“Privilegio” fondiario, esecuzione immobiliare, fallimento e L.C.A.: il Tribunale di Pesaro fa il punto Trib. Pesaro, ordinanza12/08/2016

By | 06/03/2017

* Il Tribunale di Pesaro ha emesso, nel giugno 2017, una nuova interessante pronuncia sul tema. È possibile consultarla qui.

Il Tribunale di Pesaro con una recente ordinanza resa ex art. 702-ter c.p.c. (Trib. Pesaro, ordinanza 12/08/2016) fa il punto sulla problematica del c.d. “privilegio” riconosciuto al creditore fondiario dal secondo e dal quarto comma dell’art. 41 D. Lgs.  01/09/1993, n. 385 (TUB), secondo cui (2° comma)

«l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari può essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore. Il curatore ha facoltà di intervenire nell’esecuzione. La somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento»,

e (4° comma)

«con il provvedimento che dispone la vendita o l’assegnazione, il giudice dell’esecuzione prevede, indicando il termine, che l’aggiudicatario o l’assegnatario, che non intendano avvalersi della facoltà di subentrare nel contratto di finanziamento prevista dal comma 5, versino direttamente alla banca la parte del prezzo corrispondente al complessivo credito della stessa. L’aggiudicatario o l’assegnatario che non provvedano al versamento nel termine stabilito sono considerati inadempienti ai sensi dell’art. 587 del codice di procedura civile».

Un problema di “se” e di “come”

La norma sopra richiamata assegna al creditore fondiario una posizione differenziata in melius rispetto a quella degli altri creditori, giacché gli consente, da un lato, di iniziare o proseguire l’azione esecutiva individuale anche successivamente al fallimento del debitore – in deroga al divieto generale di compiere un tale tipo di attività posto dall’art. 51 L. Fall.  – e, dall’altro, di ricevere il versamento del prezzo in via anticipata rispetto alla ripartizione finale.

Senonché l’apparente linearità del quadro così delineato si complica allorché ci si interroghi sulla reale natura della posizione del creditore fondiario. Quest’ultima, infatti, nella prassi viene spesso definita “privilegiata” tout court, senza tuttavia approfondire sufficientemente il tema del se tale “privilegio” debba o meno intendersi in senso sostanziale (attribuendo, dunque, al creditore fondiario un’effettiva posizione  di preferenza rispetto agli altri creditori, in deroga alla gerarchia delle cause di prelazione ex art. 2741 c.c.), nonché del come la previsione in parola possa contemperarsi con il principio di  esclusività della verifica fallimentare sancito dall’art. 52, 2° e 3° co., L. Fall., secondo cui, una volta aperta la procedura concorsuale,

«ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, primo comma, n. 1), nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge.

Le disposizioni del secondo comma si applicano anche ai crediti esentati dal divieto di cui all’articolo 51».

Il che, nella pratica forense, apre la strada ad atteggiamenti di dubbia legittimità (ed anzi, come si vedrà in seguito, effettivamente illegittimi) da parte dei creditori fondiari, i quali sovente tendono a trattenere l’intero quantum ricavato dall’esecuzione individuale, senza curarsi di verificare se in sede fallimentare vi siano creditori ad essi potiori (si pensi ai prededucibili) e/o senza curarsi di proporre insinuazione al passivo fallimentare.

In tale situazione interviene il precedente pesarese in commento, che si connota per la chiarezza e sinteticità con le quali riassume lo stato giurisprudenziale in materia, soggiungendo un’ulteriore interessante precisazione circa l’applicabilità della normativa sopra riassunta in caso di liquidazione coatta amministrativa (LAC).

“Privilegio fondiario” e fallimento: stato dell’arte

Cominciamo, dunque, a ripercorrere l’iter argomentativo proposto dall’ordinanza de qua, a partire da quello che è il problema che sopra si è definito come quello del “se” e che che attiene alla natura del c.d.  “privilegio” riconosciuto al creditore fondiario dal citato art. 41 TUB.

Si tratta di un tema che riveste natura assorbente, posto che, riconosciuta una valenza di tipo sostanziale al c.d. “privilegio” in questione, la posizione del  creditore fondiario potrebbe con qualche ragione ritenersi prevalente rispetto a quella degli altri creditori che, in difetto di tale particolare posizione privilegiata,  gli sarebbero astrattamente preferiti e/o tale particolare creditore potrebbe forse ritenersi finanche esentato dall’onere di fare valere le proprie ragioni in sede fallimentare, prevalendo egli, per il solo fatto della particolare natura del proprio credito, sugli altri soggetti concorrenti al riparto.

