La Corte di Cassazione, con l’interessante pronuncia Cass. Civ., Sez. I, 12/01/2017, n. 608, che oggi vi proponiamo, interviene sulla tematica dei rapporti tra sequestro preventivo penale finalizzato alla confisca disposto a mente delle disposizioni di cui al d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 e dichiarazione di fallimento.
Dal quel che è dato desumere dalla sentenza impugnata, il Tribunale a quo aveva dichiarato il fallimento di una società il cui patrimonio era stato interamente sottoposto al sequestro preventivo sopra richiamato, ma la Corte di Appello, cui si era rivolta la società fallita, aveva revocato la sentenza sulla base della considerazione che l’ampiezza del sequestro penale non lasciava residuare «spazio per una concorrente liquidazione comune in capo al curatore».
La curatela fallimentare aveva a propria volta gravato la sentenza d’appello dinanzi alla Suprema Corte, ponendo, oltre ad alcune questioni di carattere formale, anche il tema della compatibilità o meno della declaratoria fallimentare rispetto al sequestro in parola, che, essendo finalizzato alla confisca, possiede un effetto patrimoniale deprivante.
La Suprema Corte, con la sentenza in esame, si orienta decisamente per la compatibilità dei due procedimenti.
Secondo la Corte, infatti, è la stessa legge fallimentare a stabilire che «l’insussistenza di massa attiva da ripartire fra i creditori non è di ostacolo alla dichiarazione del fallimento, del quale è infatti prevista la chiusura anche per mancanza di attivo, ai sensi dell’art. 118 co. 1 n. 4 l. f.» e d’altro canto
«l’art. 63, co. 6 Codice antimafia (e delle misure di prevenzione), approvato con d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, prevede espressamente la chiusura (non invece la revoca) del fallimento, ex art. 119 l. f., allorquando nella massa attiva siano ricompresi esclusivamente beni già sottoposti a sequestro e una regola omologa vige, all’art. 64 co. 7, per il caso di sequestro o confisca sopravvenuti al fallimento».
Sotto un profilo più strettamente processuale, inoltre, la Corte rileva come il giudice dell’appello abbia nella specie
«compiuto un esclusivo ma generico riferimento ai beni già costituenti il patrimonio della società, senza aver riguardo ad eventuali azioni proponibili dal curatore ed integrative di detto attivo, come non può escludersi ad esempio per le azioni di responsabilità».
Il che conferma una volta di più la «la piena compatibilità anche più generale della procedura fallimentare» con il quadro di specie.