Patto di non concorrenza del lavoratore: limiti di legittimità e misura del corrispettivo Cass. Civ., Sez. Lav., 26/05/2020, n. 9790

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CASS. CIV., SEZ. LAV., 26/05/2020, N. 9790

«Le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi esportazione presso imprese concorrenti del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti.

In tale contesto, l’art. 2125 c.c. si preoccupa di tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter dirigere la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti, prevedendo che esse debbano essere subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato, a pena della loro nullità

Dunque, per valutare la legittimità dell’estensione oggettiva di tali clausole – in assenza di specifiche indicazioni da parte dell’art. 2125 c.c. cit. – si deve aver riguardo all’attività del prestatore di lavoro, non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo, dovendo aversi riguardo all’attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, ovvero al mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato.

Il patto in questione, pertanto, può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro (in funzione di tutela della libertà di concorrenza che costituisce, da un lato, espressione della libertà di iniziativa economica e persegue, dall’altro, la protezione dell’interesse collettivo, impedendo restrizioni eccessive della concorrenza) e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ricorrendone la nullità allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale.

Infine, con particolare riferimento all’ammontare e alla congruità del corrispettivo dovuto in caso di patto di non concorrenza, devesi altresì rilevare che l’espressa previsione di nullità, contenuta nell’art. 2125 c.c., va riferita alla pattuizione di compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato» (Massima non ufficiale)

RILEVATO CHE:

1. con sentenza n. [Omissis] depositata il [Omissis], la Corte di appello di [Omissis], confermando la pronuncia del Tribunale della medesima sede, ha accolto la domanda di [Omissis] s.p.a. di pagamento del corrispettivo per violazione del patto di non concorrenza stipulato con [Omissis], dipendente con mansioni di private banker del Banco [Omissis] s.p.a. (successivamente incorporato da [Omissis] s.p.a.) che, a seguito di dimissioni del 30.5.2008, aveva prestato attività lavorativa presso un istituto di credito concorrente, operando con la clientela facente parte del portafoglio clienti di [Omissis] s.p.a.;

2. la Corte distrettuale, esclusa la formazione di giudicato sull’accertamento della violazione del patto di non concorrenza per acquisita esecutività del decreto ingiuntivo n. [Omissis] (conseguita alla declaratoria di inammissibilità dell’opposizione proposta da soggetto non legittimato) in quanto avente ad oggetto il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, ha ritenuto valido il patto avendo lo stesso riguardato la medesima zona ([Omissis]), la medesima clientela e i medesimi generi di prodotti per i quali era stato stipulato il contratto di lavoro, avendo limitazione temporale ai tre anni successivi alla cessazione del rapporto e prevedendo la corresponsione di un adeguato compenso, dovendo escludersi, inoltre, che il mutamento di assetto aziendale (incorporazione del Banco [Omissis] nel gruppo [Omissis]) potesse incidere sull’efficacia del patto stesso;

3. avverso detta sentenza la [Omissis] propone ricorso affidato a otto motivi e la Banca resiste con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO CHE:

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c. nonché dell’art. 1460 c.c. con riferimento alla definitiva esecutorietà ex art. 654 c.p.c. del decreto ingiuntivo n. [Omissis] (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) avendo, la Corte territoriale, escluso rilevanza di cosa giudicata esterna alla statuizione di condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso a carico del datore di lavoro in quanto dovuta ex art. 2119 c.c., atteso che la ragione di fatto e di diritto sottostante detta condanna era prima facie riconducibile (in base al petitum sostanziale di cui al ricorso per decreto ingiuntivo e alla causa petendi del successivo giudizio di opposizione) al grave inadempimento dell’Istituto bancario ai propri obblighi comportamentali che avevano costituito motivo di dimissione da parte della [Omissis], inadempimento che paralizzava l’azionabilità del patto di non concorrenza per effetto dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.;

2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2125 c.c. in relazione all’art. 1421 c.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte territoriale, trascurato di verificare i limiti di oggetto, tempo e luogo posti dal patto di non concorrenza con specifico riferimento alla maturata professionalità e alle mansioni svolte dalla [Omissis] che aveva svolto la propria attività esclusivamente nell’ambito del private banker. Affidato al mero arbitrio della banca risultava poi l’ambito territoriale di efficacia del patto, individuato dalle regioni ove la stessa avesse prestato attività lavorativa per almeno un mese;

