Delibazione della sentenza ecclesiastica di annullamento del matrimonio: irrilevante il tipo di convivenza Cass. Civ., Sez. VI, 26/11/2019, n. 30900


La sentenza di annullamento, o meglio di dichiarazione di nullità del matrimonio, per acquistare efficacia giuridica all’interno del nostro ordinamento deve essere, su istanza della parte interessata, delibata dal giudice italiano. Il giudice competente a farlo è la Corte d’appello del distretto nell’ambito del quale si trova il Comune ove è stato celebrato e di seguito trascritto il relativo matrimonio.

Ora, per diversi anni, il procedimento di delibazione si è interpretato e svolto, di fatto, come un giudizio prevalentemente di natura ‘formale’ , finalizzato a verificare il rispetto dei principi cardine del nostro sistema tra cui il principio del rispetto del contraddittorio,  e del diritto di difesa.

Ciò fino a che nel 2014, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la decisione n. 16379/2014 non hanno chiarito ed in via interpretativa introdotto il principio della pregressa convivenza almeno triennale dei coniugi, tra i principi fondamentali di ordine pubblico che ostano alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.

In particolare, le SS. UU. 16379/2014 hanno stabilito che:

«la convivenza “come coniugi” deve intendersi – secondo la Costituzione (art. 2, 3, 29, 30, 31) le Carte Europee dei Diritti (art. 8, par. 1, della convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, ed il Codice civile […], protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di’ ordine pubblico italiano’ e, pertanto, anche in applicazione dell’art. 7, comma 1, cost. e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa – ai sensi dell’Accordo, con Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 19129, tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, reso esecutivo dalla l. 25 marzo 1985 n. 121 (particolare dell’art. 8, numero 2, lettera c, dell’Accordo e del punto 4, lettera b, del Protocollo addizionale), e dell’art. 797, comma 1 n. 7, c.p.c. – alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell”ordine canonico’ nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale» (Cass. Civ., SS.UU. 16379/2014 cit).

Oltre al suddetto importante principio, la suddetta cit. sentenza SS.UU. 16379/2014, da un punto di vista strettamente processuale, ha precisato che la circostanza della ‘convivenza come coniugi’ deve essere eccepita dalla parte interessata e che detta eccezione deve essere considerata una eccezione in senso stretto con la conseguenza che non può essere rilevata d’ufficio. Precisamente viene chiarito che:

«la convivenza “come coniugi” intesa come situazione giuridica d’ordine pubblico ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, […] deve qualificarsi eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge e, pertanto, non può essere eccepita dal p.m. interveniente nel giudizio di delibazione né rilevata d’ufficio dal giudice della delibazione o dal giudice di legittimità» (Cass. Civ., SS.UU. 17/07/2014, n. 16379)

Quella stessa sentenza SS.UU. 16379/2014 chiarisce anche il concetto di convivenza ‘utile’ ai fini della mancata delibazione, e quindi ostativa della stessa, che infatti deve intendersi

«consuetudine di vita coniugale comune, stabile, e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari».|

Ora – e veniamo ai giorni nostri – la notizia è che con la sentenza 26/11/2019, n. 30900 che qui si segnala, la Suprema Corte (Sezione VI) torna a pronunciarsi su questo delicato tema, ed in particolare sul concetto di convivenza, per affermare che:
«appare irrilevante accertare se l’unione fra i coniugi nel periodo di convivenza ultratriennale sia stata più o meno felice ovvero se vi sia stata una parziale o integrale non adesione affettiva da parte dei coniugi al dato fattuale della convivenza. Tale mancanza di adesione affettiva può acquistare rilevanza giuridica solo se viene concordemente riconosciuta e manifestata all’esterno in modo da privare alla convivenza ogni valenza riconducibile all’estrinsecazione del rapporto coniugale».
In altri termini, in un caso in cui si era contestata l’effettività della convivenza deducendo che essa fosse stata solo formale, alla stregua di una mera coabitazione, e che comunque fosse mancato l’affectio coniugalis, la Corte ha chiarito che,  per assumere il valore ostativo alla delibazione, tale circostanza deve essere espressamente e consapevolmente riconosciuta da entrambi i coniugi. Testualmente:

«il dato incontroverso (come nel caso in esame) della convivenza continuativa ultratriennale non può essere messo in discussione, al fine di escludere la condizione ostativa al riconoscimento in Italia della sentenza di annullamento ecclesiastico del matrimonio, deducendo una non adesione affettiva al rapporto di convivenza da parte di uno o di entrambi i coniugi. Occorre perché tale dedotta mancanza di affectio coniugalis sia rilevante che entrambi i coniugi la riconoscano, al momento della proposizione della domanda di delibazione, ovvero che gli stessi abbiano manifestato inequivocamente all’esterno la piena volontà di non considerare la convivenza come un elemento fondamentale integrativo della relazione coniugale ma come una semplice coabitazione. Occorre altresì che sia manifesta la consapevolezza delle conseguenze giuridiche di tale esteriorizzazione e cioè l’affermazione comune dell’esclusione degli effetti giuridici propri del matrimonio per effetto della semplice coabitazione. In altri termini è necessaria una ricognizione comune ed esteriorizzata della esclusione del carattere coniugale della convivenza. In questa prospettiva  (Cass. Civ., Sez.VI, 26/11/2019)

Documenti & materiali

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Scarica la sentenza Cass. Civ., SS.UU. 17/07/2014, n. 16379

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Author: Avv. Daniela Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 20 agosto 1963. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 1992. Abilitata al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori dal 2004. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione famiglia di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833.

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