Le SS.UU. sugli effetti della delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio sul giudizio di divorzio Cass. Civ., SS.UU., 31/03/2021, n. 9004

By | 19/04/2021

CASS. CIV., SS.UU., 31/03/2021, N. 9004

«In tema di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile» (Massima non ufficiale)

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del [Omissis], il Tribunale di [Omissis] pronunziò la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il [Omissis] con rito concordatario da [Omissis] con [Omissis], ponendo a carico dell’uomo l’obbligo di corrispondere alla donna un assegno mensile di Euro 450,00, da rivalutarsi annualmente secondo l’indice Istat.

2. L’impugnazione proposta dal [Omissis], avente ad oggetto esclusivamente il riconoscimento dell’assegno divorzile, è stata rigettata dalla Corte d’appello di [Omissis] con sentenza del 4 novembre 2013.

A fondamento della decisione, la Corte ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento del diritto all’assegno divorzile, ritenendo dimostrata l’indisponibilità di mezzi adeguati da parte della [Omissis], e rilevando che erano rimasti incontestati lo stato di assoluta indigenza della donna e l’impossibilità per la stessa di procurarsi i mezzi necessari per migliorare la propria condizione, in ragione dell’età e della crisi economica. Ha osservato inoltre che all’epoca della cessazione della convivenza le condizioni economiche dei coniugi erano pressocché equivalenti, in quanto il [Omissis], studente in medicina ed occupato come operaio, percepiva uno stipendio mensile di Lire 900.000 circa, mentre la [Omissis] lavorava come impiegata alle dipendenze di una cooperativa, con uno stipendio di Lire 950.000 circa. Ha ritenuto che, ai fini dell’accertamento della durata della convivenza, non potessero assumere rilievo le dichiarazioni rese dalla [Omissis] nel giudizio ecclesiastico di nullità del matrimonio promosso dal [Omissis], non avendo le stesse valenza confessoria, in assenza di garanzie processuali, e dovendo trovare applicazione la disciplina civilistica, alla stregua della quale occorreva tener conto della data del ricorso per la separazione dei coniugi, depositato il [Omissis], e di quella dell’autorizzazione a vivere separati, intervenuta nei primi mesi dell’anno [Omissis]. Ha rigettato quindi le istanze istruttorie proposte dall’appellante, rilevando, in ordine alla situazione economica attuale delle parti, che, mentre a seguito della separazione il [Omissis] aveva proseguito gli studi ed era divenuto medico odontoiatra, costruendosi una solida posizione professionale, nella quale aveva coinvolto anche l’unico figlio nato dal matrimonio, la [Omissis], travolta dalla crisi, era rimasta disoccupata ed impossidente. Ritenuto che tale situazione costituisse lo sviluppo delle potenzialità della coppia, ha pertanto riconosciuto il diritto della donna all’assegno, liquidandolo in misura sostanzialmente corrispondente a quella dell’assegno di mantenimento riconosciuto in sede di modifica delle condizioni di separazione, salvo l’adeguamento al mutato valore della moneta. A tal fine, ha evidenziato anche la breve durata del matrimonio, inferiore a cinque anni, ritenendo invece irrilevante, a fronte dello stato d’indigenza della [Omissis], la contrazione reddituale subìta dal [Omissis] a seguito della costituzione di un’associazione professionale con il figlio, ed attribuendo una valenza meramente indiziaria alle dichiarazioni dei redditi dell’uomo, in quanto unilateralmente predisposte dallo stesso.

3. Avverso la predetta sentenza il [Omissis] ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. La [Omissis] ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

3.1. La causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio dinanzi alla Sesta Sezione civile, che con ordinanza del 9 dicembre 2016 l’ha rinviata alla pubblica udienza della Prima Sezione civile, rilevando che, unitamente alla memoria di cui all’art. 380-bis c.p.c., comma 2, il [Omissis] aveva depositato copia di una sentenza dell’11 luglio 2016, con cui la Corte d’appello di [Omissis] aveva reso esecutiva nel nostro ordinamento una sentenza emessa dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco il [Omissis], e ratificata dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica il [Omissis], che aveva dichiarato la nullità del matrimonio.

3.2. Con ordinanza del 25 febbraio 2020, la Prima Sezione civile ha rigettato innanzitutto l’eccezione d’inefficacia della sentenza di delibazione, dando atto del passaggio in giudicato della stessa, per effetto della sentenza emessa il 21 gennaio 2020, con cui era stata dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dall’ [Omissis], e ritenendo pertanto superata anche l’istanza di riunione dei due giudizi, formulata dal ricorrente.

