Responsabilità degli amministratori: onere della prova, business judgment rule e sindacabilità delle scelte organizzative Trib. Roma, Sez. Spec. Impr., 08/04/2020

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TRIB. ROMA, SEZ. SPEC. IMPR., 08/04/2020

«In tema di responsabilità degli amministratori società di capitali, occorre distinguere tra obblighi gravanti sui medesimi che hanno un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall’atto costitutivo – tra i quali rientra quello di rispettare le norme interne di organizzazione relative alla formazione e alla manifestazione della volontà della società – e obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l’obbligo di amministrare con diligenza e quello di amministrare senza conflitto di interessi. Mentre per questi ultimi la responsabilità può essere collegata alla violazione del generico obbligo di diligenza nelle scelte di gestione, sicché la diligente attività dell’amministratore è sufficiente ad escludere direttamente l’inadempimento, a prescindere dall’esito della scelta, rilevante a diversi fini, per gli obblighi specifici, costituendo la diligenza la misura dell’impegno richiesto agli amministratori, la responsabilità può essere esclusa solo nel caso, previsto dall’art. 1218 c.c., quando cioè l’inadempimento sia dipeso da causa che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore.

Colui che agisce per vedere accertata la responsabilità degli amministratori di società di capitali è altresì onerato della allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale, di cui chiede, in nome proprio ma nell’interesse della società, il ristoro, e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente. In difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe, infatti, di oggetto.

Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione, o le modalità e circostanze di tali scelte, ma solo l’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità.

La regola della business judgment rule esclude che si possa far discendere l’eventuale responsabilità degli amministratori (esclusivamente) dall’insuccesso economico delle iniziative imprenditoriali da questi intraprese, spettando il controllo sull’opportunità e sulla convenienza economica delle decisioni esclusivamente ai soci nei confronti del consiglio di amministrazione e a quest’ultimo, come plenum, nei confronti dei delegati, in quanto trattasi di un controllo in forma di potere di indirizzo, di condizionamento e anche di contrapposizione antagonistica, con la revoca dell’amministratore o della delega, non già di sorveglianza e verifica in funzione di eventuali iniziative sul terreno della responsabilità.

Tuttavia, il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto, avendo la giurisprudenza elaborato due ordini di limiti alla sua operatività. La scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essa è stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e, sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre).

Anche la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità e ciò pur sempre nella vigenza dei limiti sopra esposti e, cioè, che la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.» (Massima non ufficiale)

PREMESSO CHE

– con atto di citazione ritualmente notificato, la [Omissis] s.r.l. in liquidazione conveniva in giudizio i sig.ri [Omissis] e [Omissis], per ottenere l’accertamento della responsabilità di questi ultimi per gli atti di mala gestio compiuti nell’adempimento del loro incarico, rispettivamente di ex Presidente del consiglio di amministrazione (nonché di consigliere delegato) e di ex direttore generale della società attrice, con conseguente condanna in solido, dei medesimi, al risarcimento di tutti i danni subiti dalla società, quantificabili in circa € 4.150.000,00;

– veniva, pertanto, incardinato il giudizio ordinario recante n. [Omissis] r.g., attualmente pendente innanzi a questo Giudice;

– nel corso di tale giudizio, peraltro, si costituiva volontariamente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 110, 300 e 302 c.p.c., l’Ente Nazionale di Previdenza ed assistenza dei [Omissis] – Fondazione [Omissis] (di seguito, Fondazione [Omissis]), ex socio unico della società [Omissis] s.r.l. in liquidazione, medio tempore cancellata dal registro delle imprese a seguito di istanza presentata dal suo liquidatore;

– successivamente, con ricorso depositato in cancelleria il 30 dicembre 2019, la Fondazione [Omissis] chiedeva al Tribunale, ai sensi degli artt. 671 e 669 quater c.p.c., di “autorizzare, anche inaudita altera parte, il sequestro conservativo su tutti i beni mobili, immobili, mobili registrati, crediti, assegni, titoli, conti corrente e/o eventuali altre indennità e somme dei convenuti, dott. [Omissis] e dott. [Omissis], sino alla concorrenza del credito azionato e comunque nella misura non inferiore ad euro 2.455.709,97, oltre interessi e rivalutazione come per legge”;

– a fondamento della svolta domanda, la Fondazione ricorrente rappresentava che:

1) [Omissis] s.r.l. era una società costituita in data 14 luglio 2015 in attuazione della deliberazione del 26 giugno 2015 del Consiglio di Amministrazione dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza dei [Omissis] (ormai Fondazione [Omissis]), ex socio unico della società medesima, avente quale oggetto sociale principale lo svolgimento dell’attività di assistenza e previdenza integrative, nonché le attività strumentali, funzionali o connesse, in favore degli iscritti e dipendenti dell’ [Omissis], di loro familiari e superstiti, nonché di persone giuridiche o enti cui essi aderiscano, in attuazione agli scopi istituzionali della Fondazione;

2) in particolare, la società si proponeva di offrire ai soggetti sopra indicati forme di assistenza e previdenza intese quali presentazione, intermediazione o offerta di prodotti assicurativi e/o di prestare assistenza e consulenza, finalizzate a tale attività, di concludere i relativi contratti e provvedere alla collocazione, gestione o esecuzione, segnatamente in caso di sinistri, dei contratti o dei rapporti assicurativi;

3) [Omissis] s.r.l. era nata, peraltro, nell’ambito di un progetto più ampio (c.d. «Progetto [Omissis]»), molto rilevante in seno alla Fondazione [Omissis], ossia quello di gestire in proprio (o meglio, tramite la predetta società, controllata al 100%) la copertura assicurativa per la tutela assistenziale degli iscritti nei primi trenta giorni di malattia, per la quale viene devoluto all’Ente un contributo pari allo 0,72% sull’ammontare dell’onorario professionale, così abbandonando il sistema precedente, che vedeva tale attività svolta da Assicurazioni Generali sulla base di una polizza collettiva stipulata nell’interesse degli iscritti;

4) Con successiva deliberazione del 31 luglio 2015 del Consiglio di Amministrazione della Fondazione, il dott. [Omissis] veniva nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione della neocostituita [Omissis] s.r.l. e a lui veniva, altresì, conferita una delega con specifici poteri di ordinaria amministrazione, senza necessità di ratifica da parte del consiglio di amministrazione, bensì con semplice obbligo di rendicontazione periodica;

5) nella medesima seduta, su proposta del neoeletto Presidente, il Cda di [Omissis] s.r.l. attribuiva la carica di direttore generale al dott. [Omissis], professionista di elevata esperienza nell’ambito di operatività della società, conferendogli altresì amplissimi poteri gestori con apposita procura notarile;

6) nell’adempimento di tali incarichi, tuttavia, il dott. [Omissis] e il dott. [Omissis] si erano resi responsabili di una serie di atti di mala gestio, che causavano ingenti danni al patrimonio della società;

7) i comportamenti e le omissioni gravemente negligenti posti in essere consistevano, segnatamente: a) nell’omessa iscrizione della società, [Omissis] s.r.l., nel registro degli intermediari assicurativi e riassicurativi (c.d. “RUI”), tenuto dall’Ivass, con ciò impedendo alla società stessa di svolgere l’attività di intermediazione assicurativa, inclusa nell’oggetto sociale; b) nell’aver modificato, senza dare alcuna comunicazione alla Fondazione, socio unico, il codice ATECO di [Omissis] s.r.l., convertendolo dal n. codice 66.22.04, originariamente previsto, riferito ai “produttori, procacciatori e altri intermediari nelle assicurazioni”, nel diverso codice n. 70.22.09, relativo ad “altre attività di consulenza amministrativa”; c) nell’aver disposto, in modo irrazionale e in spregio alle procedure regolamentari interne alla società, l’assunzione di dipendenti – alcuni dei quali, peraltro, provenienti da altre società riconducibili al dott. [Omissis] – a tempo indeterminato, in numero assolutamente esorbitante (circa 30) rispetto alle esigenze della società, che non aveva ancora neppure concretamente iniziato a svolgere la propria attività caratterizzante (la gestione diretta dei primi trenta giorni di malattia), la cui domanda di autorizzazione, proposta dal socio unico nell’interesse della [Omissis] s.r.l., sarebbe stata poco dopo rigettata; d) nell’aver emesso, a nome e per conto di [Omissis] s.r.l., tre fatture nei confronti della Fondazione, per un importo totale di € 1.244.000,00, fatture del tutto ingiustificate perché non corrispondenti ad effettive prestazioni espletate dalla società nei confronti del socio unico;

