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CASS. CIV., SEZ. VI, 14/02/2019-02/09/2019, N. 21939
«Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, provare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev’essere rigettata.
Questa conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 11/1/2008, n. 577, pure richiamata dalla ricorrente), secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.
Tale principio venne, infatti, affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.» (Massima non ufficiale)
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. [Omissis], il Tribunale di [Omissis] rigettò le domande proposte da G.E. in D.L. nei confronti della [Omissis], volte all’accertamento della responsabilità della parte convenuta nell’infezione – trasmissione dell’epatite C, asseritamente contratta in occasione del ricovero ospedaliero dell’attrice presso la predetta struttura sanitaria dal 21 marzo 2004 al 3 aprile 2004, per un intervento di artoprotesi al ginocchio destro, e alla condanna di tale parte al risarcimento dei danni.
A fondamento delle proposte domande l’attrice aveva rappresentato che, dopo il predetto intervento, era stata dimessa il giorno 3 aprile 2004, in buone condizioni generali e che, successivamente, ad aprile e a settembre dell’anno 2005, avendo richiesto ad un medico svizzero cure e prestazioni otorinolaringoiatriche, aveva effettuato una serie di esami che avevano evidenziato markers di epatite virale in misura piuttosto elevata, così apprendendo di essere affetta da HCV (epatite C).
La convenuta, nel costituirsi nel giudizio di primo grado, contestò che potesse ravvisarsi qualsiasi profilo di responsabilità professionale nella condotta dei suoi sanitari, osservando che la paziente aveva denunciato la malattia oltre un anno dopo la sua dimissione e che, in occasione dell’intervento in parola, all’attrice non era stata effettuata alcuna trasfusione, che i sanitari dell’Istituto non avevano alcun obbligo di effettuare l’analisi dei marcatori virali, non rientrando gli stessi in alcun protocollo prescritto da norme o direttive internazionali, onde non poteva escludersi che la paziente fosse già affetta dalla malattia al momento del ricovero, e che tutto il materiale utilizzato in sala operatoria era sterile in quanto trattato in autoclave.
Il Tribunale rilevò che, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, “grava(va) sull’attore (paziente danneggiato che agi(va) in giudizio deducendo l’inesatto inadempimento della prestazione sanitaria) oltre alla prova del contratto, anche quella dell’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie nonché la prova del nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del debitore e tale evento dannoso, allegando il solo inadempimento del sanitario. Resta(va) a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento, cioé di avere tenuto un comportamento diligente. Nel caso di specie, non essendovi stata trasfusione, l’attrice avrebbe dovuto provare l’assenza di infezione all’atto dell’intervento. Per contro, la Casa di Cura non aveva alcun obbligo che po(tesse) eventualmente rilevare ai fini del giudizio sull’esatto adempimento, di compiere indagini preventive sul punto laddove le medesime, come affermato dal ctu rileva(va)no a meri fini di “medicina difensiva”.
Richiamando la relazione collegiale nella parte in cui, con riferimento alla ricerca del nesso di causalità tra la condotta del nosocomio e l’evento danno, aveva escluso l’applicabilità del principio di esclusione di cause alternative del contagio e, in termini puramente statistici, aveva ritenuto che il grado di probabilità che l’infezione fosse stata contratta nel marzo 2004 attraverso il già richiamato intervento di artoprotesi di ginocchio fosse basso, sicuramente inferiore al 50%, ovvero più probabile no che sì, quel Giudice evidenziò che “l’attrice, prima del marzo 2004, si era sottoposta a ben quattro interventi chirurgici e che, prima del 2005, ella aveva subito una colonscopia; che la stessa aveva avuto “almeno altre 6 occasioni di possibile contagio, cui si do(vevano) aggiungere le cure odontoiatriche subite nel corso degli anni e il perdurante rischio di “infezione inapparente” (da contagio occasionale attraverso fonti comuni o banali, v. pg. 10 ctu); che la medesima non era stata sottoposta ad alcuna trasfusione presso la struttura convenuta in occasione del ricovero in esame, poiché (era) stato provato che le due unità di sangue, messe a disposizione durante l’intervento, non vennero mai utilizzate per la paziente e furono restituite al Servizio Trasfusionale dell’Ospedale [Omissis] in data 25.03.04, integre e correttamente conservate (cfr. pag. 5 C.T.U.), circostanza peraltro ammessa anche dal c. t. di parte attrice Dott. G., nella sua relazione sub doc. 6 attoreo”.
Il Tribunale, quindi, concluse affermando che dovesse escludersi la responsabilità della struttura convenuta, non avendo l’attrice fornito la prova del nesso causale fra l’infezione e l’operato della struttura sanitaria convenuta.
Avverso la sentenza di primo grado G.E. in D.L. propose gravame, del quale la parte appellata chiese il rigetto.
La Corte di appello di [Omissis], con sentenza del 16 maggio 2017, rigettò l’impugnazione, condannò l’appellante alle spese di lite di quel grado e dichiarò la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’appellante, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, così come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
Avverso la sentenza della Corte di merito G.E. in D.L. ha proposto ricorso per cassazione, basato su un unico motivo e illustrato da memoria.
L’intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede.