Natura processuale del privilegio e provvisorietà dell’assegnazione al fondiario

Sul punto in questione  il provvedimento in esame fa proprio un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, secondo il quale l’art. 41 TUB cit.

«nel consentire all’istituto di credito fondiario di iniziare o proseguire l’azione esecutiva nei confronti del debitore dichiarato fallito, configura un privilegio di carattere meramente processuale» e non, viceversa, di natura sostanziale.

L’affermazione è ormai tralaticia in giurisprudenza: si vedano, ad es., oltre all’ordinanza in commento, le pronunce di  Cass. Civ., Sez. I,  17/12/2004, n. 23572, Cass. Civ., Sez. I, 28/05/2008, n.13996, Cass. Civ., Sez. I, 11/10/2012, n. 17368, Trib. Monza, Sez. III, 13/04/2015.

Tale privilegio processuale attribuisce al creditore fondiario, da un lato, la possibilità di iniziare/proseguire l’esecuzione forzata anche in concomitanza del fallimento del debitore, e dall’altro quella di poter ricevere immediatamente le somme ricavate dalla vendita del bene e poterle legittimamente ritenere nonostante l’esistenza della procedura fallimentare.

Ma ciò non significa affatto che il creditore fondiario possa trattenere a titolo definitivo e per intero le somme in questione. E ciò proprio per i limiti strutturali del “privilegio” attribuitogli dal citato art. 41 TUB, la cui natura «meramente processuale» lo rende pacificamente inidoneo a  derogare a al principio di esclusività della verifica fallimentare posto dall’art. 52 L. Fall.

La sede fallimentare, dunque, resta in tal modo l’unica sede deputata a discutere dei profili – sostanziali – afferenti natura, rango e collocazione del credito fondiario ed è solo in tale sede che potrà/dovrà stabilirsi se e in che misura il creditore fondiario possa ritenere le somme provvisoriamente attribuitegli nel corso della procedura esecutiva individuale.

Infatti, come puntualmente riportato nell’ordinanza del Tribunale di Pesaro in parola (con affermazione anch’essa ormai divenuta tralaticia in giurisprudenza),

«all’assegnazione della somma disposta nell’ambito della procedura individuale deve riconoscersi carattere provvisorio, essendo onere dell’istituto di credito fondiario, per rendere definitiva la provvisoria assegnazione, di insinuarsi al passivo del fallimento, in modo tale da consentire la graduazione dei crediti, cui è finalizzata la procedura concorsuale».

E ciò, si badi, anche nell’ipotesi in cui la curatela sia intervenuta, come può, nella procedura esecutiva individuale: non può infatti ritenersi che le garanzie di par condicio a presidio delle quali è posta la legge fallimentare possano essere assicurate «nell’ambito della procedura individuale, dall’intervento del curatore fallimentare».

L’onere di restituzione delle somme provvisoriamente apprese

Così ricostruita la situazione, ne viene che la possibilità per il creditore fondiario di ritenere in via definitiva le somme percette in fase esecutiva, o almeno parte delle stesse, è sottoposta a diverse condizioni, quali l’avvenuta insinuazione del credito fondiario al passivo del fallimento, il riconoscimento, in sede di esame dello stato passivo fallimentare, del diritto di prelazione richiesto, l’inesistenza di creditori comunque prevalenti rispetto  al creditore fondiario stesso (primi tra tutti i prededucibili).

Dunque, laddove una o più delle condizioni sopra riportate non si verifichino, il creditore fondiario non solo non  potrà ritenere le somme provvisoriamente ricevute nel corso della procedura individuale, ma dovrà restituirle.

E lo dovrà fare in parte, come nel caso in cui, soddisfatti i creditori potiori, sopravanzi comunque un residuo che possa essere legittimamente trattenuto,  o anche per l’intero, come, ad es., nell’ipotesi di presenza in sede fallimentare di crediti  potiori il cui importo assorba tutto il  ricavato dell’esecuzione individuale; o in quella in cui il creditore fondiario non abbia tempestivamente coltivato l’insinuazione al passivo del fallimento del debitore; ovvero in quella in cui il credito sia stato dichiarato chirografario  in sede fallimentare (fattispecie, quest’ultima, esaminata dall’interessante precedente di Cass. Civ., Sez. I, 21/03/2014, n. 6738, che ha precisato come, in tale ipotesi, la collocazione chirografaria in sede fallimentare precluda quella ipotecaria «del medesimo credito nel progetto di distribuzione del ricavato predisposto dal giudice dell’esecuzione»).