8) tali comportamenti, gravemente negligenti, conducevano in pochissimi mesi al depauperamento del patrimonio sociale, causando alla società un danno da quantificarsi in complessivi € 4.150.000,00, quale risultante dalla somma dei seguenti importi: € 1.650.000,00, pari ai costi sostenuti dalla società per gli stipendi dei dipendenti, in corso di rapporto e, successivamente, per la risoluzione dei contratti di lavoro; € 2.500.000,00, pari alla perdita di guadagno occorsa alla società a causa sia dell’inconsistenza dell’attività svolta nei confronti del socio unico Fondazione, sia, soprattutto, del mancato svolgimento dell’attività di intermediazione assicurativa, “progetto” previsto nell’oggetto sociale e, tuttavia, quasi subito ingiustificatamente “abbandonato” da parte degli odierni resistenti, dott.ri [Omissis] e [Omissis];

9) la natura gravemente colposa degli atti di gestione compiuti dai resistenti e il corrispondente depauperamento del patrimonio sociale rendevano, poi, totalmente inconcepibile la prospettiva di una continuità aziendale, tanto che la società veniva posta in liquidazione dall’assemblea con deliberazione del 30 luglio 2016;

10) sussistono, pertanto, non solo tutti i requisiti per l’accoglimento dell’azione di merito, bensì anche i presupposti per la concessione dell’invocata misura cautelare, ovvero il fumus boni iuris e il periculum in mora del richiesto provvedimento di sequestro conservativo, da emettersi nei confronti dei resistenti, [Omissis] e [Omissis];

11) quanto al fumus boni iuris, in particolare, questo è dato non solo dalla verosimile fondatezza degli addebiti di responsabilità formulati nei confronti dei resistenti, bensì anche dalla sopravvenuta circostanza dell’accertamento compiuto, in sede cautelare, dalla Corte dei Conti: quest’ultima, infatti, chiamata a decidere sulla richiesta di sequestro conservativo formulata dalla Procura Regionale presso la Corte dei Conti – sez. giurisdizionale per il Lazio, nell’ambito del procedimento volto ad accertare, nel merito, l’esistenza di una responsabilità per danni all’erario in capo agli odierni resistenti, dott. [Omissis] e dott. [Omissis], aveva disposto la misura, con ordinanza, fino a concorrenza dell’importo di € 2.455.709,97; sennonché, con successiva pronuncia del 12 dicembre 2019 n. 32608, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice contabile e la sussistenza della giurisdizione ordinaria, ragion per cui l’azione cautelare è stata riproposta innanzi all’intestato Tribunale;

12) quanto al periculum in mora, invece, questo consiste in primo luogo nel rischio di dispersione della garanzia patrimoniale del credito azionato in giudizio, rischio che, nel caso di specie, è particolarmente accentuato perché si tratta di una somma molto elevata e poiché, al contempo, i beni presenti nel patrimonio dei due debitori sono di natura tale da poter essere agevolmente occultati; in secondo luogo, poi, il periculum risulta aggravato dalla circostanza che, a seguito dell’intervenuta declaratoria del difetto di giurisdizione contabile a favore della giurisdizione ordinaria, il sequestro conservativo medio tempore disposto dalla Corte dei Conti è destinato a perdere efficacia, con la conseguenza che gli odierni resistenti riacquisteranno, a breve, la piena e libera disponibilità del proprio patrimonio;

– sulla scorta di tali premesse, la parte ricorrente concludeva come sopra riportato;

– con decreto emesso inaudita altera parte in data [Omissis], questo Giudice autorizzava la Fondazione [Omissis] ad iscrivere il sequestro conservativo sui beni, mobili, immobili e i crediti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis], fino a concorrenza dell’importo di € 2.455.709,97; fissava inoltre l’udienza del [Omissis] per decidere, nel contraddittorio delle parti, sulla conferma, modifica o revoca del decreto, concedendo altresì alla parte ricorrente termine fino all’ [Omissis] per la notifica alle controparti del ricorso introduttivo e del decreto stesso;

– ritualmente notificati il ricorso ed il pedissequo decreto nei confronti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis], questi si costituivano in giudizio eccependo preliminarmente l’inammissibilità e/o l’improcedibilità dell’intero procedimento, compresa la domanda cautelare e concludendo, nel merito, per il rigetto della domanda medesima;

– si costituivano altresì in sede cautelare gli Assicuratori dei Lloyd’s, terzi chiamati dai convenuti nel giudizio di merito, riportandosi alle difese ivi svolte;

– all’udienza del [Omissis], dopo la discussione orale della causa, il Giudice riservava la decisione;

– successivamente, peraltro, il [Omissis], la difesa del sig. [Omissis] depositava telematicamente un’istanza di acquisizione di nuovi documenti; pertanto, con ordinanza del [Omissis], a scioglimento della riserva assunta, ritenuto opportuno sottoporre le nuove produzioni documentali al contraddittorio delle parti, il Giudice rinviava all’udienza del [Omissis] per nuova discussione orale;

– all’udienza del [Omissis], all’esito di nuova discussione orale, il Giudice riservava la decisione sulla conferma, modifica o revoca del provvedimento di sequestro conservativo emesso inaudita altera parte;

OSSERVA QUANTO SEGUE

1. Sull’eccezione di inammissibilità e/o improcedibilità (anche) della domanda cautelare per sopravvenuta estinzione della società [Omissis] s.r.l.

La [Omissis] s.r.l. ha instaurato il giudizio di merito nei confronti dei Sig.ri [Omissis] e [Omissis] al fine di ottenere l’accertamento della responsabilità di questi ultimi per gli atti di mala gestio compiuti nell’adempimento del loro incarico, rispettivamente di ex Presidente del consiglio di amministrazione (nonché di consigliere delegato) e di ex direttore generale della società attrice, con conseguente condanna in solido, dei medesimi, al risarcimento di tutti i danni subiti dalla società.

Una volta già incardinato il presente giudizio mediante notificazione dell’atto di citazione intervenuta nel gennaio 2017, la società attrice è stata cancellata dal registro delle imprese in data 17 marzo 2017 all’esito della procedura di liquidazione e su istanza presentata dal liquidatore, dott. [Omissis].

In data 30 marzo 2017, quindi, si costituiva volontariamente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 110, 300 e 302 c.p.c., l’Ente Nazionale di Previdenza ed assistenza dei [Omissis] – Fondazione [Omissis], ex socio unico della società [Omissis] s.r.l. in liquidazione, proseguendo il giudizio già iniziato e, nelle more, chiedendo l’autorizzazione ad iscrivere sequestro conservativo sui beni di proprietà dei convenuti.

Così ricostruita, in estrema sintesi, la vicenda processuale, occorre preliminarmente esaminare l’eccezione di inammissibilità o, comunque, di improcedibilità della domanda sollevata dai resistenti.

Questi ultimi, infatti, nelle proprie memorie di costituzione, reiterando la medesima eccezione già sollevata in sede di merito, hanno evidenziato che tutto il giudizio incardinato, nei loro confronti, dalla [Omissis] s.r.l. in liquidazione, e, dunque, anche la presente fase cautelare, sarebbe divenuto improcedibile per effetto dell’estinzione di tale società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, come detto, intervenuta dopo l’introduzione del giudizio di merito.

In particolare, secondo i resistenti, l’estinzione della persona giuridica avrebbe determinato la tacita rinuncia a tutte le “mere pretese” astrattamente vantate dalla società e, nello specifico, alla pretesa azionata in sede di merito nei confronti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis], ciò sulla scorta del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui non si trasferiscono ai soci di una società estinta (nel caso di specie, al socio unico Fondazione [Omissis]) le cc.dd. mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti e illiquidi. In considerazione di ciò, non sussisterebbe in capo alla Fondazione [Omissis] la legittimazione a costituirsi in giudizio in luogo dell’originaria società attrice, ai sensi degli artt. 110 e 300 c.p.c., non essendo la Fondazione, succeduta alla [Omissis] s.r.l., ormai estinta, nella titolarità della pretesa azionata nei confronti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis] e avente ad oggetto la responsabilità di questi ultimi per i presunti danni cagionati al patrimonio sociale.

