Nullità del contratto di somministrazione di lavoro e principio di non contestazione


Con la pronuncia in esame (Cass., Sez. Lavoro, 20/08/2014, n. 18046) con cui viene dichiarata la nullità di un contratto di somministrazione di lavoro a termine tra lavoratore e società utilizzatrice della prestazione, la Corte di Cassazione affronta il tormentato tema inerente il principio di non contestazione, già conosciuto dal rito speciale del lavoro e ora, da qualche anno a seguito della riforma ex L. 69/2009, conosciuto anche dal rito ordinario.

La pronuncia in commento

Nei precedenti gradi di giudizio, veniva accertata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra la lavoratrice e la società utilizzatrice, in luogo del rapporto di somministrazione di lavoro a termine offerto dalla società fornitrice di somministrazione lavoro.

Con ricorso ritualmente promosso, la società utilizzatrice di lavoro impugnava la sentenza della Corte di Appello di Napoli per tre motivi di diritto, mentre la lavoratrice e la società fornitrice di lavoro resistevano ciascuno con controricorso, con cui rispettivamente chiedevano il rigetto e l’accoglimento del ricorso principale.

La trasformazione del rapporto in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e l’applicabilità della indennità ex L. 183/2010

Prima di esaminare i profili processuali che offrono interessanti spunti di riflessione sull’argomento relativo al principio di non contestazione (nella specie, come si vedrà, si trattava di omessa contestazione di risultanze documentali relative alle mansioni della lavoratrice), esaminiamo la motivazione della sentenza nella parte in cui accoglie il terzo motivo di doglianza, ovverosia quello relativo all’applicabilità o meno della indennità prevista dall’art. 32 L. 183/2010 a seguito della conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Si tratta della condanna del datore di lavoro nei confronti del lavoratore “trasformato” , ai sensi dell’art. 27, D.LGS. 276/2003,  di una indennità la cui misura è compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La Corte, infatti, pur confermando per il resto la pronuncia impugnata dal ricorrente, ha accolto il terzo motivo di ricorso proposto dal ricorrente – proseguendo un indirizzo costante della giurisprudenza di legittimità sul tema – così ritenendo applicabile detta indennità anche quando trattasi di contratto di somministrazione lavoro.

Dunque, anche in ipotesi di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno del lavoratore da quest’ultimo patito in ragione della dichiarata nullità del contratto di lavoro temporaneo a tempo determinato, come avvenuto nel caso che occupa, deve ritenersi applicabile per “analogia” la disciplina prevista dall’art. 32, comma 5, L. 183/2010, e ciò in considerazione del fatto che il contratto di lavoro temporaneo e quello di somministrazione lavoro sono negozi “collegati”, con la conseguenza che le sorti dell’uno (nullità del lavoro temporaneo) travolgono inevitabilmente quelle dell’altro (nullità della somministrazione).

Inoltre, non va trascurato che la sanzione indennitaria trova la sua  ragion d’essere nella intrinseca natura risarcitoria del mancato guadagno sofferto dal lavoratore nell’arco di tempo che necessariamente intercorre tra l’illegittima rottura del rapporto di lavoro ed il suo ripristino in esito alla pronuncia giudiziale.

Il principio di non contestazione e la sua interpretazione giurisprudenziale

La prima parte della sentenza sviluppa, invece, l’annosa questione relativa all’onere di contestazione processuale imposto alle parti in causa, ritenendo infondati i motivi di censura lamentati dal ricorrente.

Nella specie, il ricorrente tentava la dimostrazione della legittimità della causale richiesta per l’apposizione del termine al rapporto, nonché della rispondenza della causale come enunciata in contratto alla concreta assegnazione del lavoratore a mansioni ad essa confacenti, affermando che controparte (lavoratrice) non aveva contestato le risultanze documentali dalle quali appunto sarebbe emersa, sempre a dire del ricorrente, la prova di quanto sopra.

Senonché la Corte ha ritenuto l’infondatezza di tali motivi sul presupposto che tali doglianze muovono da una errata ricostruzione del cd. principio di non contestazione.

In particolare, si legge in sentenza, la ricorrente in primo grado (lavoratrice) aveva già negato nell’atto introduttivo l’esistenza di ragioni che avrebbero giustificato il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, con la conseguenza che non era suo onere contestare nuovamente le allegazioni contrarie del convenuto essendosi già espressa sul punto.

Diversamente opinando, si rischierebbe di trasformare il giudizio in un

«gioco di specchi contrapposti che rinviano all’infinito le immagini riflesse, per cui ogni parte avrebbe sempre l’onere di contestare la contestazione della contestazione e così all’infinito, in una sorta di agone dialettico in cui prevale l’ultimo che contesti (magari con mera formula di stile l’avverso dedotto»

A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, peraltro il motivo di doglianza riguarda l’onere di contestazione delle allegazioni documentali avversarie, che è cosa ben diversa dalle contestazioni in punto di fatto, rispetto alle quali unicamente sussiste l’onere di contestazione in discorso.

Infatti, rispetto alle produzioni documentali, gli unici rimedi esperibili per contrastarne la veridicità sono quelli offerti dall’art. 214 c.p.c. (disconoscimento) e dall’art. 221 c.p.c. (querela di falso), mentre la valenza probatoria dei medesimi può essere oggetto di discussione tra le parti ed è comunque autonomamente valutata dal Giudice.

Peraltro – conclude la Corte – una tale doglianza non risulta neppure valevole ad integrare quelle consentite ex art. 360 c.p.c. nella nuova formulazione; per dirla secondo le parole della Corte, infatti

oggi la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (applicabile anche al caso in esame) rende denunciabile per cassazione il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetti di discussione tra le parti”.

La Corte prosegue precisando che l’omesso esame deve comunque avere ad oggetto un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, e con ciò intendendosi sia un fatto principale o primario (costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto) sia un fatto secondario (ovverosia dedotto in funzione della prova).

Tuttavia, in tale secondo caso devesi considerare inammissibile una doglianza che abbia ad oggetto l’omessa o carente valutazione di determinati elementi probatori, potendo così ritenere bastevole che il fatto sia stato esaminato dal giudicante, senza che quest’ultimo debba dar conto di tutte le risultanze probatorie emerse dall’istruttoria come astrattamente rilevanti.

Documenti & materiali

Scarica il testo della sentenza Cass., Sez. Lavoro, 20/08/2014, n. 18046

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Author: Avv. Francesca Serretti Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 24 febbraio 1982. Iscritta all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 2010. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione lavoro di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

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