Codice procedura penale: art. 516, dichiarata nuova illegittimità costituzionale in nota a sentenza Corte Costituzionale 17/07/2017, n. 206

By | 26/07/2017

La Corte Costituzionale torna ad occuparsi dell’art. 516 cpp (modifica dell’imputazione) e con la sentenza 17/07/2017, n. 206 ha dichiarato:

«l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione».

Come noto il primo comma dell’art. 516 cpp recita:

«se nel corso dell’istruzione dibattimentale il fatto risulta diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio e non appartiene alla competenza di un giudice superiore, il pubblico ministero modifica l’imputazione e procede alla relativa contestazione».

Si tratta, dunque, della modifica dell’imputazione che il Pubblico Ministero può fare – diciamo – in corsa, allorchè il fatto emerga diverso rispetto a quello descritto nel capo di imputazione cui si riferisce il decreto che dispone il giudizio.

L’articolo è stato oggetto di intervento della Corte Costituzionale già numerose volte, ed ora, lo è di nuovo in relazione alla possibilità, facoltà, che deve essere riconosciuta all’indagato, di proporre il patteggiamento dopo la modifica dell’imputazione, facoltà preclusa prima di questa pronuncia.

Questa decisione, quindi, è destinata a sommarsi alle altre numerose pronunce già intervenute con cui, di volta, in volta, la Consulta ha ‘aperto’ consentendo all’indagato/imputato l’esercizio di facoltà prima precluse.

La sentenza 206/2017 qui in commento, si segnala anche per il prezioso excursus giurisprudenziale. In essa, infatti, si ricorda che la stessa Corte è inizialmente intervenuta per salvaguardare il diritto dell’imputato alla prova, in caso di nuova contestazione dibattimentale, escludendo che esso potesse incontrare «limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i “nova”» (sentenza n. 241 del 1992).

Nella prospettiva del codice di procedura penale «rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale (giudizio abbreviato e patteggiamento), riti che, per consolidata giurisprudenza della Corte, costituiscono anch’essi «“modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)” (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta» (sentenza n. 184 del 2014).

Perciò, in seguito alle nuove contestazioni effettuate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, l’imputato poteva trovarsi a fronteggiare un’accusa rispetto alla quale sarebbe stato suo interesse chiedere i riti alternativi ma tale facoltà gli era preclusa, perché erano ormai decorsi i termini per le relative richieste.

Rispetto alle nuove contestazioni “fisiologiche”, a quelle cioè effettivamente determinate dalle acquisizioni dibattimentali, la Corte, con una serie di pronunce emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice, aveva escluso che la preclusione dei riti speciali violasse gli artt. 3 e 24 Cost, richiamando il principio di indissolubilità del binomio premialità-deflazione. In particolare, per quanto concerne il patteggiamento, aveva ritenuto che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei relativi vantaggi in tanto poteva rilevare, in quanto egli avesse rinunciato al dibattimento.

La Corte aveva osservato che «la preclusione all’ammissione di tali giudizi in caso di contestazione dibattimentale suppletiva non è affatto irragionevole. Si tratta, infatti, di un’evenienza che non è infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento ed è – soprattutto – ben prevedibile». Di conseguenza «il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiederli o meno, onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta (cfr., tra le tante, le sentenze nn. 277 e 593 del 1990 e 316 del 1992, nonché l’ordinanza n. 213 del 1992(sentenza n. 129 del 1993).

Analoghe considerazioni erano state svolte rispetto alla preclusione relativa al giudizio abbreviato (sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanza n. 107 del 1993).

Con la successiva sentenza n. 265 del 1994, la Corte, però, nel caso di contestazioni dibattimentali “tardive”, è pervenuta, proprio rispetto al patteggiamento, a una diversa conclusione, perché ha ritenuto che in questa ipotesi non potesse parlarsi di una libera assunzione da parte dell’imputato del rischio di una nuova contestazione nel dibattimento, dato che le sue determinazioni in ordine ai riti speciali erano state sviate da una condotta processuale anomala del pubblico ministero.

Come è stato osservato, le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo dipendono, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero, cosicché, «quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo di reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali» (sentenze n. 265 del 1994 e n. 184 del 2014).

Si è aggiunto che anche il principio di eguaglianza risulta violato perché l’imputato è irragionevolmente discriminato rispetto alla possibilità di accesso ai riti alternativi, «in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero e delle correlative contestazioni» (sentenza n. 184 del 2014).

Sulla base di tali considerazioni, la Corte, con la sentenza n. 265 del 1994, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentivano all’imputato di richiedere il patteggiamento, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerneva un fatto che già risultava dagli atti di indagine, al momento dell’esercizio dell’azione penale.

La sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato invece inammissibile l’analoga questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale, pure riscontrabile, spettasse in via esclusiva al legislatore. Tuttavia, il successivo radicale cambiamento della struttura del giudizio abbreviato, per effetto della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), ha indotto la Corte, con la sentenza n. 333 del 2009, a ritenere superati i precedenti ostacoli e a dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. anche nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso o per il reato concorrente contestato nel dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

Successivamente la Corte è ulteriormente intervenuta dichiarando l’illegittimità dell’art. 517 cpp, prima, nella parte in cui non consentiva il patteggiamento (sentenza n. 184 del 2014) e, poi, nella parte in cui non consentiva il giudizio abbreviato (sentenza n. 139 del 2015), nel caso in cui il pubblico ministero aveva proceduto alla contestazione suppletiva “patologica” di una circostanza aggravante.

Come si è visto, con le decisioni ricordate, che si sono succedute in un arco temporale abbastanza ampio, la Corte ha accomunato le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. in «analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche”, relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale» (sentenza n. 273 del 2014).

Con riferimento specifico alle ipotesi, come quella in esame, di nuove contestazioni “fisiologiche”, volte, cioè, ad adeguare l’imputazione alle risultanze dell’istruzione dibattimentale, la Corte è intervenuta con due recenti sentenze.

Con la prima (sentenza n. 237 del 2012) – superando il diverso indirizzo espresso in precedenti pronunce, già ricordate, risalenti agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito – ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione.

Con la seconda (sentenza n. 273 del 2014), sulla base di argomenti analoghi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cpp, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione.

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