Conseguentemente, il giudizio andrebbe dichiarato interamente improcedibile, ivi compresa la fase cautelare introdotta con ricorso in corso di causa: avendo, infatti, la società attrice tacitamente rinunziato al giudizio di merito, ciò impedirebbe altresì di ravvisare il c.d. fumus boni iuris del richiesto provvedimento di sequestro conservativo.

L’eccezione non è fondata e deve, pertanto, essere respinta.

Come noto, infatti, le norme dettate in tema di procedimento di liquidazione della società stabiliscono che il liquidatore, completata la liquidazione del patrimonio sociale con la conversione in danaro dell’attivo, deve redigere il bilancio finale di liquidazione (art. 2492 c.c.), ivi indicando la parte spettante a ciascun socio nella divisione dell’attivo (c.d. piano di riparto).

Approvato dai soci, anche tacitamente (ex art. 2493 c.c.), il bilancio finale di liquidazione, il liquidatore deve chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese (art. 2495, 1° comma, c.c.).

Peraltro, ci si è lungamente interrogati in ordine alla sorte, una volta intervenuta la cancellazione e la conseguente estinzione dell’ente, di eventuali rapporti giuridici, attivi o passivi, non definiti nella fase di liquidazione, o perché “trascurati” (cc.dd. residui non liquidati) o perché sopravvenuti e, quindi, non conosciuti prima della cancellazione stessa (cc.dd. sopravvenienze). Non è inopportuno rammentare che prima della riforma della disciplina legale delle società di capitali e cooperative (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), la costante giurisprudenza di legittimità aveva affermato il principio per cui la cancellazione dal registro delle imprese determinava solamente una presunzione di estinzione della società, come tale suscettibile di prova contraria, sicché i creditori sociali rimasti insoddisfatti, nonostante l’avvenuta cancellazione potevano ancora agire nei confronti della società in persona dei liquidatori, fino ad arrivare a richiederne la dichiarazione di fallimento (cfr., Cass., 2 agosto 2001, n. 10555; Cass., 12 giugno 2000, n. 7972): in altre parole, alla cancellazione della società dal registro delle imprese non conseguiva, immediatamente, anche la sua estinzione, che era determinata, invece, soltanto dalla effettiva liquidazione dei rapporti giuridici pendenti che alla stessa facevano capo ed dalla definizione di tutte le controversie giudiziarie in corso con i terzi per ragioni di dare ed avere.

Con la riforma del diritto societario, invece, il legislatore ha modificato il secondo comma dell’art. 2495 c.c. disponendo che, in questi casi, ferma restando l’estinzione della persona giuridica – con esclusione, pertanto, di ogni forma di reviviscenza, ipotizzata prima della modifica normativa dalla giurisprudenza – i creditori sociali rimasti insoddisfatti possono far valere i propri diritti, dopo la cancellazione, nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, nonché nei confronti dei liquidatori, ove sussista una responsabilità di questi ultimi per il mancato soddisfacimento dei crediti. Così riformulata, la norma in discorso attribuisce efficacia costitutiva alla cancellazione della società dal registro delle imprese a prescindere dalla sopravvivenza o anche della sopravvenienza di attività o di passività (cfr., Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060; Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4061).

Successivamente, peraltro, la giurisprudenza è tornata sulla questione, affrontando, in particolare, il profilo concernente l’individuazione del soggetto titolare di tali rapporti non definiti, atteso che questi ultimi non possono più considerarsi nella titolarità della società, ormai definitivamente estinta.

Ebbene, secondo l’orientamento sorto in aderenza ad un noto arresto della giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070) rispetto a tali rapporti – i quali, pertanto, non rimangono adespoti – si verifica un fenomeno di tipo successorio, nel senso che sono i soci a subentrare nella titolarità della medesima posizione giuridica che faceva capo alla società estinta.

La citata sentenza, preso atto dell’impossibilità di tracciare una soluzione perfettamente uniforme sia per le cc.dd. sopravvenienze passive che per quelle attive, ha statuito che, mentre i debiti si trasferiscono senz’altro, ex art. 2495 co. 2 c.c., in capo ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso in fase di liquidazione (ovvero illimitatamente o limitatamente, a seconda della responsabilità cui essi erano soggetti manente societate), viceversa per i rapporti giuridici attivi occorre tracciare una distinzione. Si trasferiscono ai soci, infatti, di regola, anche i beni e i diritti non inseriti nel bilancio finale di liquidazione della società estinta, fatta eccezione, tuttavia, per le cc.dd. mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei diritti di crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione nel bilancio finale di liquidazione avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato.

In altri termini, dunque, la giurisprudenza distingue, nell’ambito delle posizioni attive residue, non definite o sopravvenute, a seconda che si tratti di posizioni «gestite» da parte del liquidatore prima di richiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, oppure di mere pretese rispetto alle quali il mancato espletamento di un’attività di gestione delle medesime, da parte del liquidatore, fa presumere un disinteresse e, quindi, una tacita rinunzia da parte della società, poi estinta. Con riferimento alle prime, invece, l’effetto «rinunziativo» è impedito da una attività – «ulteriore» rispetto alla sola cancellazione della società dal registro delle imprese – del liquidatore, consistente in una «espressa» gestione della posizione, attraverso, ad es., la cessione del credito (ancorché litigioso) a terzi e l’inclusione del corrispettivo nel bilancio di liquidazione (e, dunque, nella distribuzione del ricavato) ovvero ancora nella attribuzione di un diritto già azionato ad un determinato socio (con menzione nella nota integrativa).

Pertanto, sulla base di tale delineata distinzione, gli ex soci subentrano (anche processualmente, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., che ricomprende anche fenomeni successori diversi rispetto alla successione mortis causa della persona fisica) nei rapporti attivi in qualche misura «gestiti» in fase di liquidazione, non anche nelle «mere pretese» rispetto alle quali si è prodotto un effetto rinunziativo.

Così ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, si tratta di verificare se, nel caso di specie, l’azione di responsabilità ex art. 2476 c.c., proposta dalla [Omissis] s.r.l. in pendenza della fase di liquidazione, debba intendersi come posizione gestita da parte della società, per il tramite del liquidatore, o se, invece, come sostenuto dai resistenti, essa vada ricondotta all’alveo delle mere pretese tacitamente rinunziate, con conseguente sopravvenuta improcedibilità dell’intero giudizio odierno, di merito e cautelare.

Ebbene, ritiene il Tribunale che il giudizio introdotto dalla [Omissis] s.r.l. in liquidazione prima della cancellazione e, quindi, della sua estinzione, possa qualificarsi come rapporto giuridico «coltivato» da parte del liquidatore prima di procedere alla richiesta di cancellazione della società dal registro delle imprese (si ribadisce, in particolare, che il giudizio è stato azionato quando la società era già in liquidazione); pertanto, deve ritenersi applicabile la regola, enucleata dalla citata sentenza delle Sezioni Unite, della successione, nella titolarità di tale rapporto, dei soci della società estinta, ovvero, nel caso concreto, dell’ex socio unico Fondazione [Omissis].

Tale impostazione risulta avvalorata, in particolare, dalla lettura del bilancio finale di liquidazione della [Omissis] s.r.l., predisposto dal liquidatore (v. doc. 1, all.to alla comparsa di costituzione volontaria, in sede di merito, della ricorrente), ove – nella nota integrativa – si evidenzia che «la causa promossa dalla società, proseguirà da parte del Socio Unico Fondazione [Omissis] (RG Tribunale di Roma n. [Omissis]) a cui vengono devoluti i relativi diritti, così come previsto anche dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, successivamente alla cancellazione dal Registro delle Imprese della [Omissis] srl in liquidazione» (pag. 5). Inoltre, medesima affermazione si trova nella “Relazione del liquidatore al bilancio finale di liquidazione chiuso al 7 marzo 2017” ove si legge che: «relativamente alle fasi salienti della liquidazione il socio è già̀ stato informato sulla base della relazione di accompagnamento al primo bilancio intermedio di liquidazione chiuso al 31.12.2016; la presente interessa di conseguenza la successiva finestra temporale inerente il periodo 01.01.17-07.03.17. Nel periodo in oggetto, a seguito del mandato ricevuto dall’Assemblea del Socio Unico, si è adempiuto a quanto deliberato dalla Fondazione [Omissis] in data 22.09.2016, relativamente all’azione ex art. 2393 c.c. promossa nei confronti sia dell’ex Presidente del Consiglio di Amministrazione sia dell’ex Direttore Generale di [Omissis] s.r.l. La causa promossa dalla società (RG Tribunale di Roma n. [Omissis]), così come previsto anche dalla recente giurisprudenza della suprema Corte di Cassazione, proseguirà da parte del Socio Unico Fondazione [Omissis], a cui vengono devoluti i relativi diritti, successivamente alla cancellazione dal Registro delle Imprese della [Omissis] srl in liquidazione».