3. con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 410 e 413 c.p.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente disatteso l’eccezione di improcedibilità del ricorso (in opposizione a decreto ingiuntivo) per mancato esperimento del tentativo di conciliazione, essendosi limitata, [Omissis] s.p.a. a produrre verbale negativo di mancata comparizione della [Omissis] all’Assessorato per il lavoro della Regione [Omissis], in palese violazione del criterio di collegamento territoriale con il luogo di attività del dipendente;

4. con il quarto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in tema di presupposizione in relazione all’art. 1467 c.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) avendo, la Corte distrettuale trascurato che l’assetto societario del datore di lavoro era condizione non esternata del patto di non concorrenza e che, dunque, la successiva fusione tra Banco [Omissis] s.p.a. e [Omissis] s.p.a. ha radicalmente stravolto l’originario assetto sinallagmatico, proiettando la [Omissis] in una dimensione lavorativa del tutto nuova con aggravamento dell’impegno professionale originariamente assunto;

5. con il quinto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1384 e 1322 c.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale escluso di ridurre la penale prevista nel patto di non concorrenza (pari al doppio del corrispettivo percepito dalla [Omissis] per l’astensione da condotte concorrenziali) per assenza di allegazione e prova sulle condizioni di iniquità della clausola penale, atteso che detto profilo poteva essere sollevato d’ufficio e conseguiva alla fusione per incorporazione delle due Banche;

6. con il sesto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., artt. 1218,2125, 2712 e 2719 c.c., art. 24 Cost. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente escluso la tardività della produzione degli originali dei documenti da parte di [Omissis] nonostante la contestata conformità delle copie (depositate dalla Banca all’atto della costituzione) agli originali (depositate, sempre dalla Banca, a seguito di ordinanza adottata dal Tribunale all’udienza del [Omissis]);

7. con il settimo motivo si deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) avendo, la Corte distrettuale, basato la decisione su documenti prodotti in copia dei quali, per stessa ammissione della banca, non è stato possibile acquisire gli originali;

8. con l’ottavo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) avendo, la Corte distrettuale, compensato le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio senza tener conto della soccombenza della banca in relazione all’opposizione a decreto ingiuntivo e all’opposizione all’esecuzione;

9. il primo motivo di ricorso non è fondato, avendo la sentenza impugnata rilevato, conformemente al giudice di primo grado, che il patto di non concorrenza non formava oggetto di giudicato, neppure implicito, avendo ad oggetto – come risulta altresì dal contenuto del ricorso per decreto ingiuntivo riprodotto in ricorso – l’indennità di mancato preavviso sul presupposto della sussistenza della giusta causa di dimissioni dell’agente ed avendo acquisito, il decreto ingiuntivo opposto, definitiva esecutività a seguito di declaratoria di inammissibilità dell’atto di opposizione per difetto di legittimazione attiva dell’opponente (Banco [Omissis] s.p.a.);

10. questa Corte ha affermato che il corrispettivo del patto di non concorrenza di cui all’art. 2125 c.c., che non ha natura risarcitoria ma costituisce il corrispettivo di un’obbligazione di “non facere”, ancorché erogato in vista della cessazione del rapporto, non è finalizzato ad incentivare l’esodo del lavoratore, né costituisce una erogazione che “trae origine dalla predetta cessazione”, avendo piena autonomia causale rispetto alla fine del rapporto, che è mera occasione del patto (Cass. n. 16489 del 2009; nello stesso senso Cass. n. 6618 del 1987);

11. non può, pertanto, ritenersi formato alcun giudicato su questioni (indennità di mancato preavviso per dimissioni sorrette da giusta causa e patto di non concorrenza) aventi una loro individualità e autonomia, tali da integrare decisioni del tutto indipendenti;

12. il secondo motivo non è fondato avendo questa Corte affermato che le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.), trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle imprese concorrenti e che l’art. 2125 c.c. si preoccupa di tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter dirigere la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti, prevedendo che esse debbano essere subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato, a pena della loro nullità (cfr. da ultimo Cass. n. 24662 del 2014);

13. in questa prospettiva ricostruttiva, è stato altresì affermato che con riguardo all’estensione dell’oggetto delle clausole di non concorrenza – in assenza di specifiche indicazioni da parte dell’art. 2125 c.c. – si deve aver riguardo all’attività del prestatore di lavoro, non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo, dovendo aversi riguardo all’attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, ovvero al “mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato” (cfr. Cass. n. 988 del 2004; Cass., n. 7141 del 2013);