Avendo poi il [Omissis] richiesto che fosse dichiarata la cessazione della materia del contendere, in virtù della sopravvenuta dichiarazione di nullità del matrimonio, la Prima Sezione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, il quale ha disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, per la risoluzione di un contrasto di giurisprudenza, avente ad oggetto la seguente questione: “se il giudicato interno (per effetto di sentenza parziale o capo autonomo non impugnato della sentenza) che dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte d’appello (con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni, con l’effetto (nel secondo caso) di non precludere al giudice civile il potere di regolare, secondo la disciplina della L. n. 898 del 1970 e succ. mod., i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi il cui vincolo sia consacrato in un atto matrimoniale nullo”.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il contrasto di giurisprudenza che ha indotto la Prima Sezione civile a sollecitare l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite è stato determinato, secondo l’ordinanza di rimessione, da una recente decisione della medesima Sezione, che, pronunciando in ordine ad una fattispecie analoga a quella che costituisce oggetto del presente giudizio, ha affermato che il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili del medesimo matrimonio, non impedisce la prosecuzione del giudizio di divorzio ai fini della decisione in ordine alla domanda di determinazione dell’assegno (cfr. Cass., Sez. I, 23/01/2019, n. 1882). A sostegno di tale enunciato, la predetta decisione ha rilevato da un lato che “non sussiste un rapporto di primazia della pronuncia di nullità, secondo il diritto canonico, del matrimonio concordatario sulla pronuncia di cessazione degli effetti civili dello stesso matrimonio, trattandosi di procedimenti autonomi, aventi finalità e presupposti diversi”, e dall’altro che “la declaratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale non fa cessare alcuno status di divorziato, che è uno status inesistente, determinando piuttosto la pronuncia di divorzio la riacquisizione dello stato libero”; tanto premesso, ha affermato che il titolo giuridico dell’obbligo di mantenimento dell’ex coniuge “non è costituito dalla validità del matrimonio, oggetto della sentenza ecclesiastica”, ma “si fonda sull’accertamento dell’impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale tra i coniugi stessi, che è conseguente allo scioglimento del vincolo matrimoniale civile o alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario”, concludendo pertanto che “la questione della spettanza e della liquidazione dello assegno divorzile non è preclusa quando l’accertamento inerente all’impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi (.) sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell’ipotesi in cui nell’ambito di un unico giudizio la statuizione relativa allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici”.

Tale conclusione, ad avviso dell’ordinanza di rimessione, si pone in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di divorzio, che, in riferimento all’ipotesi della sopravvenienza della dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, ne esclude l’incidenza sulle statuizioni di ordine economico conseguenti alla pronuncia di cessazione degli effetti civili, qualora le stesse siano già divenute definitive (cfr. Cass., Sez. I, 18/09/2013, n. 21331; 4/03/ 2005, n. 4795; 23/03/2001, n. 4202), riconoscendone invece l’idoneità ad impedire la prosecuzione del giudizio ed a travolgere la stessa sentenza di divorzio, se in ordine a quest’ultima non sia ancora intervenuta la formazione del giudicato (cfr. Cass., Sez. I, 7/10/2019, n. 24933; 4/06/2010, n. 13625; 4/02/2010, n. 2600; 25/06/2003, n. 10055). L’orientamento in questione muove dalla presa d’atto dell’intervenuta abolizione della riserva di giurisdizione in favore dei tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari (già prevista dalla L. 27 maggio 1929, n. 810, art. 34, comma 4, in esecuzione del Concordato stipulato tra l’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 e venuta meno per effetto della riforma attuata con l’Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con L. 28 marzo 1985, n. 121), per affermare che “una volta formatosi il giudicato (.) in ordine alla spettanza dell’assegno di divorzio, poiché le parti possono ormai dedurre nel processo per la cessazione degli effetti civili del matrimonio la nullità del vincolo matrimoniale, in forza del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile, la sentenza di divorzio, pur non impedendo la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio pronunciata dai Tribunali ecclesiastici, impedisce che la delibazione travolga le disposizioni economiche adottate in sede di divorzio”. A sostegno di tale assunto, si rileva che, “ove le parti non introducano espressamente nel giudizio di divorzio, attraverso contestazioni al riguardo, questioni sull’esistenza e validità del matrimonio – che darebbero luogo a statuizioni le quali, incidendo sullo stato delle persone, non possono essere adottate incidenter tantum, ma dovrebbero essere decise necessariamente, ex art. 34 c.p.c., con accertamento avente efficacia di giudicato – di regola l’esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio, ma non formano nel relativo giudizio oggetto di specifico accertamento suscettibile di dare luogo al formarsi di un giudicato”. Si osserva quindi che “la sentenza di divorzio – che ha causa petendi e petitum diversi da quelli della sentenza di nullità del matrimonio – ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio (.), non impedisce la delibabilità della sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi”, mentre, “quanto (.) ai capi della sentenza di divorzio che contengano statuizioni di ordine economico, si applica la regola generale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione (.) fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 c.c.” (cfr. Cass., Sez. I, 23/03/2001, n. 4202, cit.).