Circostanze, queste ultime, che sarà, peraltro, onere del curatore provare nel giudizio in cui si chieda la restituzione di quanto si assuma indebitamente percetto dal fondiario; in tali termini Cass. Civ., Sez. I,  17/12/2004, n. 23572, secondo la quale

«ove l’insinuazione sia avvenuta, il curatore che pretenda in tutto o in parte la restituzione di quanto l’istituto di credito fondiario ha ricavato dalla procedura esecutiva individuale ha l’onere di dimostrare che la graduazione ha avuto luogo e che il credito dell’istituto è risultato, in tutto o in parte, incapiente».

Poteri del giudice dell’esecuzione

Venendo a trattare del rapporto tra il giudice dell’esecuzione forzata e la procedura fallimentare la decisione assunta dalla Suprema Corte nel caso esemplificato al paragrafo precedente (Cass. Civ. 6738/2014 cit., relativa ad una ipotesi in cui il credito fondiario era stato degradato a chirografo in sede fallimentare), preclude di fatto al G.E. ogni valutazione in ordine a natura e graduazione del credito fatto valere in via fondiaria rilevando espressamente che

«al Giudice dell’esecuzione non compete un autonomo potere di graduazione dei crediti, difforme dalla collocazione che questi hanno assunto nella procedura fallimentare»

e ciò in quanto il credito fondiario, dichiarato chirografo (per le più diverse ragioni, comprese quelle di natura formale, afferenti, ad esempio, alla prova della propria posizione) in sede fallimentare, una volta divenuto esecutivo lo stato passivo «non può mutare la sua collocazione anche quando prosegue nell’esecuzione individuale, in forza del privilegio processuale».

Al G.E., è  inoltre inibito, oltre che di graduare il credito fondiario in modo autonomo rispetto a quanto avvenuto in sede fallimentare, anche di provvedere, in sede di ripartizione ad una vera e propria assegnazione di somme in favore di tale creditore.

Ciò è quanto stabilito dal Tribunale di Monza (Trib. Monza, Sez. III, 13/04/2015), nel valutare un caso di frequente verificazione nella prassi, ove i giudici dell’esecuzione fondiaria, al momento dell’adozione dei provvedimenti di riparto finale ex art. 512 c.p.c., pronunziano non di rado ordinanze in cui si limitano ad assegnare sic et simpliciter il ricavato ai creditori assistiti dal relativo “privilegio” senza null’altro specificare ed in tal modo determinano quantomeno l’apparenza formale di un provvedimento di assegnazione avente natura definitiva e non solo provvisoria, in base alla quale, poi, i predetti creditori fondiari spesso assumono atteggiamenti di resistenza rispetto alle richieste di restituzione dell’eventuale surplus.

Nella fattispecie sottoposta al Tribunale di Monza il G.E. aveva assunto un provvedimento del genere sopra indicato e la curatela fallimentare aveva proposto opposizione agli atti esecutivi (cui l’istituto di credito coinvolto aveva resistito), chiedendo che l’assegnazione pronunziata dal G.E. venisse espressamente

«qualificata come attribuzione a titolo meramente provvisorio in attesa del riparto fallimentare laddove sarà effettuata la graduazione dei crediti; con conseguente diritto in capo al fallimento ad ottenere la restituzione, al momento in cui sarà effettuato il riparto fallimentare, della somma che risultasse ricevuta in eccedenza dal creditore fondiario in sede esecutiva».

All’esito del giudizio, il Tribunale, premessi i sopra ricordati concetti della prevalenza della procedura fallimentare su quella esecutiva e della natura provvisoria dell’attribuzione al fondiario delle somme ricavate nel corso della seconda, ha significativamente aggiunto che, in virtù di dette premesse

«il giudice dell’esecuzione non può attribuire definitivamente al creditore fondiario il ricavato della procedura, ma, esclusivamente, assegnare allo stesso “la somma ricavata dall’esecuzione” nei limiti del credito garantito dall’ipoteca»,

Secondo il Tribunale, infatti, soltanto in sede fallimentare l’attribuzione provvisoriamente pronunciata in sede esecutiva potrà divenire «definitiva e si dovrà scegliere se agire eventualmente per la restituzione di quanto, in ipotesi, l’istituto di credito abbia ottenuto in eccedenza in sede esecutiva».

Effetti dello stato passivo sull’esecuzione individuale

Le affermazioni da ultimo svolte comportano la necessità di un cenno anche all’ulteriore tematica dell’efficacia dello stato passivo fallimentare.

