«È legittimo, nel contratto a prestazioni corrispettive ex art. 1460 cod.civ., il rifiuto da parte del lavoratore di essere addetto allo svolgimento di mansioni non spettantegli, sempre che tale rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e sia conforme a buona fede (nella specie, la Corte ha ritenuto non giustificato il rifiuto della prestazione da parte del dipendente, pur essendo accertata la sua adibizione a mansioni inferiori)».
Secondo la Cassazione, nel caso sottoposto al suo esame, il rifiuto della prestazione da parte del lavoratore quale conseguenza del demansionamento unilateralmente applicato dal datore di lavoro non è giustificata se tale condotta risulti sproporzionata rispetto alla corrispondente condotta datoriale.
La Cassazione ha ribaltato, cassandola, la sentenza della Corte d’appello territoriale che aveva, invece, ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente che aveva rifiutato la prestazione per quattro giorni consecutivi, rifiuto avvenuto il giorno seguente l’invio della missiva del legale con cui veniva richiesta la riassegnazione alle mansioni precedentemente svolte.
Contro la sentenza d’appello ha proposto ricorso la società allegando la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1460, 2103 e 2119 CC sul presupposto che la Corte territoriale aveva ritenuto l’assenza del lavoratore dal posto di lavoro giustificata dall’asserita, e comunque non dimostrata, dequalificazione, condotta che, in ogni caso, sempre a dire della ricorrente – non integrava i profili di gravità dell’inadempimento richiesti dall’exceptio inadimpleti previsto dall’art. 1460 CC.
Gli ermellini, dopo aver ritenuto l’applicabilità dell’art. 1460 c.c. al rapporto di lavoro de quo, ossia il parziale inadempimento datoriale consistito nell’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto alla qualifica di appartenenza, ha valutato la proporzionalità del comportamento concretamente tenuto dal dipendente.
Nel dare continuità all’orientamento di legittimità in base al quale
«il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente alla prestazione sospendendo ogni attività lavorativa, ove il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro), potendo – una parte – rendersi totalmente inadempiente e invocare l’art. 1460 c.c. soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte»
la Cassazione ha chiarito che
«l’adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può, difatti, consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost.».
Alla stregua delle asserzioni sopra citate, la Cassazione ha ritenuto che, nella fattispecie, il rifiuto di rendere la prestazione non legittimasse una valida forma di autotutela, non essendo peraltro a rischio l’incolumità fisica del dipendente assenteista, potendo ques’ultimo adire l’autorità giudiziaria anche mediante la richiesta di provvedimenti provvisori ed urgenti.
In accoglimento del ricorso datoriale, indi, la Corte ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha rigettato le domande di accertamento dell’illegittimità del licenziamento, condannando altresì il lavoratore alle spese relative al terzo grado di giudizio e compensando quelle relative al giudizio di appello.
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Scarica il testo della sentenza Cass. Civ., Lav., 16/01/2018, n. 836