1.1. In realtà, come ha correttamente segnalato il Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte, nessuna delle pronunce citate dall’ordinanza di rimessione come ascrivibili a quest’ultimo orientamento giunge esplicitamente ad affermare che, ove intervenga nel corso del giudizio di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio ne impedisce la prosecuzione anche nel caso in cui, come nella specie, sia già passata in giudicato la pronuncia di cessazione degli effetti civili, e si tratti soltanto di procedere all’accertamento della spettanza ed alla liquidazione dell’assegno divorzile: esse, infatti, si riferiscono a casi in cui, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di delibazione, non era ancora divenuta definitiva la pronuncia di scioglimento del vincolo coniugale (cfr. Cass., Sez. I, 7/10/2019, n. 24933; 4/06/2010, n. 13625; 4/02/2010, n. 2600; 25/06/2003, n. 10055, cit.), ovvero a casi in cui, alla medesima data, era già passata in giudicato la sentenza recante la determinazione delle conseguenze economiche (cfr. Cass., Sez. I, 18/09/2013, n. 21331; 4/03/2005, n. 4795; 23/03/2001, n. 4202, cit.), e si limitano ad affermare che nella prima ipotesi il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica impedisce la prosecuzione del giudizio di divorzio, determinando la cessazione della materia del contendere e travolgendo tutte le sentenze eventualmente pronunciate, mentre nella seconda ipotesi la pronuncia di divorzio e le statuizioni accessorie rimangono insensibili alla dichiarazione di nullità del matrimonio. A ciò si aggiunga che nell’ordinanza alla quale si fa risalire il denunciato contrasto si richiamano, a conforto dell’affermazione secondo cui la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità intervenuta dopo il passaggio in giudicato di quella di cessazione degli effetti civili del matrimonio non impedisce la prosecuzione del giudizio di divorzio ai fini della determinazione dell’assegno, precedenti di legittimità riconducibili al medesimo orientamento citato dall’ordinanza di rimessione. Ciò nonostante, quest’ultima ritiene di poter desumere dalle stesse premesse un principio di diritto contrastante con quello enunciato dall’ordinanza più recente, argomentando a contrario dalla ritenuta insensibilità del giudicato formatosi in ordine alle conseguenze economiche del divorzio agli effetti della successiva delibazione della sentenza di nullità, per affermare che quest’ultima, nel caso in cui intervenga dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di scioglimento del vincolo ma prima della determinazione dell’assegno, è invece idonea ad impedire la prosecuzione del giudizio.

1.2. Per impostare correttamente la problematica sollevata dall’ordinanza di rimessione, occorre dunque ricostruire brevemente lo stato della giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti tra giudizio di nullità del matrimonio religioso e giudizio di divorzio, al fine d’individuare le ragioni sottese all’affermazione dell’intangibilità del giudicato di divorzio da parte del provvedimento di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità.