Tale atto, infatti, come noto è destinato a riverberare effetti preclusivi solo endoprocedurali, restando per converso neutro al di fuori del fallimento cui inerisce. Senonchè, seguendo l’impostazione sopra riassunta, esso finisce invece di fatto con il condizionare anche le valutazioni di una procedura diversa da quella fallimentare (i.e. quella esecutiva).

In merito, la Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. I, 09/06/2011, n. 12638) ha risolto la discrasia, mantenendo ferma la premessa generale secondo la quale

«l’accertamento dei diritti dei creditori conseguente al decreto di esecutività emesso ex art. 97 legge fall. dal giudice delegato non ha valore di giudicato al di fuori del fallimento, in quanto detto provvedimento ha effetto preclusivo soltanto durante la procedura fallimentare»,

ma soggiungendo altresì che, durante tale procedura

«non possono essere proposte dal creditore e dal debitore, ad un giudice diverso da quello fallimentare, le questioni riconducibili al credito ammesso al passivo, come pure alla validità ed opponibilità del titolo da cui esso deriva».

In sostanza, dunque, il riflesso esoprocedurale dello stato passivo sull’esecuzione individuale sembra non passare direttamente  attraverso il provvedimento stesso, i cui effetti sono e restano circoscritti nell’ambito del fallimento, ma tramite l’imposizione di una preclusione processuale a carico delle parti in detto provvedimento contemplate, che, come tali, sono destinate a restare vincolate dal tenore dello stesso.

Rimedi contro i provvedimenti del G.E. non conformi a quanto sopra

Accertato, quindi, che, quando entra in gioco il rapporto tra esecuzione “fondiaria” e fallimento, il G.E. della prima procedura perde i propri poteri decisori relativamente a qualificazione e rango del particolare tipo di credito in esame e che egli non può neppure assegnare in senso proprio le somme provvisoriamente percette dal creditore fondiario, il passo successivo è stabilire quali siano i rimedi esperibili avverso i provvedimenti che si pongano eventualmente in contrasto con i principi sopra riportati.

La soluzione è offerta dal combinato disposto testuale degli articoli 598 e 512 c.p.c., il quale, in difetto di approvazione del progetto di distribuzione predisposto ex art. 596 c.p.c., prescrive che il giudice dell’esecuzione provveda alla ripartizione con ordinanza impugnabile ex art. 617, 2° co. c.p.c., cioè a dire con l’opposizione agli atti esecutivi.

E’ bene, in proposito, rilevare che la conclusione appena tratta presuppone che la  curatela abbia preliminarmente posto in essere alcune attività, quali l’intervento nella procedura esecutiva individuale, la partecipazione all’udienza fissata per l’approvazione del progetto di distribuzione, la manifestazione, in tale sede, delle necessarie doglianze relative al trattamento previsto per il credito fondiario, la tempestiva proposizione, infine, dell’opposizione ex art. 617, 2° co., c.p.c. avverso l’ordinanza del G.E. eventualmente non conforme alle richieste avanzate.

Senonché quid, allorquando uno di tali presupposti manchi? Che succede, cioè, laddove il curatore non intervenga nell’esecuzione, ovvero ivi ometta di svolgere attività difensive, ovvero, infine ometta di proporre opposizione ex art. 617. 2° co., c.p.c. e il G.E. provveda all’assegnazione al creditore fondiario de plano?

In mancanza di precedenti rinvenuti nella specifica ipotesi di esecuzione fondiaria che qui si sta esaminando, ci si può però rifare ad un precedente della Corte di Appello di Genova (C. App. Genova, Sez. III, 15/01/2014, n. 40), secondo il quale

«in tema di esecuzione forzata, il provvedimento che chiude il processo esecutivo, pur non avendo per la mancanza di contenuto decisorio efficacia di giudicato, è tuttavia caratterizzato da una definitività insita nella chiusura di un procedimento esplicato nel rispetto delle forme atte a salvaguardare gli interessi delle parti, incompatibile con qualsiasi sua revocabilità, atteso che nell’ambito del procedimento esecutivo sussiste un sistema di garanzie di legalità per la soluzione di eventuali contrasti tra le parti».

Ne consegue, prosegue il provvedimento appena citato, che

«il soggetto esecutato che non si sia avvalso dei rimedi oppositivi specificatamente previsti nell’ambito del procedimento esecutivo (in particolare, dell’opposizione ex art. 512 cpc avverso all’ordinanza di assegnazione della somma, conseguente alla conversione del pignoramento) non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, autonoma azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente (o intervenuto), per ottenere la restituzione di quanto costui ha riscosso, sui presupposto dell’illegittimità dell’esecuzione forzata per ragioni sostanziali».

