in ogni caso rigorosa della gravità’ e della serietà’ del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale.
Tale onere di allegazione va adempiuto in modo circostanziato, non potendosi risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (cfr. Cass., sez. III, 19.10.2016 n. 21060; Cass., sez. III, 11.11.2019 n. 28989).
II. LA FATTISPECIE CONCRETA.
1. – Poste le superiori premesse, con specifico riferimento alla fattispecie concreta deve osservarsi quanto segue.
2. – Risultano anzitutto inammissibili, in quanto dedotte per la prima volta solo in sede di osservazioni alla c.t.u., le doglianze attoree afferenti alla sussistenza di infezioni nosocomiali prevedibili ed evitabili, mai precedentemente contestate né in sede di citazione né in sede di memoria ex art. 183 comma 6 n. 1 c.p.c.
3. – Le uniche censure ivi tempestivamente dedotte sono infatti le seguenti:
1) errata esecuzione del primo intervento protesico eseguito nel 2003;
2) dimissioni frettolose all’esito del secondo intervento eseguito nel 2009, non avendo i sanitari valutato alternative “come, ad esempio, indirizzare il paziente presso un centro specializzato o procedere ad un altro tipo di soluzione che avrebbe garantito la sopravvivenza del Sig. [Omissis]”;
3) successivo impianto di una nuova protesi nel 2011, senza preventivo accertamento della guarigione dell’infezione.
4. – Tali censure non risultano tuttavia corroborate da alcuna consulenza di parte che – sebbene avente mero valore di allegazione difensiva – avrebbe consentito di rendere specifica la contestazione indicando, in modo puntuale, i protocolli medici, le linee guida, i criteri di condotta e le leges artis cui i sanitari avrebbero dovuto attenersi nell’affrontare quel concreto caso clinico.
5. – In assenza di tale allegazione, non può parte attrice genericamente dolersi “della negligenza, imprudenza, imperizia dei sanitari operanti” pretendendo di devolvere al c.t.u. il compito di accertare ex novo l’errore diagnostico, terapeutico, chirurgico così come la causa nosocomiale o meno dell’infezione.
Diversamente opinando si finirebbe per attribuire agli accertamenti del c.t.u. un ruolo integralmente sostitutivo degli oneri assertivi e probatori delle parti.
6. – Ne consegue che la contestazione relativa all’errore esecutivo asseritamente commesso in occasione del primo intervento risulta generica, non essendo sufficiente il suo solo esito negativo per addebitare una responsabilità colposa al sanitario che l’abbia eseguito.
7. – Lo stesso è a dirsi con riguardo alla censura afferente alla fase di gestione delle dimissioni, non essendo indicato il fondamento medico-legale che rendeva obbligatorio, in quel momento storico, il ricovero presso un centro specializzato.
D’altronde è la stessa attrice a riconoscere la possibilità’ di varie alternative terapeutiche (“un altro tipo di soluzione”), tutte potenzialmente praticabili.
La doglianza è peraltro smentita dalla documentazione clinica in atti, considerato che anche nella successiva data del 21.05.2011 il paziente veniva parimenti dimesso dall’Istituto [Omissis] di [Omissis] con terapia meramente domiciliare (cfr. doc. 4 fascicolo attrice).
8. – Anche l’ultima contestazione, infine, non risulta fondata su alcuna allegazione scientifica plausibile idonea a giustificare l’addebito di una responsabilità ai sanitari.
9. – Per tali ragioni, non ricorrono i presupposti per disattendere le conclusioni rassegnate dall’ausiliario, secondo cui “il sig. [Omissis] riportava infezione nosocomiale non prevedibile; veniva dimesso con terapia antibiotica congrua, a seguito del secondo intervento, e veniva sottoposto ad accertamenti e terapie congrue, secondo i protocolli, a seguito della diagnosi dell’infezione da Acinetobacter baumannii multiresistente” (cfr. relazione di c.t.u. a firma del dott. S.).
10. – La domanda attorea deve pertanto essere rigettata con assorbimento delle difese spiegate in via subordinata dalla compagnia di assicurazione terza chiamata in causa.
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III. SULLE SPESE DI LITE.
1. – Tenuto conto della natura della controversia e delle questioni giuridiche ad essa sottese, appare equo o comunque opportuno disporre la compensazione delle spese di lite.
2. – Va invece disposta, con separato decreto, la revoca dell’ammissione anticipata e provvisoria dell’attrice al patrocinio a spese dello Stato, in forza del principio secondo cui la valutazione della “non manifesta infondatezza” della domanda ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 122 e 136 T.U.S.G. va compiuta non in astratto, ma in concreto, tenuto conto della enunciazione delle ragioni in fatto ed in diritto a tal fine addotte e della specifica indicazione delle prove di cui si intende chiedere l’ammissione (cfr. Cass. 10.11.2017 n. 26661; Cass., sez. II, 17.10.2018 n. 26060).
3. – Le spese di c.t.u., come liquidate in atti, devono essere definitivamente poste a carico di parte attrice.
P.Q.M.
Il Giudice del Tribunale di Crotone, dott. Alfonso Scibona, definitivamente pronunciando nella causa civile iscritta al n. 195/2014 [Omissis], ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, così statuisce:
1. rigetta la domanda di risarcimento del danno avanzata dall’attrice iure hereditario;
2. rigetta la domanda di risarcimento del danno avanzata dall’attrice iure proprio;
3. compensa le spese di lite tra le parti in causa.