Com’è noto, a seguito della sentenza con cui, nell’ultimo decennio del secolo scorso, queste Sezioni Unite ritennero abrogata, per effetto dell’entrata in vigore della L. n. 121 del 1985, che aveva dato esecuzione allo Accordo di revisione del Concordato lateranense del 1929, la riserva di giurisdizione in favore dei Tribunali ecclesiastici in materia di nullità del matrimonio concordatario celebrato secondo le norme del diritto canonico (cfr. Cass., Sez. Un., 13/02/1993, n. 1824), questa Corte affermò che il concorso tra la giurisdizione ecclesiastica e quella civile dev’essere risolto secondo il criterio della prevenzione in favore della giurisdizione civile, in virtù del quale a) il giudice italiano preventivamente adito può giudicare sulla domanda di nullità di un matrimonio concordatario, b) il convenuto in una causa di divorzio può chiedere l’accertamento della nullità del vincolo, c) la pendenza del giudizio civile nel quale sia stato chiesto l’accertamento della nullità impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica, d) il giudizio civile può essere paralizzato soltanto dall’intervenuta delibazione della sentenza ecclesiastica, e) il giudicato di divorzio non impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, ma non può ritenersi travolto dalla stessa (cfr. Cass., Sez. I, 18/04/1997, n. 3345; 16/11/1999, n. 12671; 19/11/1999, n. 12867). Quest’ultima affermazione, originariamente giustificata con l’osservazione che, in assenza di un’espressa domanda di nullità, il giudicato di divorzio contiene una valutazione meramente implicita di validità del matrimonio, nei limiti di un accertamento incidentale, fu in seguito precisata nel senso che, non potendo la predetta valutazione aver luogo in via incidentale, ma dovendo la questione di nullità essere decisa necessariamente con efficacia di giudicato, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., l’esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio, ma non possono formare oggetto di specifico accertamento suscettibile di dar luogo alla formazione di un giudicato, a meno che le relative questioni non siano state introdotte espressamente dalle parti nel giudizio di divorzio (cfr. Cass., Sez. I, 23/03/2001, n. 4202, cit.); al riguardo, fu anche chiarito che non vi è coincidenza tra gli oggetti del due giudizi, caratterizzati da petita e causae petendi diversi, dal momento che la domanda di nullità del matrimonio concordatario è volta ad ottenere l’accertamento dell’invalidità originaria del vincolo coniugale, ed investe pertanto il matrimonio-atto, mentre quella di cessazione degli effetti civili incide sul matrimonio-rapporto, del quale mira a provocare lo scioglimento con efficacia ex nunc (cfr. Cass., Sez. I, 4/03/2005, n. 4795; 11/02/2008, n. 3186; 24/07/2012, n. 12989): nella medesima ottica, si affermò che tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, tale da imporre la sospensione del secondo a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, trattandosi di procedimenti autonomi, non solo destinati a sfociare in decisioni di diversa natura (e dotate di specifico rilievo in ordinamenti diversi, tanto che la decisione ecclesiastica può produrre effetti nell’ordinamento italiano soltanto a seguito della delibazione), ma aventi anche finalità e presupposti differenti (cfr. Cass., Sez. I, 9/06/2000, n. 7865; 19/09/2001, n. 11751; 25/05/2005, n. 11020; 10/12/2010, n. 24990).