È evidente, dunque, da un lato, la chiara intenzione della società, espressa nel citato bilancio, di «devolvere» il credito litigioso oggetto di causa al socio unico, Fondazione [Omissis], quale «successore» della società, non anche, quindi, di rinunziarvi; dall’altro, la volontà di quest’ultima di subentrare in quel diritto e nel relativo giudizio (come confermato dall’apposita deliberazione adottata, la n. 18 del 17 marzo 2017 – v. doc. 39 all.to alla memoria ex art. 183, 6 co. n. 2 c.p.c.), tanto più ove si consideri la peculiarità del caso di specie, rappresentata dal fatto che la Fondazione era l’unico socio, siccome titolare del 100% del capitale sociale, della società [Omissis] s.r.l. e in tale veste aveva essa stessa deliberato in apposita riunione assembleare l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’ex amministratore e dell’ex direttore generale.

Nella fattispecie concreta, pertanto, i diritti azionati con la pendente causa di merito non possono ricondursi alla categoria delle «mere pretese» da intendersi rinunciate, tanto più che queste ultime sono ravvisabili, secondo la più volte citata giurisprudenza, quando non sono state incluse nel bilancio finale di liquidazione «perché la loro inclusione avrebbe richiesto un’attività ulteriore, giudiziale o extragiudiziale, da parte del liquidatore» (così Cass. sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070 già citata), mentre nel caso di specie, a ben vedere, v’è stata un’apposita ed espressa menzione del giudizio già incardinato nel bilancio finale di liquidazione, il che fa venire meno il presupposto per ritenere «abbandonato», perché non più gestito, il rapporto controverso oggetto dell’odierno giudizio e fa altresì presumere che non vi sia stato alcun effetto rinunziativo tacito.

Tutto ciò, d’altronde, trova definitiva conferma nelle successive evoluzioni giurisprudenziali del principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite (sent. 6070 del 12 marzo 2013), secondo cui l’estinzione della società per avvenuta cancellazione volontaria dal registro delle imprese non priva i soci dell’interesse alla decisione in un giudizio di accertamento di un credito sociale coltivato dal liquidatore prima di detta cancellazione, stante la qualificazione di tale iniziativa come specifica attività ulteriore di gestione della pretesa azionata, che consente di superare la presunzione di rinuncia a quest’ultima, stante anzi l’interesse dei soci succeduti alla società a determinare l’entità del rapporto giuridico facente capo all’ente estinto (così, Cass., 6 aprile 2018, n. 8582).

In definitiva, non essendosi verificato, in relazione al diritto fatto valere nell’attuale giudizio di merito, alcun fenomeno rinunziativo, la Fondazione [Omissis] ben poteva, come puntualmente ha fatto, costituirsi volontariamente – ex artt. 110 e 300 c.p.c. – nel giudizio di merito, così evitandone l’improcedibilità per sopravvenuta perdita di capacità processuale della parte che l’aveva originariamente instaurato; ne discende inoltre che, essendo il giudizio automaticamente proseguito da parte del «successore universale» dell’originaria società attrice, ben poteva il primo (la Fondazione [Omissis]) coltivare detto giudizio, spiegando, altresì, domande cautelari in corso di causa.

2. Sul fumus boni iuris dell’invocata tutela cautelare.

Ciò premesso in ordine alla procedibilità del giudizio e venendo all’esame del merito della controversia, ritiene il Tribunale che la domanda di sequestro conservativo proposta in corso di causa dalla Fondazione [Omissis] sia parzialmente fondata e vada in parte qua accolta per i motivi che di seguito si vanno ad esporre.

Preliminarmente, va rammentato che, ai sensi dell’art. 2905 c.c., il sequestro conservativo può essere chiesto dal creditore, che abbia fondato timore di perdere la garanzia patrimoniale del proprio credito, su tutti i beni e i crediti di cui il debitore risulti titolare.

Dunque, a livello sostanziale, il c.d. sequestro conservativo rappresenta un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, costituita, ai sensi dell’art. 2740 c.c., da tutti i beni presenti e futuri del debitore.

A livello processuale, invece, il sequestro conservativo è un tipico rimedio cautelare, cui si applicano le disposizioni di cui agli artt. 669 bis e ss. c.p.c., comportante l’apposizione di un vincolo (materiale e giuridico) sul bene sequestrato, implicante la sottrazione della disponibilità di quest’ultimo in capo al debitore proprietario, per tutta la durata e fino alla definizione del giudizio di merito.

Da un punto di vista giuridico, invece, il sequestro importa l’inefficacia, nei confronti del creditore sequestrante, degli atti dispositivi del bene sequestrato, medio tempore posti in essere dal debitore, che recano o, più semplicemente, possono recare pregiudizio (c.d. periculum damni) alle ragioni del creditore medesimo.

Si tratta, pertanto, di uno strumento di garanzia efficace nei casi in cui vi sia il rischio di occultamento, materiale o giuridico, o di dispersione dei propri beni da parte del debitore, che precluderebbe il successivo soddisfacimento, eventualmente in via coattiva, della propria pretesa, da parte del creditore.

Per la concessione del provvedimento di sequestro conservativo sono richiesti, naturalmente, sia il fumus boni iuris che il c.d. periculum in mora.

In particolare, il fumus è dato dall’esistenza di un diritto di credito, che può, peraltro, pacificamente, anche essere illiquido o inesigibile e può trattarsi, altresì, di credito “litigioso”, cioè di un credito ancora sub judice; il periculum in mora, invece, è rappresentato dal fondato timore di perdita, dispersione o diminuzione della garanzia del proprio credito; infatti, essendo il patrimonio del debitore destinato a costituire garanzia dei creditori, è evidente l’interesse di questi ultimi alla conservazione dell’integrità del patrimonio del debitore, essendo su quest’ultimo che il creditore insoddisfatto potrà poi valersi in sede di esecuzione coattiva.

Si tratta, dunque, di verificare se i predetti requisiti sussistano o meno nel caso di specie.

Ebbene, in relazione al c.d. fumus boni iuris, rileva il Giudice che, sulla base di una cognizione sommaria quale è quella che caratterizza il giudizio cautelare, appaiano fondati solo alcuni degli addebiti mossi – e, correlativamente, dei danni contestati – dalla Fondazione [Omissis] nei confronti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis], dedotti dalla prima a fondamento dell’azione di responsabilità esperita, avverso i secondi, in sede di merito.

A tal proposito, giova innanzi tutto ribadire che, secondo le prospettazioni di parte ricorrente, sussiste la responsabilità del dott. [Omissis], ex Presidente del Consiglio di amministrazione di [Omissis] s.r.l. nonché consigliere delegato, e del dott. [Omissis], ex direttore generale con ampi poteri contrattuali, per il danno arrecato al patrimonio della società [Omissis] s.r.l., ormai estinta, in ragione di una pluralità di comportamenti dai medesimi posti in essere, tutti integranti violazione dei doveri imposti dalla legge e dallo statuto.

Infatti, secondo la Fondazione [Omissis], gli odierni resistenti avrebbero nel complesso operato senza l’osservanza dello specifico canone di diligenza professionale ad essi richiesto sia dalla natura dell’incarico, che dalle loro specifiche competenze, tanto più che entrambi erano stati scelti perché ritenuti soggetti particolarmente qualificati per l’espletamento dell’incarico gestorio.

Nello specifico, poi, tale condotta, gravemente negligente e imprudente, si sarebbe tradotta in una serie di comportamenti specifici.