La proposta del relatore è stata ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo, rubricato “Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 2697 c.c. con riferimento agli artt. 1218 – 1176 c.c. e agli artt. 115 – 116 c.p.c.”, la ricorrente, nel censurare la motivazione con cui la Corte di merito ha rigettato le sue doglianze con le quali aveva dedotto la violazione dell’art. 2697 c.c. per non aver il primo Giudice addossato l’onere di provare la preesistenza della patologia all’intervento in parola alla struttura sanitaria, attuale intimata, la quale, invece, avrebbe dovuto dimostrare che G.E. in D.L. fosse già affetta, prima del ricovero, da epatite virale C, la cui origine nosocomiale era stata accertata dalla relazione peritale, – rappresenta di non aver affermato, come invece indicato nella sentenza impugnata, che la Casa di cura avrebbe dovuto eseguire come metodologia di routine esami epatici, con i quali certamente si sarebbe dimostrato la preesistenza o meno all’intervento della epatite C, ma di aver sostenuto e di continuare a sostenere che – a fronte dei seguenti dati certi: 1) il ricovero e l’intervento chirurgico del 2004, 2) l’accertamento della malattia nel 2005 e 3) la grande virulenza del valori di replicazione, indicativi di una malattia recente -, spettava alla struttura sanitaria, ex art. 2697 c.c., dimostrare che l’attuale ricorrente fosse già ammalata di epatite C al momento del ricovero presso la già indicata Casa di cura.
Ad avviso della ricorrente, la paziente aveva l’onere di provare “solo l’intervento chirurgico (e quindi il contratto) e l’insorgenza della malattia o la scoperta della stessa successivamente (come nel nostro caso) nient’altro doveva e deve dimostrare: perché il nesso causale si aveva di per sé trattandosi di infezione nosocomiale ed essendovi piena verosimiglianza del fatto allegato, che implica un giudizio causale diretto, nella relazione condotta-evento”.
La ricorrente censura, altresì, la sentenza impugnata, sostenendo che la Corte di merito ha ritenuto più probabile, in base ai calcoli statistici fatti dai C.T.U., che la malattia preesistesse all’epoca del ricovero del 2004, per precedenti interventi chirurgici negli anni 80-90, e, posto che l’intervento del 2004 incideva soltanto in misura inferiore al 10% come possibilità di contrazione della malattia, toccava alla paziente dimostrare che, quando era stata ricoverata, ne era esente.
Secondo la ricorrente, non sarebbe rilevante la percentuale di rischio di contrarre la malattia nell’intervento chirurgico del 2004 ma sarebbe, invece, rilevante che “in quel ricovero (la contrazione della malattia) poteva verificarsi, se non vi era la piena sterilizzazione di ambiente, di cose e di persone”, “insomma, la dimostrazione che un (certo) fatto (intervento chirurgico, ricovero ospedaliero) è idoneo a determinare un certo effetto (infezione da epatite C) questo di per sé tiene luogo alla concreta dimostrazione che quel fatto ha prodotto quell’effetto: appunto si parla di esso di causalità presunto”.
1.1. Il motivo deve essere rigettato.
1.2. La Corte di merito, nel confermare la decisione di primo grado, ha ribadito che non è in contestazione tra le parti che alcuna trasfusione di sangue fu effettuata alla ricorrente in occasione del ricovero di cui si discute in causa. Ha affermato che il principio di vicinanza alla prova o di riferibilità non può essere utilmente invocato al fine di ribaltare sull’avversario l’onere probatorio, “qualora, come nella specie, le circostanze oggetto di prova, per le stesse caratteristiche della situazione presa in esame, rientrano nella piena conoscibilità ed accessibilità di entrambe le parti, tali da consentire senza particolari difficoltà alla parte di provare i propri requisiti soggettivi”. Ha, inoltre, rilevato che “la relazione collegiale. dà compiutamente conto anche delle conclusioni raggiunte in merito al più probabile nqche sì che l’infezione in discorso sia stata contratta nel marzo del 2004 posto che prima dell’intervento alla Columbus la signora G. aveva subito almeno 6 interventi/procedure invasive a rischio di trasmettere l’HCV e considerando statisticamente equivalente per ciascuna occasione la probabilità di essere quella infettante la probabilità di un contagio antecedente è pari a 100/7×6= 85,71%, mentre quella di un contagio avvenuto in occasione dell’intervento al ginocchio risulta pari a 100/7×1=14,29%, aggiungendo che essendo la circolazione dei virus epatici più alta in occasione dei precedenti interventi subiti che non negli anni 2000 (l’intervento è del 2004) ed essendo la signora stata esposta ad altri ben noti fattori di rischio di contrarre virus epatici, la residua probabilità che l’attrice abbia ricevuto l’HCV dall’intervento chirurgico in discussione può essere attendibilmente considerata inferiore al 10%”.
1.3. Questa Corte ha già avuto modo di affermare che: “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’evento di danno (aggravamento della patologia preesistente ovvero insorgenza di una nuova patologia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, non potendosi predicare, rispetto a tale elemento della fattispecie, il principio della maggiore vicinanza della prova al debitore, in virtù del quale, invece, incombe su quest’ultimo l’onere della prova contraria solo relativamente alla colpa ex art. 1218 c.c.” (Cass., ord., 20/08/2018, n. 20812; Cass. 7/12/2017, n. 29315) e che “Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata” (Cass. 15/02/2018, n. 3704; Cass. 26/07/2017, n. 18392).
Tali principi vanno ribaditi in questa sede; pertanto, va affermato che, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, provare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev’essere rigettata.
1.4. Va evidenziato che questa conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 11/1/2008, n. 577, pure richiamata dalla ricorrente), secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.
Questo principio venne, infatti, affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sé, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c.
1.5. La Corte di merito, decidendo come sopra riportato, ha fatto corretta applicazione dei principi richiamati al p. 1.3., sicché il motivo proposto risulta infondato. Quanto osservato non è emerso dalla memoria di parte ricorrente.
2. Il ricorso va, pertanto, rigettato.
3. Non vi è luogo a provvedere per le spese, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.
4. Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).
5. Va disposto che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi della parte ricorrente, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi della parte ricorrente, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
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