1.3. Orbene, è proprio la riscontrata diversità di natura ed effetti tra la sentenza di nullità e quella di divorzio, più volte ribadita dalla giurisprudenza di legittimità e riconducibile alla diversità di petitum e causa petendi delle relative domande, a giustificare, oltre al riconoscimento della possibilità di una coesistenza tra le due pronunce, nel caso in cui la delibazione della sentenza ecclesiastica intervenga successivamente al passaggio in giudicato di quella di divorzio, l’affermazione dell’inidoneità della prima ad impedire, nel caso in cui lo scioglimento del vincolo abbia luogo disgiuntamente dalla determinazione delle conseguenze economiche, la prosecuzione del giudizio civile ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile. Se è vero, infatti, che, in assenza di un’espressa domanda in tal senso, il giudicato di divorzio non implica alcun accertamento in ordine alla validità del matrimonio, la quale ne costituisce certamente il presupposto, ma resta estranea all’oggetto del giudizio, consistente esclusivamente nello scioglimento del vincolo coniugale, allora deve concordarsi con la tesi secondo cui non è il predetto accertamento a costituire il titolo giuridico dell’obbligo di corrispondere l’assegno all’ex coniuge, il cui fondamento dev’essere invece individuato nella constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonché della necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, da realizzarsi attraverso il riconoscimento di un contributo in favore di uno di essi. Tale accertamento non inerisce all’atto costitutivo del vincolo coniugale, ma allo svolgimento di quest’ultimo nella sua effettività, contrassegnata dalle vicende concretamente affrontate dai coniugi come singoli e dal nucleo familiare nel suo complesso, anche nella loro dimensione economica, la cui valutazione trova fondamento, a livello normativo, nei criteri indicati dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6, ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno. In proposito, è appena il caso di richiamare la più recente giurisprudenza di legittimità, la quale, nel confermare l’individuazione del fondamento di tale contributo in un dovere inderogabile di solidarietà previsto a favore dell’ex coniuge economicamente più debole, anziché nello status di coniuge, destinato a venir meno per effetto dello scioglimento del vincolo (cfr. Cass., Sez. I, 11/05/2018, n. 11533), riconosce allo stesso una funzione non solo assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, valorizzandone il collegamento con la vita familiare, attraverso l’individuazione delle relative finalità nell’assicurazione non già dell’autosufficienza economica del richiedente sulla base di un parametro astratto, bensì di un livello reddituale adeguato al contributo concretamente fornito dall’avente diritto alla conduzione della vita familiare ed alle aspettative professionali da lui eventualmente sacrificate (cfr. Cass., Sez. Un., 11/07/2018, n. 18287; Cass., Sez. I, 28/02/2020, n. 5603): aspetti, questi, inerenti al profilo fattuale del rapporto matrimoniale, desumibile dalle scelte di volta in volta compiute nel corso della vita coniugale e dalle concrete ripercussioni sulle condizioni economiche dei coniugi, il cui accertamento non è condizionato dalla validità dell’atto costitutivo, la quale, come si è detto, rimane estranea all’oggetto del contendere, ma dall’intervenuta disgregazione del nucleo familiare, consacrata nella pronuncia di scioglimento del vincolo coniugale. E poiché tale pronuncia, una volta divenuta definitiva, non resta travolta dal successivo riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio, la quale ha un oggetto diverso, anche il predetto accertamento risulta insensibile a tale riconoscimento, il quale non preclude quindi la prosecuzione del giudizio ai fini della pronuncia sull’obbligo di corrispondere l’assegno.

Non può pertanto condividersi la tesi sostenuta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui, in quanto aventi il loro fondamento nella solidarietà post-coniugale, la quale presuppone un rapporto di coniugio fondato su un matrimonio-atto valido o quanto meno non nullo, le statuizioni economiche conseguenti alla pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio non possono sopravvivere alla dichiarazione di nullità dello stesso, a meno che non siano già passate in giudicato. Se è vero, infatti, in linea generale, che la regola del giudicato può operare soltanto quando la spettanza di un determinato diritto non possa essere più rimessa in discussione, in quanto accertata in un giudizio tra le parti con sentenza non più impugnabile, è anche vero, però, che nel caso in esame il giudicato formatosi in ordine all’impossibilità della ricostituzione della comunione tra i coniugi investe il titolo stesso del diritto all’assegno, la cui incontestabilità esclude, quanto meno ai fini che qui interessano, l’operatività della dichiarazione di nullità del matrimonio. Non giova obiettare che la prosecuzione del giudizio di divorzio condurrebbe ad un contrasto di giudicati, quanto meno sotto il profilo pratico della potenziale sovrapposizione tra gli effetti economici del divorzio, nella forma del diritto all’assegno, e quelli della nullità, derivanti dall’applicabilità della disciplina del matrimonio putativo: tale eventualità, che incontra peraltro un limite nella portata temporalmente circoscritta degli effetti previsti dall’art. 129 c.c., comma 1, rappresenta infatti un’inevitabile conseguenza dell’ammissione di una possibile coesistenza tra la pronuncia di cessazione degli effetti civili e quella di nullità del matrimonio, che non resta esclusa neppure nel caso in cui la delibazione della sentenza ecclesiastica abbia luogo successivamente al passaggio in giudicato della sentenza recante la determinazione dell’assegno divorzile.