In primo luogo, viene imputato all’ex amministratore delegato e all’ex direttore generale di aver proceduto ad assunzioni di personale, per giunta a tempo indeterminato, in numero assolutamente eccedente rispetto alle concrete ed effettive, anche in relazione al particolare momento in cui vennero disposte, esigenze della società. Infatti, la [Omissis] s.r.l. era stata appena costituita e non aveva ancora neppure concretamente intrapreso il proprio progetto imprenditoriale, né avrebbe potuto farlo, in assenza delle necessarie autorizzazioni ministeriali per l’espletamento dell’attività assicurativa, quando i resistenti, in spregio ad ogni regola, anche minima, di prudenza, hanno avviato una serie di procedure di reclutamento del personale, che hanno poi condotto all’assunzione con regolare contratto a tempo indeterminato in un primo momento (il 19 ottobre 2015) di 28 unità e, successivamente di altre 14 (di cui 10 nel dicembre 2015 e altre 4 nel corso del 2016).

Da ciò sarebbe derivato, in capo alla società, un grave pregiudizio di natura economica, essendosi questa trovata esposta all’obbligo di corrispondere, prima, cioè in costanza di rapporto di lavoro, gli stipendi (comprese le voci della tredicesima, quattordicesima, TFR e contributi previdenziali) a tutti i dipendenti assunti, e poi, una volta risolti tali rapporti, a sostenere i costi della risoluzione dei relativi contratti (ad ogni dipendente, infatti sono state riconosciute, a seguito del recesso, due mensilità di stipendio), il tutto per un ammontare complessivo di spesa pari a € 1.650.000,00, in un momento in cui la società amministrata non aveva pressoché entrate, non avendo ancora avviato attività idonee a generare ricavi.

In secondo luogo, Fondazione [Omissis] deduce che i sig.ri [Omissis] e [Omissis], nei rispettivi incarichi, avrebbero deliberatamente e concordemente omesso di iscrivere la società dai medesimi amministrata nel registro RUI degli intermediari assicurativi, tenuto dall’Ivass, con ciò determinando un vero e proprio danno da perdita di chance in capo alla società medesima, che, ove regolarmente iscritta, avrebbe iniziato a svolgere l’attività di intermediazione assicurativa, inclusa tra quelle previste dall’oggetto sociale, da cui sarebbero derivati ingenti guadagni, per un ammontare quantificabile, equitativamente, in € 500.000,00 annui che, moltiplicati per 5 anni (presumibile durata di svolgimento dell’attività), avrebbe determinato un accrescimento del patrimonio della società di € 2.500.000,00.

Infine, sempre secondo la prospettazione della parte ricorrente, ulteriori fatti, connotati da grave negligenza, commessi dai due resistenti, idonei a fondare il fumus boni iuris del richiesto provvedimento di sequestro conservativo, consisterebbero, da un lato, nell’alterazione del codice ATECO della [Omissis] s.r.l. e, dall’altro, nell’emissione di fatture “fittizie”, verso la Fondazione [Omissis], di importo particolarmente elevato, che i resistenti avrebbero fatto emettere alla società per creare l’apparenza di una regolare attività espletata, mentre, invece, nessuna prestazione o servizio sarebbe mai stato reso nei confronti del socio unico.

3. La responsabilità degli amministratori di società di capitali. In particolare, il principio della business judgment rule applicato alle scelte organizzative degli amministratori.

L’art. 2476 c.c. pone una disciplina sintetica della responsabilità degli amministratori verso la società (a responsabilità limitata), i soci ed i terzi. Nonostante ciò, quanto ai presupposti generali della responsabilità ed alla natura delle diverse azioni, sussiste una quasi completa simmetria rispetto alla disciplina prevista per le società azionarie. Il primo comma della richiamata disposizione codicistica si limita ad affermare che gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società: nonostante la mancata riproduzione della formula contenuta nell’art. 2392 c.c., è comunque richiesta una diligenza di carattere professionale, determinata dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze degli amministratori chiamati a guidare la società. In particolare, si ritiene dovuta la diligenza professionale di cui all’art. 1176 comma 2 c.c. di cui il riferimento alla natura dell’incarico (ex art. 2392 c.c.) rappresenta evidente specificazione (così, in giurisprudenza, Trib. Roma, 19 ottobre 2015; Trib. Milano, 28 febbraio 2011).

Sotto altro profilo, merita di essere evidenziato che l’azione sociale ha natura contrattuale, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo, ovvero nell’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. La norma di cui all’art. 2476 c.c. struttura, quindi, una responsabilità degli amministratori in termini colposi, come emerge chiaramente sia dal richiamo alla diligenza quale criterio di valutazione e di ascrivibilità della responsabilità (richiamo che sarebbe in contrasto con una valutazione in termini oggettivi della responsabilità) sia dalla circostanza che la medesima disposizione codicistica consente all’amministratore di andare esente da responsabilità, fornendo la prova positiva di essere immune da colpa.

Quanto agli obblighi che gravano sugli amministratori (ed il cui inadempimento costituisce l’oggetto dell’azione di responsabilità), occorre distinguere tra obblighi gravanti sugli amministratori che hanno un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall’atto costitutivo – tra i quali rientra quello di rispettare le norme interne di organizzazione relative alla formazione e alla manifestazione della volontà della società, – e obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l’obbligo di amministrare con diligenza e quello di amministrare senza conflitto di interessi. Mentre per questi ultimi la responsabilità dell’amministratore può essere collegata alla violazione del generico obbligo di diligenza nelle scelte di gestione, sicché la diligente attività dell’amministratore è sufficiente ad escludere direttamente l’inadempimento, a prescindere dall’esito della scelta, rilevante a diversi fini, per gli obblighi specifici, costituendo la diligenza la misura dell’impegno richiesto agli amministratori, la responsabilità può essere esclusa solo nel caso, previsto dall’art. 1218 c.c., quando cioè l’inadempimento sia dipeso da causa che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore (Cass., 23 marzo 2004, n. 5718).

Peraltro, per quello che qui maggiormente interessa, colui che agisce con l’azione in argomento è onerato della allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale, di cui chiede, in nome proprio ma nell’interesse della società, il ristoro, e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente. In difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe, infatti, di oggetto (cfr. Cass., 18 marzo 2005, n. 5960 secondo la quale sia nell’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, sia in quella di responsabilità contrattuale, spetta al danneggiato fornire la prova dell’esistenza del danno lamentato e della sua riconducibilità al fatto del debitore).

Ancora, è noto che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione, o le modalità e circostanze di tali scelte, ma solo l’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità (cfr., Cass., 28 aprile 1997, n. 3652). La regola della business judgment rule esclude che si possa far discendere l’eventuale responsabilità degli amministratori (esclusivamente) dall’insuccesso economico delle iniziative imprenditoriali da questi intraprese, spettando il controllo sull’opportunità e sulla convenienza economica delle decisioni esclusivamente ai soci nei confronti del consiglio di amministrazione e a quest’ultimo, come plenum, nei confronti dei delegati, in quanto trattasi di un controllo in forma di potere di indirizzo, di condizionamento e anche di contrapposizione antagonistica, con la revoca dell’amministratore o della delega, non già di sorveglianza e verifica in funzione di eventuali iniziative sul terreno della responsabilità.

Tuttavia, il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto, avendo la giurisprudenza elaborato due ordini di limiti alla sua operatività. La scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essa è stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e, sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre).

Con riferimento al primo profilo, è stato correttamente affermato che, se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentano profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente – se necessario, con adeguata istruttoria – i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili (in questi esatti termini, Cass., 12 agosto 2009, n. 18231; Cass., 24 agosto 2004, n. 16707; Cass., 27 dicembre 2013, n. 28669). Si tratta, in concreto, di ripercorrere il procedimento decisionale che l’amministratore ha seguito per il compimento della scelta di gestione verificando, in particolare, se l’amministratore abbia eventualmente omesso le cautele, le verifiche e le informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, avendo riguardo alle circostanze del caso concreto e se dalle premesse siano state ricavate conclusioni che siano con esse in rapporto di coerenza e di congruità logica.

Sotto il secondo profilo tratteggiato («razionalità» della scelta ovvero, per usare la terminologia di Cass., 22 giugno 2017, n. 15470, «ragionevolezza» della scelta medesima, ancorché sia lecito dubitare che le due espressioni utilizzate dalla giurisprudenza riflettano, sotto il profilo semantico, effettive differenze), non basta che l’amministratore abbia assunto le necessarie informazioni ed abbia eseguito (attraverso l’uso di risorse interne o di consulenze esterne) tutte le verifiche del caso, essendo pur sempre necessario che le informazioni e le verifiche così assunte abbiano indotto l’amministratore ad una decisione razionalmente inerente ad esse (Trib. Roma, 28 settembre 2015).

