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Chi si occupa di procedure concorsuali ben conosce la miriade di problematiche in cui incappa quotidianamente il curatore fallimentare, in particolare nel corso dell’attività di apprensione dei beni del fallito, prima, e della loro successiva custodia e vendita, poi.
Il decreto del Tribunale di Milano che oggi vi proponiamo (Trib. Milano, Sez. Fall., Decreto 08/02/2017) riguarda in modo specifico una di tali problematiche, che, per rilevanza e gravità delle conseguenze che ne possono scaturire, merita particolare attenzione: quella della responsabilità del curatore derivante dal trattamento dei rifiuti, nella triplice accezione in cui tale problematica si può porre:
- quella in cui il curatore rinvenga, tra le varie cose ubicate nell’ambito pertinenziale del fallimento, anche materiali costituenti rifiuto, che, come tali, debbano essere trattati/smaltiti;
- quella in cui il curatore si debba occupare di aziende il cui oggetto sociale, allorché in bonis, fosse rappresentato proprio dal trattamento di tali rifiuti (ipotesi considerata dal precedente di specie);
- quella, infine, in cui sia lo stesso curatore fallimentare a produrre egli stesso rifiuti, giacché, ad esempio, autorizzato all’esercizio provvisorio dell’impresa.
Il caso
Nel caso oggetto della decisione milanese ora in esame, un curatore fallimentare di una società che esercitava l’attività di trattamento e lavorazione di rifiuti speciali, nel redigere il programma di liquidazione ex art. 104-ter L. F. aveva proposto l’abbandono di tutti i residui di lavorazione rinvenuti in loco (trattavasi, nella specie, di sei tonnellate di rifiuti speciali, peraltro conservati, a quel che è dato desumere dal testo del decreto de quo, in pessime condizioni) ritenuti privi di valore economico ed, anzi, fonte di ingenti costi per la procedura.
Il Giudice delegato (in surroga del comitato dei creditori, evidentemente non nominato nella specie) autorizzava il curatore in termini ex art. 41, 4° co., L. F., ma il proprietario dell’area (coobbligato in solido allo smaltimento dei rifiuti con il responsabile del loro abbandono ex art. 192, 3° co., D.LGS. 03/04/2006, n. 152, altrimenti noto come Testo Unico Ambiente o TUA) proponeva reclamo ex art. 26 L. F., sostenendo che il curatore fosse obbligato in proprio allo smaltimento, quale detentore dei rifiuti, ex art. 183, 1° co., lett. h, TUA, ovvero come produttore di essi (ex artt. 183, 1° co., lett. f, e 188, 1° co., TUA), essendo egli, dunque, soggetto agli obblighi di smaltimento e ripristinatori di cui all’art. 192 TUA cit. ed alle responsabilità previste dagli artt. 255 e 256 del medesimo T.U.
Il quadro normativo di riferimento
Prima di esporre la soluzione adottata dal decreto in commento, vale la pena inquadrare, sia pure molto sinteticamente, il quadro normativo di riferimento in cui esso si colloca.
Le prime norme da prendere in considerazione sono quelle di cui alle lett. f e h dell’art. 183 TUA, le quali, rispettivamente, definiscono, la lett. f, il produttore dei rifiuti, come «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)» e, la lett. h, il detentore dei rifiuti, come «il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso».
Vengono, poi, in rilievo l’art. 188, 1° co., TUA, che sancisce l’obbligo del produttore o detentore di rifiuti di provvedere al loro trattamento, ovvero alla loro consegna a soggetto a ciò abilitato e l’art. 192 TUA, che, dal canto suo, vieta l’abbandono dei rifiuti, obbligando il trasgressore al loro smaltimento ed al ripristino dello stato dei luoghi, in solido, a determinate condizioni, con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali sull’area interessata all’abbandono e, nel caso di illecito imputabile ai rappresentanti di persona giuridica, in solido con coloro che siano subentrati nei diritti della stessa ex D.LGS. 08/06/2001, n. 231 (dettato in materia di responsabilità delle persone giuridiche).
Da ultimo, un cenno meritano pure gli artt. artt. 255 e 256 TUA, i quali sanzionano penalmente sia l’abbandono di rifiuti, che la realizzazione di discariche abusive.
La decisione
In questo contesto si muove, dunque, il Tribunale di Milano, il quale si pone ex professo il quesito
«se il curatore del fallimento, ove rinvenga rifiuti presso i locali dell’impresa nel corso delle attività di ricostruzione dell’attivo fallimentare e di inventariazione (in questo caso il trattamento di rifiuti era oggetto stesso dell’attività di impresa), ne è tenuto inderogabilmente al trattamento e allo smaltimento, ovvero al conferimento a soggetto che proceda allo smaltimento».
Come si può notare, il decreto in esame non si limita ad esaminare la fattispecie specifica che ne costituisce l’oggetto (in cui il trattamento dei rifiuti costituiva l’attività della fallita e, dunque, i rifiuti rappresentavano, sostanzialmente, il magazzino della medesima), ma anche la distinta ipotesi nella quale il curatore di una società con oggetto commerciale, per così dire, ordinario, rinvenga comunque nei locali ove la società fallita esercitava la propria attività materiali costituenti rifiuto, per verificare se, in entrambi tali casi, il curatore abbia o meno un dovere di procedere allo smaltimento dei rifiuti stessi.