Non merita poi consenso l’osservazione secondo cui riconoscere al giudicato di divorzio una portata preclusiva dell’efficacia della dichiarazione di nullità, a seguito dell’intervenuta delibazione della sentenza ecclesiastica, significherebbe far riemergere la tesi, già respinta da questa Corte, secondo cui la pronuncia di cessazione degli effetti civili comporta la formazione di un giudicato implicito in ordine alla validità del matrimonio: la preclusione in esame non impedisce infatti alla sentenza di nullità di spiegare i propri effetti ad altri fini, ad esempio ai fini della validità di un secondo matrimonio eventualmente contratto, in violazione dell’art. 86 c.c., anteriormente allo scioglimento del primo. La portata limitata di tali effetti non si pone neppure in contrasto con gl’impegni assunti dallo Stato italiano con l’Accordo del 18 febbraio 1984, i quali, come già chiarito da questa Corte, si sostanziano, ai sensi dell’art. 8, “nell’obbligo per lo Stato italiano – alle condizioni ivi indicate, così come precisate nel protocollo addizionale all’accordo medesimo – per un verso di riconoscere gli effetti civili “ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico”, per altro verso di dichiarare efficaci “le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo””, restando invece “rimessa alla competenza dello Stato italiano la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti civili dei matrimoni concordatari, come si evince dal disposto dell’art. 8, comma 1, che sostanzialmente rimanda in proposito alle disposizioni del codice civile, mentre ogni statuizione riguardo al venire meno di tali effetti, con riferimento alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni concordatari, è rimessa dall’art. 8, comma 2, ultima parte, esplicitamente alla giurisdizione e implicitamente alla normativa dello Stato italiano” (cfr. Cass., Sez. I, 23/03/2001, n. 4202).

1.4. In conclusione, la questione sollevata dalla Prima Sezione civile dev’essere risolta mediante l’enunciazione del seguente principio di diritto:

“In tema di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile”.

In applicazione di tale principio, deve escludersi, nella specie, che la produzione della sentenza, divenuta definitiva, con cui è stata dichiarata efficace nel nostro ordinamento la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio contratto dalle parti risulti idonea a precludere la prosecuzione del presente giudizio: considerato infatti che la sentenza di primo grado ha costituito oggetto d’impugnazione nella sola parte in cui ha riconosciuto il diritto della controricorrente alla corresponsione dell’assegno divorzile e ne ha determinato la misura, il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, verificatosi a seguito della proposizione dell’appello e quindi in data anteriore alla delibazione della sentenza ecclesiastica, consente di escludere l’operatività di quest’ultima, non solo ai fini dello scioglimento del vincolo coniugale, ma anche in ordine alla determinazione delle relative conseguenze economiche, imponendo pertanto di procedere all’esame delle censure proposte con il ricorso per cassazione.

2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 347 c.p.c., u.c., censurando la sentenza impugnata per aver trascurato elementi decisivi per il giudizio, desumibili dagli atti del giudizio di primo grado. Premesso che il relativo fascicolo d’ufficio non era mai pervenuto in Cancelleria, sostiene che ciò ha impedito alla Corte d’appello di valutare le dichiarazioni rese dalla [Omissis] dinanzi al Presidente del Tribunale e di confrontarle con quelle rese dinanzi al Tribunale ecclesiastico, da cui emergeva la breve durata della convivenza, nonché di rilevare la mancata contestazione della circostanza che il figlio aveva sempre convissuto con il padre.

2.1. Il motivo è inammissibile.

L’acquisizione del fascicolo d’ufficio relativo al giudizio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 c.p.c., non costituisce infatti una condizione essenziale per la validità del giudizio d’appello, trattandosi di un adempimento di natura discrezionale con funzione meramente sussidiaria, la cui omissione non comporta quindi la nullità del procedimento o della decisione di secondo grado, ma si traduce al più in un vizio di motivazione, la cui deduzione in sede di legittimità postula peraltro la specifica prospettazione da parte del ricorrente della possibilità di desumere dal predetto fascicolo elementi idonei ad orientare in senso diverso la decisione, non rilevabili aliunde e trascurati dal giudice d’appello (cfr. Cass., Sez. VI, 4/04/2019, n. 9498; 7/08/2018, n. 20631; Cass., Sez. III, 29/01/2016, n. 1678). Tale vizio nella specie non risulta neppure dedotto, essendosi il ricorrente limitato a far valere la violazione di legge, peraltro mediante il riferimento a circostanze di fatto in parte già prese in considerazione dalla sentenza impugnata, ed in parte non ritualmente introdotte nel giudizio: la breve durata della convivenza tra i coniugi ha costituito infatti oggetto di specifica valutazione da parte della Corte territoriale, ai fini della constatazione dell’intervenuto consolidamento di un comune tenore di vita dei coniugi, mentre in ordine alla convivenza dell’unico figlio nato dall’unione con il padre non è stato precisato in quale fase processuale ed in quale atto la circostanza sia stata allegata.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, comma 6 come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 10 e dell’art. 2697 c.c., osservando che la rilevanza attribuita dalla sentenza impugnata alla durata legale della convivenza si pone in contrasto con il diritto vivente, che, al fine di evitare la formazione di rendite parassitarie e di responsabilizzare il coniuge richiedente, impone di prendere in considerazione la durata effettiva del rapporto di coniugio. Premesso che la separazione di fatto costituisce il prodromo di quella legale, a sua volta preliminare al divorzio, afferma che una breve durata della convivenza non consente la maturazione di aspettative al mantenimento di un determinato tenore di vita, né la prestazione di un contributo alla realizzazione del progetto di vita matrimoniale ed alla formazione o all’incremento del patrimonio del coniuge. Aggiunge che nella specie erano stati acquisiti elementi sufficienti ad escludere l’effettiva costituzione di un sodalizio coniugale e di un regime di vita comune, e quindi la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello assegno, la cui misura può essere ridimensionata o addirittura azzerata quando la conservazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio si pone in contrasto con gli altri elementi indicati dalla legge. Sostiene che, in tale prospettiva, la Corte d’appello non avrebbe potuto tener conto, ai fini del riconoscimento dell’assegno, della laurea in medicina conseguita da esso ricorrente e del successivo sviluppo della sua attività professionale, trattandosi di eventi del tutto imprevedibili al momento della cessazione della convivenza, e quindi inidonei a giustificare l’aspettativa d’incrementi reddituali.