Esaminata, in via del tutto generale, la tematica della responsabilità degli amministratori di una società a responsabilità limitata ed indagati il significato ed i limiti della regola della business judgment rule, occorre ora esaminare se essa – come detto, «sorta» e sviluppata con riferimento alle scelte imprenditoriali degli amministratori – possa applicarsi alle scelte «organizzative» da essi poste in essere.

Come è noto, infatti, l’art. 2381 c.c. – con una regola che, anche in epoca antecedente all’entrata in vigore (per detta parte) del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 che ha modificato l’art. 2475 c.c. aggiungendovi un espresso richiamo, si riteneva applicabile anche alle società a responsabilità limitata – pone a carico degli amministratori il dovere di curare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. Ebbene, sebbene debba darsi atto di un orientamento dottrinario che ritiene che non sia possibile traslare i principi che sorreggono la regola sopra evidenziata alle scelte non gestorie, ma organizzative, ritiene il Tribunale che sia condivisibile la conclusione favorevole.

In tale prospettiva, in estrema sintesi, si evidenzia che la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all’espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. E va da sé che tale obbligo organizzativo può essere efficacemente assolto guardando non tanto a rigidi parametri normativi (non essendo enucleabile dal codice un modello di assetto utile per tutte le situazioni), quanto ai principi elaborati dalle scienze aziendalistiche ovvero da associazioni di categoria o dai codici di autodisciplina.

Così, come è stato efficacemente affermato, l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell’adeguatezza  e, dunque, una clausola elastica, al pari, della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale.

In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità e ciò pur sempre nella vigenza dei limiti sopra esposti e, cioè, che la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico.

4. I singoli addebiti mossi dalla Fondazione [Omissis]. L’assunzione dei dipendenti.

Richiamato il quadro degli addebiti formulati dalla Fondazione [Omissis] e da quest’ultima posti a sostegno anche della richiesta di sequestro conservativo, occorre osservare che solo il primo dei contestati, gravi inadempimenti si presenta, allo stato, verosimilmente fondato, cosicché la misura cautelare può essere sì concessa, ma solo fino a concorrenza della somma, minore rispetto a quella indicata nel decreto inaudita altera parte, di € 1.650.000,00, corrispondente al verosimile danno al patrimonio sociale causalmente riconducibile al predetto addebito.

Sul punto, va precisato che, innanzi tutto, l’assunzione di un certo numero di dipendenti a tempo indeterminato è circostanza neppure contestata dai resistenti, che si limitano a replicare che il reclutamento del personale sia stato posto in essere in piena osservanza del regolamento interno adottato dalla società, con il parere favorevole del collegio sindacale e, soprattutto, in esecuzione del complessivo progetto imprenditoriale deciso dal socio unico Fondazione [Omissis], che non sarebbe mai potuto “partire” se la società non si fosse tempestivamente dotata delle risorse umane e tecniche necessarie.

Dunque, muovendo dal duplice presupposto che, da un lato, l’assunzione di personale afferisce a scelte organizzative che l’amministratore è tenuto a compiere e, dall’altro, che, nel caso di specie, v’è certamente stata assunzione di un numero elevato di dipendenti, così come allegato da parte ricorrente, occorre rilevare come queste assunzioni in blocco risultino verosimilmente lesive dell’obbligo, incombente sugli amministratori di società di capitali, di corretta gestione delle risorse societarie e di tutela dell’integrità del patrimonio della società e, in definitiva, dell’obbligo di dotare la società di assetti adeguati (anche) alla fase che quella società sta vivendo; le stesse, infatti, non risultano poste in essere secondo i canoni di diligenza e, soprattutto, di prudenza professionale che gli amministratori (e i direttori generali) di società di capitali sono tenuti ad osservare nell’espletamento del proprio incarico, di talché plausibilmente ricorrono, nel caso di specie, gli elementi costitutivi di una responsabilità in capo ai resistenti.

È pacifico, infatti, che, all’atto delle assunzioni, la società [Omissis] s.r.l. si trovasse ancora in una fase di “start-up” e che non fosse ancora stata intrapresa l’attività principale, per la quale era stata costituita, riguardante la gestione diretta dell’assistenza assicurativa nei primi trenta giorni di malattia in favore degli iscritti della Fondazione [Omissis].

Ciò in quanto era ancora in corso, come concordemente riferito dalle parti in causa, il procedimento ministeriale avviato, su istanza della stessa Fondazione [Omissis], per il rilascio delle autorizzazioni allo svolgimento dell’attività predetta, necessarie in quanto attività dotata di rilevanza pubblicistica.

Anzi, a ben vedere, gli organi gestori della società erano già stati informalmente “pre-allertati” circa l’intenzione dei Ministeri di negare le autorizzazioni in discorso, circostanza, di lì a poco, concretamente verificatasi, il che indubbiamente imponeva ai resistenti, nelle loro vesti di consigliere di amministrazione delegato e di direttore generale, di assumere scelte organizzative più consapevoli e attendiste, evitando, in particolare, di esporre finanziariamente e in modo così consistente la società, impegnandola a sostenere costi, per la remunerazione del personale, decisamente esorbitanti rispetto ai ricavi (che in una fase iniziale sono quasi sempre pressoché nulli) e, per di più, non corrispondenti ad una reale esigenza “produttiva” dell’ente, che in quel momento non abbisognava di un numero così elevato di risorse.

A ciò si aggiunga che risulta verosimile, nel caso di specie, anche l’esistenza del danno al patrimonio sociale connesso a tale imprudente condotta degli amministratori, così come lamentato dalla ricorrente Fondazione, atteso che la società [Omissis] s.r.l. ha dovuto sostenere dei costi elevati per far fronte ad una simile assunzione di personale, esborsi che, peraltro, non vengono neppure specificamente contestati dai resistenti.

In ragione di ciò, sulla base della valutazione necessariamente sommaria compiuta in questa fase, deve ritenersi che la condotta tenuta dai sig.ri [Omissis] e [Omissis], consistita nell’aver imprudentemente assunto un numero esorbitante di personale dipendente a tempo indeterminato, integri un atto di mala gestio da cui è scaturito un danno al patrimonio sociale, in misura pari ai costi per il personale (circa € 1.650.000,00) sostenuti dalla società.

In sintesi, dunque, il difetto di prudenza, anche minima, ascrivibile ai resistenti, si evince, in maniera plausibile dalla circostanza che, già in occasione della prima delle citate assunzioni “in blocco” di dipendenti, erano assolutamente incerte, a monte, la stessa fattibilità e attuabilità del progetto – la gestione diretta dei primi trenta giorni di malattia in favore degli iscritti alla Fondazione – per cui [Omissis] s.r.l. era stata costituita, atteso che, a quel tempo, la Fondazione aveva sì adottato le due deliberazioni necessarie a dare impulso al progetto e, tuttavia, tali deliberazioni, non erano ancora efficaci, poiché necessitavano dell’autorizzazione da parte dei Ministeri competenti (autorizzazione poi negata da questi ultimi). In definitiva, la scelta organizzativa di assumere un rilevante numero di dipendenti appare, nel caso di specie, compiuta in modo irrazionale e senza una adeguata istruttoria che avrebbe, invece, imposto agli odierni resistenti di valutare lo stato di sostanziale inattività della società e, dunque, di valutare la non necessità di procedere a dette assunzioni.

Tutto ciò, d’altronde, è già stato fatto oggetto di accertamento, sulla base delle prove raccolte, da parte della Corte dei Conti, sez. giurisdizionale per la regione Lazio, che, nell’ord. 127/2018 (doc. all.to 2 all.to al ricorso) di conferma del sequestro conservativo nei confronti degli odierni resistenti, ha statuito che il «depauperamento della società si è verificato per diverse cause quali l’assunzione di personale sovrabbondante rispetto alle esigenze, l’attribuzione di diversi incarichi di consulenza».