14. invero, il patto di non concorrenza, previsto dall’art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro (in funzione di tutela della libertà di concorrenza che costituisce, da un lato, espressione della libertà di iniziativa economica e persegue, dall’altro, la protezione dell’interesse collettivo, impedendo restrizioni eccessive della concorrenza) e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ricorrendone la nullità allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale (cfr. Cass. n. 13282 del 2003; Cass. n. 25147 del 2017);

15. le attività economiche da considerare in concorrenza tra loro, ai fini e per gli effetti di cui all’art. 2125 c.c., vanno identificate in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi e/o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato;

16. con particolare riferimento all’ammontare e alla congruità del corrispettivo dovuto in caso di patto di non concorrenza, è stato altresì precisato che l’espressa previsione di nullità, contenuta nell’art. 2125 c.c., va riferita alla pattuizione di compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato (cfr. Cass. n. 7835 del 2006);

17. correttamente la Corte territoriale, con motivazione immune da censure e logicamente motivata, ha accertato la conformità della pattuizione al dettato codicistico valorizzando adeguatamente, nella previsione negoziale, la delimitazione del divieto di operare nell’unico settore rappresentato dal “private banking” e per i medesimi generi di prodotti per i quali aveva operato presso [Omissis] s.p.a. con la medesima clientela, la limitazione dell’ambito territoriale (concernente la regione [Omissis]) e cronologico (3 anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro), la previsione di un adeguato compenso” (pari a Euro 7.500,00 annui per tutta la durata del rapporto di lavoro, regolarmente versati da [Omissis] s.p.a.);

15. va ancora aggiunto che il motivo con il quale appare censurato l’erroneo apprezzamento, da parte della Corte territoriale, della specifica professionalità vantata dalla [Omissis], risulta inammissibile nella parte in cui si risolve, al di là della sua formale prospettazione come vizio di violazione di legge, in una sostanziale richiesta di riesame del merito della causa, attraverso una valutazione delle risultanze processuali, diversa e contrapposta a quella operata dal giudice del gravame nell’esercizio della discrezionalità ad esso riservata;

16. il terzo motivo di ricorso non è fondato avendo, questa Corte, affermato che ai fini dell’espletamento del tentativo di conciliazione (che, ex art. 412 c.p.c. ratione temporis applicabile, costituisce condizione di procedibilità della domanda) è sufficiente, in base a quanto disposto dall’art. 410-bis c.p.c., la presentazione della richiesta all’organo istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro, considerandosi comunque espletato il tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere dall’avvenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte (Cass. n. 967 del 2004; Cass. n. 16452 del 2013), e a fronte della insufficienza del richiamo, da parte del ricorrente, del luogo di svolgimento dell’attività lavorativa quale criterio di radicamento della competenza per territorio ove comparato con i molteplici fori, concorrenti ed alternativi, dettati dall’art. 413 c.p.c.;

17. il quarto ed il quinto motivo sono inammissibili posto che l’accertamento in fatto dell’asserita sproporzione tra le reciproche prestazioni verificatasi a seguito di incorporazione del Banco [Omissis] s.p.a. in [Omissis] s.p.a. nonché dell’iniquità della clausola penale (elementi posti a base dell’invocata risoluzione del patto di non concorrenza per eccessiva onerosità e della riduzione della penale pattuita) è riservato al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità nei limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile alla fattispecie nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 e interpretato nei limiti del c.d. minimo costituzionale dalle Sezioni Unite (sentenza n. 8053 del 2014), nel caso di specie vizio motivazionale non invocabile per la pronuncia “doppia conforme”;

18. nella specie, la Corte distrettuale ha rilevato che “non vi è prova che le parti avessero pattuito il venir meno del patto in caso di mutamento dell’assetto aziendale, né si comprende quale aggravamento dell’impegno assunto dalla [Omissis] può essere derivato dalla incorporazione della Banco [Omissis] nel gruppo [Omissis]. Il patto era infatti delimitato allo svolgimento delle medesime mansioni presso l’odierna appellata ([Omissis]), di conseguenza l’aumento della compagine sociale non determina alcun aggravamento delle condizioni del patto medesimo” ed ha aggiunto che le condizioni di iniquità della penale “avrebbero dovuto essere espressamente allegate e dimostrate nel giudizio di primo grado” nel rispetto del sistema di preclusioni e decadenze che caratterizza il processo del lavoro e dei limiti di esercizio dei poteri d’ufficio del giudice consentiti con riferimento ai fatti allegati dalle parti;