3.1. Il motivo è infondato.

In tema di divorzio, questa Corte ha infatti affermato che i criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ai fini dell’attribuzione e della quantificazione dell’assegno dovuto all’ex coniuge devono trovare applicazione in riferimento all’intera durata del vincolo matrimoniale, anziché a quella effettiva della convivenza, dovendosi in particolare comprendere, nella nozione di contributo fornito da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi, non solo quello offerto nel periodo della convivenza, ma anche quello prestato in regime di separazione, soprattutto per quanto riguarda il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (cfr. Cass., Sez. I, 7/11/1981, n. 5874; 29/05/1978, n. 2684). Tale principio, espressamente enunciato da alcune risalenti pronunce ed applicato pacificamente anche in seguito, ha recentemente assunto particolare rilievo, per effetto della vicenda giurisprudenziale (successiva alla pronuncia della sentenza impugnata) che ha interessato l’interpretazione della norma citata, la quale ha condotto ad una rimedita-zione del rapporto tra i criteri individuati dal legislatore, con il passaggio dalla posizione di primazia assegnata a quello fondato sulla comparazione tra le situazioni economiche e reddituali dei coniugi ad un regime di equiordinazione, nell’ambito del quale ciascuno dei predetti criteri concorre sia all’accertamento della spettanza del contributo che alla liquidazione del relativo importo. La già citata pronuncia delle Sezioni Unite, componendo un contrasto di giurisprudenza, ha infatti affermato che i criteri di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, costituiscono nel loro complesso il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur, precisando che l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto: tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà, alla luce del quale deve ritenersi assegnata al contributo in questione la finalità di assicurare non già l’autosufficienza economica del richiedente sulla base di un parametro astratto, bensì un livello reddituale adeguato al contributo da lui fornito nella vita familiare in concreto, tenendo conto in particolare delle aspettative professionali sacrificate (cfr. Cass., Sez. Un., 11/07/2018, n. 18287; Cass., Sez. I, 28/02/2020, n. 5603; 9/08/2019, n. 21234). In tale contesto, la durata del vincolo coniugale non assume più rilievo esclusivamente ai fini della quantificazione dell’assegno, come ritenuto in precedenza, ma viene in considerazione, unitamente agli altri criteri, anche ai fini dell’accertamento del relativo diritto, e può quindi giustificarne l’esclusione, ove, per la sua brevità, non abbia consentito la prestazione di un significativo contributo o il sacrificio di apprezzabili aspettative professionali da parte del richiedente: anche in passato, d’altronde, la precoce interruzione della convivenza veniva ritenuta idonea a giustificare l’azzeramento dell’importo dell’assegno, nei casi eccezionali in cui avesse impedito l’instaurazione di una comunione materiale e spirituale tra i coniugi, e quindi il consolidamento di un comune tenore di vita (cfr. Cass., Sez. VI, 26/03/2015, n. 6164; 22/03/2013, n. 7295; Cass., Sez. I, 16/06/2000, n. 8233).