Tale accertamento, d’altronde, è valorizzabile nella presente sede, in quanto, come noto, le prove raccolte da altro giudice, poi dichiarato privo di giurisdizione, possono comunque essere valutate dal giudice titolare della giurisdizione come argomenti di prova, ai sensi dell’art. 59 L. 69/2009. Ciò chiarito, si reputa opportuno precisare che a nulla valgono, in questa sede, le difese dei resistenti, che allegano che tutte le scelte in argomento e, soprattutto, di reclutamento del personale compiute in seno alla società de qua sarebbero sempre state preventivamente concordate con tutti gli altri componenti dell’organo amministrativo collegiale, nonché, in ogni caso, previamente autorizzate e, talvolta, addirittura poste in essere in mera esecuzione di quanto stabilito e voluto dallo stesso socio unico, Fondazione [Omissis], oggi ricorrente.

Al riguardo, infatti, va evidenziato – a parte l’ovvia considerazione che gli amministratori sono tenuti, avendone l’obbligo giuridico, a non portare ad esecuzione decisioni prese da altri organi societari che possano cagionare un danno alla società – che, come noto, la disciplina dettata in tema di responsabilità degli amministratori (nel caso di specie, dall’art. 2476 c.c., trattandosi di società a responsabilità limitata), per i danni cagionati alla società, contempla una responsabilità solidale degli amministratori – applicabile anche, per espressa previsione normativa, ai direttori generali – i quali rispondono tutti, pertanto, del proprio operato, produttivo di un danno alla società; a ciò si aggiunga che, per giurisprudenza e dottrina pacifiche, il regime di solidarietà non comporta né il litisconsorzio necessario tra tutti gli obbligati in solido, né, nel merito, che l’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento non possano essere pronunciate anche solo nei confronti di taluno degli amministratori e/o dei direttori generali.

Pertanto, in alcun modo le prospettazioni dei resistenti, facenti leva sull’esistenza di una corresponsabilità degli altri componenti dell’organo di amministrazione e di altri alti dirigenti della società o, addirittura, del socio unico di quest’ultima (ai sensi dell’art. 2476, co. 7, c.c.), per aver deciso o autorizzato il compimento dell’atto dannoso (l’assunzione in misura sproporzionata di dipendenti), impediscono al Giudice di valutare il comportamento tenuto dai resistenti o di pronunciarsi sulla responsabilità di questi ultimi (nella presente sede, peraltro, solo in termini di sussistenza o meno del fumus boni iuris della domanda cautelare), non essendo le condotte dei singoli amministratori (o direttori generali) scriminate per il solo fatto che le scelte gestionali sono state operate in concorso con altri soggetti.

5. Segue. Gli altri addebiti mossi da parte ricorrente.

Ciò posto, la valutazione sommaria sin qui compiuta, non consente, invece, di presumere la fondatezza dell’azione di responsabilità esperita dalla Fondazione [Omissis], subentrata alla [Omissis] s.r.l., con riferimento alle altre condotte illecite asseritamente poste in essere dai sig. [Omissis] e [Omissis], precedentemente descritte.

In particolare, non appare fondata, allo stato, la contestazione secondo cui i resistenti avrebbero cagionato un ingentissimo danno (circa € 2.500,000,00), risarcibile a titolo di lucro cessante da perdita di chance, in capo alla società, a causa della mancata iscrizione di quest’ultima al registro degli intermediari assicurativi e del conseguente mancato avvio dell’attività di intermediazione assicurativa.

L’inconsistenza del fumus in ordine a tale addebito si ricava, in primo luogo, dal fatto che, se è vero che l’attività di intermediazione assicurativa era inclusa, insieme a molte altre, nell’oggetto sociale della [Omissis] s.r.l., è altrettanto vero che non esisteva alcun obbligo, in capo ai resistenti, di curare nell’immediatezza l’iscrizione della società nel citato registro RUI, né tantomeno vi era – o v’è, in generale, in tutte le società – l’obbligo di intraprendere – per di più, nell’immediato – tutte le attività elencate nell’oggetto sociale descritto dallo statuto.

Nella fattispecie concreta, peraltro, per stessa ammissione di parte ricorrente, l’attività principale, in vista della quale [Omissis] s.r.l. era stata costituita, consisteva non nell’attività commerciale di intermediazione assicurativa, bensì nella gestione diretta della polizza primi trenta giorni di malattia in favore degli iscritti, da sostituire, nel più breve tempo possibile, alla polizza collettiva fino a quel momento in essere con Assicurazioni Generali; se ne ricava, dunque, che correttamente i dott.ri [Omissis] e [Omissis] avevano dato priorità all’attività da ultimo citata, temporaneamente accantonando le altre.

Tale circostanza è ulteriormente confermata dal fatto che la [Omissis] s.r.l. era stata progettata, in origine, quale società in house della Fondazione [Omissis] (già Ente di previdenza e assistenza dei [Omissis]), al fine di internalizzare proprio l’attività di gestione diretta dell’assicurazione “primi trenta giorni di malattia”, non anche quale società commerciale avente quale scopo precipuo quello di realizzare lucro mediante l’espletamento di attività di intermediazione assicurativa sul mercato.

Pertanto, l’inserimento nell’oggetto sociale di tale ultima attività non fa automaticamente presumere che la medesima attività, anche ove la società fosse stata subito iscritta al RUI, sarebbe stata esercitata e sarebbe, oltretutto, diventata la principale fonte di ricavo per la società, come invece allegato da parte ricorrente.

Tale ricostruzione risulta, d’altronde, fortemente avvalorata dalla circostanza che, ai sensi dell’art. 108, ultimo comma, del codice delle assicurazioni private, alle società in house di enti pubblici è precluso lo svolgimento sul mercato e, quindi, all’esterno, di attività di intermediazione assicurativa, anche a titolo accessorio.

Ebbene, siccome l’intenzione della Fondazione [Omissis] era proprio quella – per sua stessa allegazione – di dar vita ad una società in house e dal momento che la riconducibilità della [Omissis] s.r.l. al genus dell’organismo di diritto pubblico è stata sconfessata, da ultimo, solo dalla pronunzia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (ord. n. 32608 del 12 dicembre 2019), di declaratoria del difetto di giurisdizione del giudice contabile, è ragionevole ritenere che i sig.ri [Omissis] e [Omissis], nel legittimo e fondato dubbio circa la natura in house della società dai medesimi amministrata, avessero preferito espungere dal novero delle attività della società o, comunque, differire lo svolgimento, dell’intermediazione assicurativa, al fine di evitare problemi di incompatibilità con la disciplina vigente poc’anzi citata.

Pertanto, in relazione al secondo addebito mosso nei confronti dei resistenti, questo deve ritenersi, allo stato, infondato, non essendo emersi, all’esito della valutazione sommaria propria della presente fase cautelare, elementi tali da far ritenere che i dottori [Omissis] e [Omissis] fossero tenuti, per legge o per statuto, a curare l’immediato svolgimento di tale attività.

A quanto detto si aggiunga, infine, che, in ogni caso, non è emersa, dalla valutazione sommaria espletata nella presente sede cautelare, neppure la prova dell’asserito danno, pari a € 2.500.000,00, eziologicamente riconducibile al mancato espletamento della predetta attività.

Parte ricorrente, infatti, avrebbe dovuto dimostrare la verosimile sussistenza del nesso di causalità tra la mancata iscrizione al RUI e il risultato economico diverso (e ben più vantaggioso) che la società avrebbe tratto dall’attività in questione. In altri termini, la Fondazione [Omissis] avrebbe dovuto dimostrare che, qualora i sig.ri [Omissis] e [Omissis] avessero proceduto a richiedere la predetta iscrizione e a questa l’Ivass avesse dato corso (a seguito del controllo sulla effettiva natura o meno di in house della società), a tale adempimento “burocratico” sarebbe verosimilmente conseguito in capo alla società, secondo il criterio del più probabile che non, un guadagno di 2 milioni e mezzo di euro.

Per quanto riguarda, da ultimo, gli altri inadempimenti contestati ai resistenti, ovvero la modifica del codice ATECO e l’emissione di fatture ingiustificate, va osservato che tali comportamenti, quand’anche effettivamente posti in essere, non forniscono alcun elemento apprezzabile ai fini della valutazione del fumus boni iuris del sequestro conservativo richiesto.

Infatti, come detto, il fumus consiste nella verosimile fondatezza dell’azione di merito proposta. Nel caso concreto, l’azione di merito è volta ad accertare le condotte, negligenti e imprudenti, poste in essere dai sig.ri [Omissis] e [Omissis] nell’adempimento del proprio mandato, produttive di danno al patrimonio sociale.

