Infermiera addetta a mansioni di pulizie: è demansionamento, ma il rifiuto è illegittimo Nota a Cass. Civ., Sez. Lavoro, 05/05/2016, n. 9060


L’adibizione di un’infermiera ai servizi di pulizia dei reparti e delle scale della casa di cura è demansionamento, ma il rifiuto di eseguire tali mansioni da parte della stessa deve ritenersi comunque illegittimo.

A stabilirlo è la Cassazione Civile, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 9060 depositata il giorno 05/05/2016, che ha rigettato il ricorso per cassazione presentato dalla lavoratrice, risultata soccombente in entrambi i precedenti gradi di giudizio.

La vicenda e le sentenze di I° e II°

La sentenza di primo grado, poi confermata in appello, aveva infatti rigettato il ricorso della lavoratrice diretto alla declaratoria, previo accertamento del demansionamento patito dalla medesima, dell’illegittimità del licenziamento irrogatole per giustificato motivo soggettivo da parte del datore di lavoro.

La lavoratrice lamentava di essere stata adibita a mansioni inferiori (nella specie, la pulizia delle scale e dei reparti della casa di cura ove era occupata) rispetto a quelle corrispondenti al proprio inquadramento (B2).

I motivi del rigetto della domanda avanzata dalla lavoratrice si basavano sostanzialmente sulla circostanza che, pur risultando pacifico che l’assunzione della lavoratrice era avvenuta con inquadramento in B2 del V livello del CCNL di riferimento (con corrispondente indennità professionale), nel corso dell’istruttoria svolta i testi sentiti avevano però confermato che la ricorrente era stata inserita nei turni degli ausiliari.

Doveva dunque ritenersi che, di fatto, l’attività svolta dall’infermiera doveva ricondursi alla posizione A2, attività esecutive di natura tecnico-manuale, nell’ambito delle quali figurano anche mansioni di pulizie. D’altronde lo stesso diploma posseduto dalla dipendente non soddisfaceva i requisiti richiesti per l’inquadramento in B2.

Secondo la Corte territoriale doveva ritenersi, infine, illegittimo il rifiuto (totale) uniteralmente opposto dalla dipendente a svolgere le mansioni assegnate, pur tuttavia riconoscendo a quest’ultima la possibilità di contestare l’esercizio del c.d. ius variandi del datore di lavoro.

Risultata soccombente in primo e secondo grado, la dipendente proponeva ricorso per cassazione.

La sentenza della Cassazione

Il ricorso per cassazione proposto dalla lavoratrice si affida a due motivi di censura.

Il motivo centrale di ricorso (riguardante la violazione o falsa applicazione delle norme di cui all’art. 2103 C.C. – divieto di adibizione a mansioni inferioire – e all’art. 112 C.C. e dei CCNL di riferimento) è stato ritenuto infondato dalla Corte, dal momento che secondo i consiglieri

«il thema decidendum non è l’accertamento se il pacificamente spettante inquadramento in B2 dell’attuale ricorrente fosse compatibile con l’affidamento delle mansioni di pulizia di vari reparti e locali della Casa di cura come da ultimo richiesto alla lavoratrice»,

bensì,

«il diverso accertamento se le mansioni richieste comportassero un vulnus così grave ed irreparabile alla professionalità della lavoratrice da legittimare il suo rifiuto a svolgere la prestazione senza neppure poter aspettare un accertamento giudiziario».

E, su questo tema, la stessa Corte di appello aveva ritenuto che, secondo i giudici con argomentazioni coerenti con i precedenti della Corte medesima, sussiste in capo al lavoratore “demansionato” il diritto a richiedere giudizialmente la riconduzione delle prestazioni nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma

«non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avvallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli evocare l’art. 1460 c.c. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro».

Il secondo motivo di ricorso, concernente la violazione (o falsa applicazione) di norme di diritto (art. 1460 C.C., L. 604/1966) e l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia, è stato invece ritenuto infondato, trattandosi di una censura di merito diretta ad una rivalutazione del fatto e, come tale, inammissibile.

Sulla base della motivazione sopra esposta, la Corte ha dunque rigettato il ricorso della lavoratrice, condannandola, altresì, alle spese di lite.

Documenti & materiali

Scarica il testo della sentenza Cass. Civ., Sez. Lavoro, 05/05/2016, n. 9060

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Author: Avv. Francesca Serretti Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 24 febbraio 1982. Iscritta all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 2010. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione lavoro di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

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