Tale elemento, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non è stato affatto trascurato dalla sentenza impugnata, la quale, pur escludendo l’utilizzabilità degli elementi emersi dal processo canonico, ha compiuto una specifica indagine in ordine alla durata del matrimonio, distinguendo, nello ambito della stessa, il periodo della convivenza da quello della separazione, e tenendone conto ai fini della determinazione delle conseguenze economiche del divorzio. É pur vero che, nel riconoscere alla controricorrente il diritto all’assegno, la Corte territoriale si è conformata all’orientamento giurisprudenziale all’epoca corrente, ed oggi abbandonato, secondo cui l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del coniuge richiedente doveva essere valutata mediante un raffronto tra la sua attuale situazione economico-patrimoniale ed un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e che sarebbe stato presumibilmente conservato in caso di continuazione dello stesso, o che avrebbe potuto legittimamente e ragionevolmente prevedersi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, quale poteva desumersi dalle potenzialità economiche dei coniugi, ovverosia dallo ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali (cfr. Cass., Sez. I, 15/05/2013, n. 11686; 4/10/2010, n. 20582; 28/02/ 2007, n. 4764). Nell’ambito di tale valutazione, la sentenza impugnata non ha tuttavia trascurato nessuno dei profili che assumono rilievo sulla base del nuovo orientamento giurisprudenziale, avendo tenuto conto, oltre che della durata del rapporto coniugale, anche della situazione occupazionale e reddituale di ciascuno dei coniugi, correttamente messa a confronto con quella attuale, ed avendo posto in risalto, al riguardo, anche il considerevole miglioramento della posizione lavorativa del ricorrente, nel quale ha peraltro ravvisato un naturale sviluppo delle potenzialità collegate agli studi da quest’ultimo all’epoca compiuti, concludendo pertanto per la valutabilità dello stesso ai fini del riconoscimento dell’assegno.

Nel censurare il predetto apprezzamento, il ricorrente non è d’altronde in grado d’individuare aspetti contrastanti con i principi enunciati, ma si limita ad insistere sulla breve durata della convivenza e sull’assenza di qualsiasi collegamento tra le aspettative economiche maturate nel corso della stessa e i successivi sviluppi della sua vita professionale, in tal modo sollecitando una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonché la coerenza logico-giuridica della stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. VI, 8/10/2014, n. 21257). Nel contestare l’apporto fornito dalla contro-ricorrente alla conduzione della vita familiare, il ricorrente omette poi di rilevare che la sentenza impugnata ha conferito rilievo, tra l’altro, al contributo economico posto a carico della stessa, con la sentenza di separazione, ai fini del mantenimento del figlio, la cui convivenza con il padre, come si è detto, non può essere presa in considerazione in questa sede, in quanto non ritualmente dedotta.

4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2730 e 2735 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, pur avendo negato valenza confessoria alle dichiarazioni rese dalla [Omissis] dinanzi al Tribunale ecclesiastico relativamente alla durata del matrimonio, ha ritenuto incontestate le circostanze riferite dalla donna, ai fini del rigetto delle istanze istruttorie formulate da esso ricorrente. Premesso che, in contrasto con il predetto assunto, la breve durata della convivenza è stata presa in considerazione ai fini della liquidazione dell’assegno, sostiene che, in quanto non attinenti a diritti indisponibili, le predette dichiarazioni ben potevano rivestire portata confessoria, non ostandovi l’assenza di garanzie processuali nel processo canonico, dal momento che la garanzia di certi mezzi di prova non rientra tra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato.

4.1. Il motivo è inammissibile, per difetto d’interesse.

Come riconosce la stessa difesa del ricorrente, nonostante il rigetto delle istanze istruttorie da essa formulate, le circostanze dedotte ai fini della dimostrazione della durata della convivenza sono state ugualmente prese in considerazione dalla sentenza impugnata, la quale ha ritenuto superfluo il relativo accertamento, dal momento che la mancata contestazione delle stesse ad opera della controparte consentiva di porle a fondamento della decisione senza bisogno di prova, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 1, con la conseguente irrilevanza anche delle dichiarazioni rese dalla controricorrente nel procedimento dinanzi al Tribunale ecclesiastico.

5. Il ricorso va pertanto rigettato.

L’oggettiva complessità della questione trattata, dipendente da un evento sopravvenuto nel corso del giudizio, giustifica peraltro l’integrale compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

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Scarica Cass. Civ., SS.UU., 31/03/2021, n. 9004

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