Con la pronuncia 21/09/2021, n. 25478 che qui si segnala, le Sezioni Unite affrontano temi di particolare rilevanza come:
– quello della caducazione del titolo esecutivo giudiziale in corso di giudizio di opposizione all’esecuzione, ai fini della decisione da adottare e delle conseguenti ricadute in ordine alla liquidazione delle spese di lite;
– e quello dell’individuazione del giudice competente ad emettere la pronuncia di risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2, in relazione ad un’esecuzione, intrapresa in difetto della normale prudenza, sulla base di un titolo giudiziario venuto meno nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione.
In particolare la prima questione è stata rimessa alle SS.UU. perchè si è ravvisato un contrasto di giurisprudenza in ordine alla rilevanza della caducazione del titolo esecutivo giudiziale in corso del giudizio di opposizione all’esecuzione, ai fini della decisione da adottare e delle conseguenti ricadute in ordine alla liquidazione delle spese di lite.
Il Collegio remittente (Terza Sezione), dopo aver lasciato intuire di non condividere la decisione della Corte territoriale da cui muove il caso, in ordine all’irrilevanza della successiva caducazione del titolo esecutivo, ricorda che c’e’ ormai una costante giurisprudenza della Suprema Corte che è nel senso opposto.
Poiché, infatti, l’accertamento dell’idoneità del titolo a legittimare l’azione esecutiva deve essere valutata dal giudice dell’esecuzione, le eventuali vicende estintive del titolo vanno sempre tenute in considerazione. Mentre, però, su quest’aspetto la giurisprudenza di legittimità è concorde, sussiste viceversa un contrasto in ordine alla rilevanza che la successiva caducazione del titolo esecutivo ha sull’esito del giudizio di opposizione all’esecuzione e, specificamente, sulla liquidazione delle spese di lite.
Secondo un primo orientamento, infatti, maturato all’interno della Terza Sezione dopo una nuova meditazione dei propri precedenti, la caducazione del titolo esecutivo determinatasi nel corso del giudizio di opposizione all’esecuzione non determina, di per sé, la fondatezza dell’opposizione e conduce ad una pronuncia di cessazione della materia del contendere, nella quale il giudice dell’esecuzione deve regolare le spese secondo il criterio della soccombenza virtuale, senza porle senz’altro a favore dell’opponente. Ciò in quanto la sopravvenuta caducazione del titolo fa venire meno l’interesse alla prosecuzione del giudizio di opposizione all’esecuzione.
Secondo un diverso orientamento ribadito dalla Seconda Sezione nella sentenza 09/08/2019, n. 21240, la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo,
“pur portando ad una pronuncia di cessazione della materia del contendere, presuppone una sostanziale fondatezza dell’opposizione, con conseguente preclusione per il giudice di merito, a pena della violazione delle regole sulla soccombenza, della possibilità di porre le spese di giudizio a carico della parte opponente“.
A tale conclusione la Seconda Sezione è pervenuta richiamando una precedente giurisprudenza (della Terza Sezione) in base alla quale l’esecuzione diviene “ingiusta” se durante lo svolgimento del processo esecutivo sopravviene la caducazione del titolo che ha dato avvio all’esecuzione stessa. Ne consegue che, a prescindere dal tipo di pronuncia conclusiva del giudizio di opposizione, le relative spese devono essere poste a carico del creditore opposto.
Sul punto le SS.UU. ritengono che il contrasto debba essere risolto secondo il seguente principio di diritto:
in caso di esecuzione forzata intrapresa sulla base di un titolo giudiziale non definitivo, la sopravvenuta caducazione del titolo per effetto di una pronuncia del giudice della cognizione (nella specie: ordinanza di convalida di sfratto successivamente annullata in grado di appello) determina che il giudizio di opposizione all’esecuzione si debba concludere non con l’accoglimento dell’opposizione, bensì con una pronuncia di cessazione della materia del contendere; per cui il giudice di tale opposizione è tenuto a regolare le spese seguendo il criterio della soccombenza virtuale, da valutare in relazione ai soli motivi originari di opposizione.
Sulla seconda questione (individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento danni ai sensi dell’art. 96/2 cpc) le SS.UU. si sono pronunciate ritenendola questione di massima di particolare importanza.
Sul punto vale la pena di ricordare che secondo un insegnamento ormai consolidato, i primi due commi dell’art. 96 cit. regolano due diverse fattispecie di responsabilità processuale:
– il comma 1 sanziona la parte che “ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave“;
– il comma 2, che direttamente riguarda la causa odierna, prevede la possibilità per il giudice di condannare al risarcimento dei danni la parte che, agendo “senza la normale prudenza“, abbia assunto una delle iniziative processuali ivi elencate. In particolare, la norma indica “l‘inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata“.
Alle due diverse previsioni corrispondono diversi presupposti; mentre il comma 1 esige, infatti, la sussistenza della mala fede o della colpa grave, il comma 2 può trovare applicazione anche in caso di colpa lieve (senza la normale prudenza). Com’e’ stato già affermato (sentenza 30 luglio 2010, n. 17902), secondo le SS.UU. il maggior rigore del comma 2 “si giustifica alla luce della gravità degli effetti ricollegabili ad iniziative che incidono direttamente sul patrimonio del debitore“.
La giurisprudenza della Suprema Corte è da tempo consolidata nel senso di ricondurre la responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. ad una particolare forma di illecito la cui regolazione assorbe quella dell’art. 2043 c.c., ponendosi la norma dell’art. 96 in termini di specialità rispetto alla norma generale sulla responsabilità civile (si vea in particolare SS.UU. 06/02/1984, n. 874.
Altrettanto pacifica è l’affermazione che la condanna di cui all’art. 96 cit. presuppone la totale soccombenza della parte, non potendo la norma trovare applicazione in caso di soccombenza parziale.
Con riguardo alla specifica individuazione del giudice competente a pronunciarsi sulla domanda di responsabilità processuale aggravata, la giurisprudenza della Corte, proprio in considerazione del carattere endoprocessuale dell’illecito, ha già da tempo stabilito che il giudice competente sia, necessariamente, quello della causa di merito: se l’illecito, infatti, è di natura processuale ed è connesso allo svolgimento di un’attività giurisdizionale, il logico corollario è che solo il giudice di quella causa sia chiamato ad esaminare il fondamento della domanda risarcitoria, e che la domanda di cui all’art. 96 cit. deve essere proposta, per connessione necessaria, nel giudizio in cui il comportamento processuale colposo è stato tenuto.
Fatte tutte le necessarie premesse e precisazioni anche con riferimento ad eventuali eccezioni (per il cui esame si rimanda alla sentenza che qui si segnala), sul punto le SS.UU. hanno espresso il seguente principio di diritto:
l’istanza con la quale si chieda il risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 2, per aver intrapreso o compiuto l’esecuzione forzata senza la normale prudenza, in forza di un titolo esecutivo di formazione giudiziale non definitivo, successivamente caducato, deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio in cui si è formato o deve divenire definitivo il titolo esecutivo, ove quel giudizio sia ancora pendente e non vi siano preclusioni di natura processuale. Ricorrendo, invece, quest’ultima ipotesi, la domanda andrà posta al giudice dell’opposizione all’esecuzione; e, solamente quando sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto alla proposizione della domanda anche in sede di opposizione all’esecuzione, potrà esserne consentita la proposizione in un giudizio autonomo.