Due interessanti precedenti della Suprema Corte tornano, ancora una volta, sul delicato tema della consulenza tecnica, strumento processuale che si trova spesso al limite tra l’indispensabile ausilio al giudizio e l’inopinata sostituzione di quest’ultimo.
In proposito, la giurisprudenza ha più volte sancito che la CTU non è un mezzo di prova, concetto ribadito recentemente dalla Suprema Corte nella decisione Cass. Civ., Sez. VI, 07/06/2019, n. 15521, qui in rassegna, secondo la quale
«la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati».
Affermazione, questa, sicuramente ragionevole nell’ambito di un giudizio in cui il giudice sia davvero peritus peritorum, cioè critico esaminatore delle conclusioni peritali rassegnate dall’ausiliario, e non sia, invece, pigro ripetitore di concetti tecnici da incollare rapidamente in sentenza, come purtroppo accade, soprattutto nelle fattispecie in cui i quesiti siano stati altrettanto sbrigativamente posti, con le esiziali formulette di rito del genere “come in atti”, “come negli atti introduttivi” etc.
Si tratta di una prassi di non scarsa verificazione nella pratica, come, appunto, i pratici ben sanno, e che finisce inevitabilmente con il delegare l’onere (costituzionale, meglio non dimenticarlo) del giudizio ad un soggetto diverso dal giudice naturale; soggetto, peraltro, prescelto sulla base di non si sa bene quale criterio, posto che gli albi dei CTU presenti in Tribunale, fatta qualche rarissima eccezione ed a dispetto di qualsiasi contrastante disposizione pure succedutasi nel tempo, altro non sono che un elenco di soggetti dotati di una laurea di settore, alfabeticamente ordinati sulla base del cognome a prescindere da qualsiasi effettiva valutazione di competenza/esperienza tecnica e (soprattutto) forense.
Il che, oltre ad costituire un tema aperto, sul quale si è detto molto, ma non abbastanza a quanto pare, costituisce un problema reale, perché la delega di cui sopra rischia di diventare irrevocabile e con dispensa dall’obbligo di rendiconto, allorquando il giudicante si rifaccia, nel proprio giudizio, alle risultanze peritali in questione ed al rapporto di queste ultime con le osservazioni dei tecnici di parte.
Ed infatti, come la Suprema Corte ribadisce nell’ulteriore precedente oggi in esame, Cass. Civ., Sez. II, Ord. 17/04/2019, n. 10747,
«il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento; non è quindi necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese, perché incompatibili con le argomentazioni accolte».
Conclusione, quest’ultima, sicuramente condivisibile in linea teorica, ma che in cielo e in terra – dove come noto, ci sono molte più cose che in qualsiasi filosofia – lo è molto meno.