A ben vedere, tuttavia, l’aver modificato il codice ATECO della società, rispetto a quello originariamente previsto e senza previa comunicazione al socio unico, sembra, in primo luogo, una scelta rientrante negli ampi poteri di gestione dell’organo amministrativo; in secondo luogo, poi, non si ravvisano neppure specifici danni allegati dalla ricorrente e subiti dalla società in conseguenza di tale scelta, cosicché sembra profilarsi, al più, una mera irregolarità non produttiva di un danno risarcibile e quindi, in definitiva, non valorizzabile nell’ambito della valutazione sulla presumibile fondatezza di una pretesa risarcitoria della Fondazione [Omissis] nei confronti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis].

Per quanto concerne, invece, la condotta consistita nell’emissione di fatture per prestazioni o servizi mai eseguiti, si tratta di allegazione che appare, allo stato, “neutra”. Infatti, da un lato, questa non aggiunge, ancora una volta, elementi da valutare ai fini della concessione della richiesta misura cautelare, atteso che non si vede come l’emissione di fatture possa, di per sé, porsi quale atto produttivo di un danno al patrimonio della società; d’altro canto, potrebbe invece ipotizzarsi che la Fondazione ricorrente intendesse allegare un danno, anche qui, da mancato guadagno degli importi corrispondenti alle fatture emesse, non riscossi da [Omissis] e [Omissis] nei confronti della stessa Fondazione. Si tratta, tuttavia, di un’impostazione non sostenibile, considerato che è la stessa Fondazione [Omissis], ad altri fini, a censurare il mancato svolgimento di qualsivoglia attività di prestazione di servizi da parte della [Omissis] s.r.l., perciò il mancato incasso, a fronte dell’emissione di quelle fatture, appare giustificato, non avendo la società mai adempiuto le proprie prestazioni, per stessa ammissione di parte ricorrente.

Pertanto, sulla scorta di quanto sin qui evidenziato, si ravvisa il fumus boni iuris dell’invocata tutelare cautelare solo in ordine l’addebito relativo all’imprudente assunzione, da parte dei sig.ri [Omissis] e [Omissis], di un numero eccessivamente elevato di dipendenti rispetto al fabbisogno della società, con tutto ciò che ne è conseguito in termini di perdite al patrimonio societario, quantificabili nella somma di € 1.650.000,00, quale indicata dall’attore.

6. Sul periculum in mora.

Chiarita, nei termini indicati, la sussistenza del fumus boni iuris, occorre esaminare altresì il profilo del periculum in mora.

In proposito, si osserva che, come in precedenza accennato, ai fini della concessione del sequestro conservativo di cui all’art. 671 c.p.c., è sufficiente che ricorra il pericolo, anche non attuale, bensì meramente potenziale o, addirittura, semplicemente astratto (sul punto, si veda Trib. Bari, sent. del 16 novembre 2014), che la perdurante disponibilità, dei beni e dei crediti che compongono la garanzia patrimoniale del creditore, in capo al debitore, titolare dei beni medesimi, pregiudichi le possibilità di soddisfacimento della pretesa creditoria.

In particolare, la giurisprudenza ha reiteratamente chiarito che, in tema di sequestro conservativo, il giudice di merito può far riferimento, alternativamente, tanto a criteri oggettivi – rappresentati dalla capacità patrimoniale del debitore in relazione all’entità del credito, da desumere da elementi concreti ed attuali – quanto soggettivi, quali il comportamento del debitore che lasci fondatamente temere atti di depauperamento del suo patrimonio, senza che, ai fini della validità del provvedimento di convalida, le due categorie di presupposti debbano simultaneamente concorrere potendo il giudice fare alternativamente riferimento all’uno o all’altro dei menzionati presupposti (cfr., Cass., 26 febbraio 1998, n. 2139; ma si vedano, altresì, Cass., 17 giugno 1998, n. 6042, nonché Cass., 13 febbraio 2002, n. 2081 secondo la quale la motivazione del provvedimento di convalida del sequestro conservativo può far riferimento a precisi, concreti fattori tanto oggettivi che soggettivi, poiché il requisito del periculum in mora può essere desunto sia da elementi oggettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore, il quale lasci fondatamente presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti dispositivi, idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio; nella giurisprudenza di merito, Trib. Torre Annunziata, 3 dicembre 2014).

Ebbene, rileva il Tribunale che tale pericolo, anche solo potenziale, di pregiudizio alle accertande ragioni creditorie della Fondazione [Omissis], ricorra nel caso di specie, soprattutto in considerazione dell’elevato importo richiesto a titolo di risarcimento del danno, il che già di per sé rende difficile ipotizzare che tali somme possano utilmente rinvenirsi nel patrimonio del debitore, specie di un debitore persona fisica.

Infatti, anche dalle indagini della Procura Regionale presso la Corte dei Conti, e dagli accertamenti compiuti, in sede cautelare, dalla sez. giurisdizione della Corte dei Conti Regione Lazione prima della declaratoria del difetto di giurisdizione, è emerso che i beni e i crediti che attualmente compongono il patrimonio dei sig.ri [Omissis] e [Omissis] hanno natura tale da poter essere agevolmente dispersi, occultati o, semplicemente, trasferiti a terzi (cfr. ordinanza 127/2018 – all.to 1 al ricorso), circostanza che rafforza il rischio di una diminuzione o addirittura di un azzeramento della garanzia patrimoniale del credito ancora sub iudice.

Ancora, ulteriore elemento oggettivo, apprezzabile nell’ambito della valutazione del periculum in mora, è certamente rappresentato, nella fattispecie concreta, dal fatto che i beni e i crediti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis] sono stati, nel corso del 2019, assoggettati al vincolo di indisponibilità derivante dal sequestro conservativo imposto dalla Corte dei Conti (e che, peraltro, sta per perdere efficacia), che ha impedito ai resistenti di disperdere la garanzia patrimoniale, tenendola “ferma” per un importo addirittura maggiore rispetto a quello che risulterà vincolato con l’esecuzione del presente provvedimento. È pertanto presumibile che i resistenti non abbiano compiuto atti di disposizione del proprio patrimonio perché tali beni erano giuridicamente sottratti alla loro disponibilità; è altrettanto agevole presumere, dunque, che la mancata concessione di un nuovo provvedimento di sequestro conservativo e il recupero della piena disponibilità dei beni e dei crediti da parte dei resistenti, concretizzi il rischio di dispersione di detti beni, rischio che comunque già esiste, come detto, quantomeno in termini di pericolo potenziale.

Va precisato, infine, che la giurisprudenza (ex plurimis Trib. Venezia, sent. del 21 ottobre 2015) ha altresì già chiarito che il decorso di un certo lasso di tempo tra il momento di verificazione dell’illecito e quello della proposizione della domanda cautelare non è, diversamente da quanto dedotto dai resistenti, circostanza di per sé sola idonea ad escludere il requisito del periculum in mora, in quanto la relativa valutazione deve invece tener conto di una pluralità di indici, oggettivi e soggettivi, unitariamente considerati.

7. Conclusioni.

In ragione di quanto sin qui esposto, a modifica del decreto emesso in data [Omissis], deve essere autorizzato il sequestro conservativo richiesto dalla Fondazione [Omissis] su tutti i beni, mobili e immobili, nonché i crediti dei sig.ri [Omissis] e [Omissis], fino a concorrenza dell’importo di € 1.650.000,00, oltre interessi e rivalutazione come per legge.

Trattandosi di procedimento cautelare a carattere strumentale e non anticipatorio, la regolamentazione delle spese di lite va demandata all’apposita sede di merito.

P.Q.M.

1) a parziale modifica del decreto emesso inaudita altera parte in data [Omissis], autorizza la Fondazione [Omissis] ad iscrivere sequestro conservativo su tutti i beni, mobili o immobili, nonché i crediti di cui risultino titolari i sig.ri [Omissis] e [Omissis], fino a concorrenza della somma di €. 1.650.000,00, oltre rivalutazione e interessi nella misura legale;

2) rinvia al giudizio di merito il governo delle spese del presente procedimento cautelare.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti.

Documenti & materiali

Scarica Trib. Roma, Sez. Spec. Impr., 08/04/2020

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