Conclusione quest’ultima che, pur lasciando spazio a qualche perplessità (la citata carenza, in capo al G.E. di qualsiasi potere valutativo effettivo – e per converso l’attribuzione al solo G.D. di qualsivoglia autorità – , sembrerebbero svuotare di contenuto l’effetto preclusivo cui si riferisce la Corte genovese), suggerisce comunque l’opportunità, per la curatela, di azionarsi tempestivamente sin dalla sede esecutiva.

Ricapitolando

Ricapitolando, l’excursus in tema di “privilegio” fondiario che si è sin qui svolto può sintetizzarsi come segue:

  • il principio di esclusività della verifica fallimentare non è in alcun modo derogato dall’art.  41 TUB, il quale configura, in capo al creditore fondiario, un “privilegio” di natura meramente processuale in favore del creditore;
  • tale natura comporta che l’attribuzione al creditore fondiario delle somme ricavate dall’esecuzione sia solo provvisoria;
  • la sede fallimentare è l’unica deputata alla valutazione del concorso tra il creditore fondiario e gli altri creditori e, dunque, a stabilire, tramite la graduazione contenuta nello stato passivo, in quale parte le somme provvisoriamente incassate dal primo potranno essere definitivamente trattenute e in quale parte esse dovranno viceversa essere riversate alla curatela;
  • al fine di poter legittimamente ritenere in via definitiva le somme provvisoriamente percepite in fase esecutiva:
    • il creditore fondiario deve comunque essersi insinuato (con successo) al passivo fallimentare;
    • la somma ricavata dall’esecuzione individuale deve poter essere integralmente destinata al soddisfacimento del suo credito, senza pregiudizio dei creditori insinuati al passivo che debbano essergli preferiti;
  • il G.E. è privo di poteri valutativi circa rango e collocazione del credito fondiario e/o di assegnazione in senso proprio a quest’ultimo delle somme ricavate dall’esecuzione, poteri che sono riservati al G.D. nell’ambito delle decisioni da egli assunte nel corso della verifica dello stato passivo;
  • avverso le decisioni del G.E. che si pongano eventualmente in contrasto con i principi sopra esposti è possibile esperire il rimedio dell’opposizione ex art. 617, 2° co., c.p.c.

Rapporti tra esecuzione “fondiaria” e LCA

Da ultimo, l’ordinanza pesarese che ha offerto lo spunto ricostruttivo della materia in esame, affronta un ulteriore snodo, consistente nello stabilire se i principi sopra espressi possano essere considerati applicabili, oltre che nell’ipotesi di fallimento, anche in quella di liquidazione coatta amministrativa.

La risposta dell’ordinanza de qua a tale domanda è negativa sulla base della norma contenuta nell’art. 3 L. 17/07/1975, n. 400, a mente del quale

«dalla data del provvedimento di liquidazione coatta di uno degli enti di cui all’articolo 1 della presente legge, sui beni compresi nella liquidazione, non può essere iniziata o proseguita alcuna azione esecutiva individuale anche se prevista ed ammessa da leggi speciali in deroga del disposto dell’articolo 51 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, né possono acquistarsi diritti di prelazione sopra i beni mobili dell’ente né  iscriversi ipoteche per causa o titolo anteriori alla data del provvedimento di liquidazione».

Su tale premessa, dunque, appare piuttosto evidente che il divieto di azioni esecutive individuali vige, nel caso di LCA, anche per il creditore fondiario, il quale non potrà, pertanto, contrariamente a quanto avviene in caso di fallimento, né iniziarle, né proseguirle.

Ciò premesso, la domanda successiva è: che accade se la liquidazione coatta amministrativa intervenga dopo che il creditore fondiario abbia già proceduto all’incasso a titolo provvisorio di somme ricavate dall’esecuzione individuale (il che è esattamente quanto avviene nel caso deciso dall’ordinanza in commento)?

Secondo il Tribunale di Pesaro, in tale ipotesi

«quel pagamento, non trovando più alcuna giustificazione e sostegno nell’art. 41 TUB, resta privo di effetti, con la conseguenza che l’intera somma ricevuta dalla banca deve essere restituita alla procedura, per la successiva distribuzione in sede concorsuale; viene infatti meno anche il privilegio di carattere processuale che consente alla banca di vedersi “anticipare”, a titolo provvisorio, le somme dovute, trovando quel privilegio la propria ragione unicamente nell’art. 41 TUB».

Documenti & materiali

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Leggi l’articolo “Privilegio” fondiario: il Tribunale di Pesaro conferma il proprio orientamento

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