19. la censura che invoca l’utilizzo del potere di limitazione della penale è infondata, condividendo, questo Collegio, l’orientamento più volte ribadito da questa Corte secondo cui il potere che il giudice può esercitare d’ufficio ai sensi dell’art. 1384 c.c. è subordinato all’assolvimento degli oneri di allegazione e di prova, incombenti sulla parte, in riferimento alle circostanze rilevanti per la valutazione della eccessività della penale, che deve risultare “ex actis” ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, senza che egli possa ricercarlo d’ufficio (cfr. Cass. n. 22747 del 2017 e Cass. n. 23272 del 2010), e rilevando, inoltre, che il ricorrente non ha richiamato alcun atto dal quale emergeva una specifica contestazione dell’importo previsto nella clausola di non concorrenza;

20. il sesto motivo è inammissibile risolvendosi in una richiesta di nuova valutazione del materiale istruttorio preclusa in sede di legittimità; invero, la Corte distrettuale ha rilevato che l’ordine del Tribunale (rivolto alla banca) “di produzione degli originali dei documenti è scaturito da una specifica contestazione delle copie originariamente prodotte dalla banca e dalla necessità per la banca di confutare i rilievi formulati dalla sig.ra [Omissis] in merito ai documenti depositati con la memoria difensiva e alle circostanze ivi allegate” ed ha poi aggiunto che “dai documenti prodotti è emerso che la [Omissis] ha prestato attività lavorativa presso un istituto di credito concorrente ed ha operato con la clientela facente parte del portafoglio clienti di [Omissis] “, con ciò operando, al pari del giudice di primo grado, una valutazione del materiale probatorio;

21. questa Corte ha affermato che in tema di prova documentale, il disconoscimento, ai sensi dell’art. 2719 c.c., della conformità tra una scrittura privata e la copia fotostatica, prodotta in giudizio non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata, previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 1, n. 2, in quanto, mentre quest’ultimo, in mancanza di verificazione, preclude l’utilizzabilità della scrittura, la contestazione di cui all’art. 2719 c.c. non impedisce al giudice di accertare la conformità della copia all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (Cass. n. 14950 del 2018); la doglianza della ricorrente si sostanzia, dunque, nella esposizione di una lettura delle risultanze probatorie diversa da quella data dal giudice del primo grado e del gravame e nella richiesta di un riesame di merito del materiale probatorio, inammissibile in questa sede di legittimità;

22 il settimo motivo è inammissibile operando la modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia “doppia conforme”, posto che l’art. 348 ter c.p.c., comma 5, prescrive che la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1 si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, con la conseguenza che il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme;

23. nel caso di specie, per l’appunto, la Corte distrettuale ha confermato la statuizione del Tribunale che aveva rinvenuto la legittimità del patto di non concorrenza stipulato tra Banco [Omissis] e la [Omissis] nonché l’attività posta in essere dalla [Omissis] in diretta concorrenza con quella di [Omissis] (incorporante il Banco [Omissis]) nell’arco del triennio successivo alle dimissioni, né il ricorrente in cassazione ha indicato la eventuale diversità delle ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello principale (Cass. n. 5528 del 2014);

24. l’ottavo motivo è inammissibile sia con riguardo all’archetipo motivazionale prescelto dal ricorrente (in quanto, trattandosi di dedotta violazione di norma sostanziale e non processuale, il vizio doveva essere prospettato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), sia con riguardo al sollecitato profilo di rivalutazione della regolazione delle spese di lite, avendo questa Corte affermato che la valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Cass. n. 30592 del 2017);

25. nel caso di specie, le parti risultano parzialmente soccombenti in entrambi i gradi di giudizio, posto che il Tribunale ha dichiarato inammissibile (in quanto tardiva) l’opposizione a decreto ingiuntivo e a precetto proposta da [Omissis] s.p.a. avente ad oggetto l’indennità di mancato preavviso pretesa dalla [Omissis] e, nel contempo, ha accolto la domanda della banca di accertamento della violazione del patto di non concorrenza (e di conseguente condanna al pagamento della penale) e la Corte distrettuale ha confermato la sentenza di primo grado respingendo l’appello principale proposto dalla [Omissis] e l’appello incidentale depositato dalla banca;

26. sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso va rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.;

27. sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. n. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013), ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

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