Il curatore non risponde quale soggetto “subentrante”
Nell’effettuare la verifica di cui sopra, il Tribunale valuta in primo luogo la figura del curatore in relazione all’art. 192 TUA sopra citato, che sancisce il divieto di abbandono di rifiuti e l’obbligo per il trasgressore di provvedere alla rimozione di essi ed al ripristino dei luoghi (3° co della disposizione appena citata) e, nei casi in cui il trasgressore sia una persona giuridica o un suo rappresentante, estende (4° co. dell’art. 192 cit.) tale obbligo anche «ai soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni».
In merito, il Tribunale richiama la costante giurisprudenza amministrativa e, in particolare, gli enunziati di Tar Lombardia-Milano, 03/03/2017, n. 520 a mente dei quali, la qualifica di “subentrante” deve essere negata al curatore fallimentare in quanto
«la società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento»
e, correlativamente,
«il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura».
Sul tema, peraltro, si era già espressa a suo tempo la Suprema Corte con la sentenza Cass. Civ., Sez. I, 23/06/1980, n. 3926 (pure citata nella decisione oggi in rassegna) sancendo, in tesi generale, che
«il fatto che alla curatela sia affidata l’amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell’attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l’adempimento di obblighi facenti carico originariamente all’imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all’inizio della procedura concorsuale»;
e ciò in quanto, come pure osserva il precedente di legittimità appena citato, «il curatore, nell’espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito».
Ciò posto, il decreto milanese conclude sul punto stabilendo chiaramente che è
«esclusa una responsabilità del curatore del fallimento quale soggetto obbligato allo smaltimento dei rifiuti prodotti dal fallito».
Il curatore non risponde neppure come “altro detentore”
Esclusa, come si è appena visto, una responsabilità da subentro del curatore fallimentare, il Tribunale passa indi a chiedersi se questi possa, viceversa, essere chiamato a rispondere per i titoli in questione nella sua qualità di «altro detentore» dei rifiuti, come tale obbligato, al pari dell’originario produttore, a provvedere al loro trattamento, ovvero alla consegna di essi a soggetti qualificati a farlo a mente dell’art. 188, 1° co., TUA.
Anche sotto tale distinto profilo la responsabilità del curatore viene tuttavia esclusa dal decreto in commento, quantomeno ogni qual volta egli «come nel caso di specie, ometta di inventariare tali beni, ovvero dopo averli inventariati, decida di abbandonarli in quanto beni di nessun valore».
I rifiuti, infatti, continua il decreto de quo,
«sono, per le loro qualità intrinseche, beni di valore negativo, ossia beni che non attribuiscono alcuna utilità alla massa dei creditori e che, al contrario, onerano la curatela del fallimento dei costi di stoccaggio, trattamento e smaltimento previo conferimento (a titolo oneroso) a soggetto a ciò abilitato»,
non essendo la curatela dunque, in alcun modo tenuta ad acquisirli alla massa fallimentare ed apparendo, anzi, acquisito il principio secondo il quale
«il curatore del fallimento non può ritenersi né produttore, ancorché come avente causa del fallito, né detentore qualificato (in caso di mancata inventariazione o abbandono dei rifiuti) a termini dell’art. 188 TUA».
Quando il curatore può essere chiamato a rispondere
Restano fuori dal quadro di esenzione da responsabilità del curatore in tal modo tracciato essenzialmente tre ipotesi, nelle quali potrà dunque accadere che questi venga chiamato a rispondere per vicende correlate alla gestione concorsuale dei rifiuti.
La prima di esse sembra emergere in negativo da quanto si è appena detto circa l’impossibilità di qualificare il curatore in termini di «altro detentore», ex art. 188, 1° co., TUA: se, infatti, una tale qualifica ed i correlativi divieti e responsabilità ed essa ricollegati, posso essere esclusi solo allorquando il curatore non inventari, ovvero, dopo averli inventariati, decida di abbandonare i rifiuti de quibus, ne deriva che ove, invece, ciò non accada – e, dunque, nel caso in cui tali rifiuti vengano considerati alla stregua di un qualsivoglia bene appreso alla massa fallimentare (il che può ben succedere, anche considerando che il confine tra “bene” e “rifiuto” e sovente alquanto sfumato) – in capo alla curatela potranno configurarsi gli oneri previsti dalla legge.
La seconda afferisce al caso di specie, nel quale, come si ricorderà, la società fallita esercitava proprio l’attività di trattamento di rifiuti speciali ed attiene, in particolare, all’eventualità che venga disposto l’esercizio provvisorio di un tal genere di impresa ex art. 104 L. F. È naturale, infatti, che, trovandosi in tal caso il curatore ad esercitare la specifica attività afferente alla lavorazione dei rifiuti, egli sarà tenuto autonomamente all’osservanza di tutti gli adempimenti derivanti dal più volte citato TUA e sarà, perciò, esposto a subire le conseguenze delle eventuali trasgressioni di tale normativa.
La terza e ultima ipotesi è quella di produzione autonoma di rifiuti da parte del curatore (perché, ad esempio, autorizzato all’esercizio provvisorio di impresa avente ordinario oggetto commerciale o per qualsivoglia altra ragione): anche in tal caso, infatti, per le ragioni appena esposte, questi, ricorrendone i presupposti, risponderà delle proprie condotte illecite come qualsiasi altro produttore di rifiuti.