La Suprema Corte, con una recente sentenza della terza sezione penale (Cass. Pen., Sez. III, 07/05/2019, n. 19213), torna sulla vexata quaestio dell’amministratore “testa di legno”, ribadendo, sia pure con un pronunciamento specificatamente relativo alla materia tributaria, ma espressione di un principio generale dotato di notevole forza espansiva, che l’accettazione della carica in questione implica di per se stessa l’assunzione di specifici doveri di vigilanza e controllo e le relative responsabilità, alle quali il soggetto interessato non può sottrarsi adducendo la propria qualifica di semplice intermediario altrui.
La massima, peraltro conforme all’attuale dizione dell’art. 2392 c.c. (che ricollega l’onere di diligenza degli amministratori, oltre che alle particolari competenze di costoro, anche alla «natura dell’incarico» da essi accettato) è fondamentalmente tralaticia e può essere estrapolata dal testo della sentenza in commento come segue:
«In tema di reati tributari, l’amministratore di una società risponde del reato omissivo contestatogli quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se egli sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito come amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino».