La riconciliazione tra i coniugi ripristina la comunione legale https://www.jusdicere.it/Ragionando/wp-content/uploads/2021/05/Cass-Civ-Sez-VI-11-03-2021-n-6820.pdf

By | 04/05/2021

CASS. CIV., SEZ. VI, 11/03/2021, N. 6820

«Una volta intervenuta la riconciliazione tra i coniugi, viene automaticamente ripristinato il regime patrimoniale in essere tra le parti in epoca anteriore alla separazione» (Massima non ufficiale)

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

[Omissis] conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di [Omissis] [Omissis] deducendo che con sentenza n. 4901 del 20 ottobre 2003, passata in giudicato, era stata pronunciata la separazione legale.

Aggiungeva che durante il matrimonio, ed in regime di comunione legale, era stato acquistato un bene immobile sito in [Omissis] alla via [Omissis], del quale chiedeva sciogliersi la comunione, evidenziando che lo stesso bene era goduto in esclusiva dalla convenuta.

Si costituiva l'[Omissis] la quale deduceva che l’immobile era stato acquistato allorquando era già stata pronunciata una prima separazione tra le parti, con sentenza del 1990 del Tribunale di [Omissis], con la conseguenza che poiché il bene era in comunione ordinaria, alla stessa competeva la quota corrispondente alla parte di prezzo pagata, pari a 9/10.

In via riconvenzionale deduceva che l’attore aveva acquistato con denaro comune due veicoli, e che quindi aveva diritto al rimborso della metà del prezzo pagato.

Il Tribunale, con la sentenza n. [Omissis] del [Omissis], scioglieva la comunione, attribuendo all’ [Omissis] la piena proprietà del bene, con la condanna al pagamento dell’eccedenza in favore dell’attore, nonché al pagamento dell’equivalente monetario dei frutti derivanti dal godimento esclusivo del bene.

Il Tribunale reputava, infatti, che fosse stata offerta la prova della successiva riconciliazione tra i coniugi, e che quindi anche il bene oggetto di causa fosse stato acquistato in regime di comunione legale.

La Corte d’Appello di [Omissis], con la sentenza n. [Omissis] del [Omissis], ha accolto l’appello dell’ [Omissis] limitatamente al rimborso in favore della convenuta della quota parte delle rate di mutuo versate dopo l’ulteriore separazione giudiziale intervenuta fra le parti ed alla condanna alla restituzione dei frutti, confermando l’attribuzione del bene in favore della [Omissis]

Dopo avere evidenziato che non poteva condizionarsi l’attribuzione del bene all’avvenuto pagamento dell’eccedenza, posto che tale obbligazione poteva essere oggetto di esecuzione forzata, disattendeva le critiche dell’appellante quanto all’affermazione del Tribunale secondo cui tra le parti era intervenuta una riconciliazione nel 1993.

Ed, infatti, se è pur vero che a tal fine non è sufficiente il mero ripristino della coabitazione, tuttavia nella fattispecie numerosi elementi corroboravano il convincimento che vi fosse stata la ricostituzione della comunione di vita familiare.

In tal senso deponevano non solo le vicende che avevano portato all’acquisto del bene oggetto di causa, avendo le stesse parti dichiarato l’esistenza del regime della comunione legale all’atto del rogito, ma anche le deposizioni rese dalle figlie dei coniugi, che avevano riferito di un’abituale convivenza, non interrotta o intaccata da eventi idonei a distogliere il [Omissis] dalla vita familiare.

Non poteva invece essere accolta la tesi secondo cui l’acquisto del bene fosse avvenuto in regime di separazione dei beni, in quanto la Corte d’Appello riteneva di dare seguito alla tesi sostenuta dai giudici di legittimità secondo cui per effetto della riconciliazione tra i coniugi separati, si ripristina il regime patrimoniale in precedenza adottato, che nel caso di specie era quello della comunione legale.

Mancando la prova che la convenuta avesse impiegato per l’acquisto beni personali ai sensi dell’art. 179 c.c., il bene, ancorché pagato in parte con somme fornite dall’ [Omissis], rientrava in comunione legale, dovendo però reputarsi bene personale la cucina presente nell’appartamento, in quanto acquistata con denaro esclusivo della [Omissis] nel 1991, prima della riconciliazione.

Disatteso il motivo di appello che investiva il preteso deprezzamento del valore del bene, la Corte accoglieva il motivo di gravame che invece investiva la condanna dell’attore alla restituzione delle somme versate per il pagamento del prezzo dalla [Omissis] in epoca successiva all’ulteriore separazione avvenuta tra i coniugi, sicché l’appellante aveva diritto al rimborso delle somme versate a far data dal passaggio in giudicato di tale sentenza di separazione ([Omissis]).

Infine, era parimenti accolto il motivo di appello concernente il capo della sentenza contenente la condanna della convenuta al rimborso dei frutti dovuti all’attore per effetto del godimento esclusivo del bene, posto che la relativa domanda era rimasta del tutto priva di prova.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso [Omissis] sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie.

[Omissis] non ha svolto difese in questa fase.

Con il primo motivo si denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, quanto alla decisione di procedere alla riconciliazione tra le parti.

Si deduce che, a seguito della seconda separazione intervenuta tra i coniugi con sentenza del 1990, in realtà il [Omissis] era rientrato in famiglia nel 1994 non già allo scopo di riconciliarsi con la moglie, ma per far fronte ai problemi di una delle figlie che aveva iniziato una relazione sentimentale con un ragazzo tossicodipendente.

I giudici di appello hanno omesso di valutare tale circostanza che depone in maniera inequivoca per l’assenza di un’effettiva riconciliazione tra i coniugi, il che impedirebbe anche di far rientrare l’acquisto del bene immobile nel regime della comunione legale.

Il motivo è inammissibile ex art. 348 ter c.p.c, u.c.

Infatti, poiché l’appello è stato notificato in data 6/12/2012 (cfr. pag. 14 del ricorso), risulta applicabile la norma ora citata che, per il caso in cui la sentenza d’appello confermi quella di primo grado sulla base delle medesime ragioni, inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione di primo grado, è preclusa la ricorribilità per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Nella fattispecie, quanto alla ricorrenza di un’ipotesi di riconciliazione, la sentenza d’appello ha condiviso appieno la ricostruzione in fatto operata dal Tribunale, il che quindi preclude la deducibilità del motivo in esame.

Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 706 e ss. c.p.c., degli artt. 150,151,154,155,156,157,158,159 e 191 c.c., nonché della L. n. 898 del 1970, art. 3, e degli artt. 177 e ss. e 1100 e ss. c.c.

La critica investe l’affermazione dei giudici di appello secondo cui, una volta intervenuta la riconciliazione tra i coniugi, viene automaticamente ripristinato il regime patrimoniale in essere tra le parti in epoca anteriore alla separazione.

Si sostiene che tale affermazione risulta in contrasto con le norme riportate nella rubrica del motivo e con la prevalente opinione della dottrina, che invece reputa necessaria la conclusione di apposita convenzione matrimoniale al fine di ripristinare tra le parti il regime della comunione legale, ormai venuto meno per effetto della separazione.

Anche tale motivo deve essere dichiarato inammissibile, ma ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, avendo la Corte di merito deciso la controversia in conformità della giurisprudenza di questa Corte. Risultano correttamente richiamati dalla sentenza gravata i precedenti di legittimità (Cass. n. 11418/1998; Cass. n. 18619/2003), che hanno appunto affermato che, una volta rimossa la separazione con la riconciliazione, si ripristina automaticamente tra le parti il regime di comunione originariamente adottato, con la sola esclusione degli acquisti effettuati durante il periodo della separazione.

In particolare, nel precedente del 1998, la Corte ha avuto modo di esaminare i vari argomenti che la dottrina aveva opposto alla soluzione della ricostituzione automatica della comunione, ritenendoli inconferenti ai fini della soluzione prescelta, e comunque già ha operato un primo temperamento rispetto alla tesi più rigorosa del ripristino integrale della comunione legale, tenendo fuori dal relativo regime quegli acquisti intervenuti tra la separazione e la data della riconciliazione.

É poi ascrivibile al precedente del 2003 l’ulteriore precisazione secondo cui il meccanismo del ripristino opera in maniera automatica ed è pienamente opponibile nei rapporti tra i coniugi (come appunto nella fattispecie in esame, in cui si dibatte della divisione del bene esclusivamente tra i coniugi), occorrendo salvaguardare i terzi di buona fede che abbiano acquistato diritti da uno dei coniugi, confidando sull’apparenza del permanere della separazione, in assenza di adeguata pubblicità (facendo salva per il futuro l’invocabilità dell’effetto pubblicitario derivante dalla novella di cui al D.P.R. n. 396 del 2000, art. 69, che ha previsto l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio delle dichiarazioni rivelatrici della volontà riconciliativi).

Reputa il Collegio che l’autorevolezza dei menzionati precedenti, che hanno appunto adeguatamente ponderato le obiezioni sviluppate dalla dottrina, imponga di dover assicurare continuità ai principi ivi affermati, non sussistendo seri elementi per pervenire ad un mutamento di giurisprudenza, a fronte del richiamo in ricorso ad argomenti già oggetto di valutazione (in tal senso rileva come la maggior parte dei contributi dottrinali e dei precedenti di merito riportati in ricorso risalgano ad epoca anteriore alle pronunce di questa Corte, e che anche i contributi di data successiva non offrano sul piano argomentativo elementi di novità rispetto alle tesi sostenute in passato).

Il motivo deve quindi essere dichiarato inammissibile.

Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 191 c.c., della L. n. 55 del 2015, artt. 2 e 3.

Si deduce che la ricorrente aveva chiesto di detrarre dalla somma attribuita al [Omissis] a titolo di eccedenza una somma corrispondente al 50% delle rate di mutuo versate in maniera esclusiva in epoca successiva alla separazione conseguente alla riconciliazione del 1993-94.

La Corte ha accolto tale richiesta, ma ha ritenuto che gli effetti di tale ultima separazione dovessero decorrere a far data al passaggio in giudicato della sentenza di separazione, in applicazione del dettato dell’art. 191 c.c., nella formulazione anteriore alla novella di cui alla L. n. 55 del 2015, che, invece, prevede che la comunione si sciolga nel momento in cui il Presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separatamente ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei coniugi, purché omologato.

Si assume quindi che la novella de qua sarebbe applicabile anche alla vicenda in esame.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento, posto che la L. n. 55 del 2015, art. 3, prevede, con una previsione di diritto intertemporale, che le sue disposizioni si applichino anche a procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della stessa legge, anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data.

Nella fattispecie, atteso che il procedimento di separazione, in relazione al quale si vogliano precisare gli effetti sulla cessazione del regime della comunione legale, era stato abbondantemente definito già in epoca anteriore all’entrata in vigore della novella (la sentenza di separazione è del 2003), non è possibile invocare la disciplina de qua, dovendosi quindi correttamente farsi risalire gli effetti della cessazione della comunione legale al passaggio in giudicato della sentenza di separazione (cfr. ex multis Cass. n. 3808/2014).

Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 323,324,325,326 e 327 c.p.c., quanto all’individuazione della data di passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale di [Omissis] n. 4901/2003, con la quale è stata pronunciata la separazione tra i coniugi.

La questione, che rileva sempre ai fini della decorrenza della data a partire dalla quale scatta l’obbligo di rimborso in capo al [Omissis] della metà delle rate di mutuo pagate in esclusiva dalla [Omissis], investe l’affermazione dei giudici di appello che hanno stabilito che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione fosse avvenuto in data [Omissis], facendo evidentemente applicazione del cd. termine lungo.

La deduzione di parte ricorrente è fondata, posto che, come si ricava dalla stessa documentazione prodotta dalla controparte, e riportata anche in ricorso, la sentenza de qua era stata notificata in data 19/11/2003, avendo la stessa Cancelleria attestato in calce alla copia della sentenza prodotta sempre dalla difesa del [Omissis], che alla data del 27/1/2004 non risultava proposta impugnazione.

Attesa l’applicabilità dell’art. 325 c.p.c., la data del passaggio in giudicato della sentenza di separazione deve essere individuata in quella del 19/12/2003.

Il motivo deve quindi essere accolto con la conseguente cassazione della sentenza in parte qua.

Il giudice del rinvio, che si designa in una diversa sezione della Corte d’Appello di [Omissis], provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo di ricorso, dichiara inammissibile i primi due e rigetta il terzo, e cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di [Omissis] in diversa composizione.

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