Quando la riconciliazione impedisce il divorzio In nota a Cass. Civ., Sez. I, 16/06/2020, n. 11636


La riconciliazione tra i coniugi è la condizione ostativa per eccellenza che osta alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario o allo scioglimento del matrimonio civile.
Precisamente l’art. 3 della L. 01/12/1970, n. 898 e succ. mod. elenca una serie di ipotesi in cui è possibile chiedere il divorzio precisando tuttavia che:
in tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno ((dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale)), ovvero dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile. L’eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta; nella separazione di fatto iniziatasi ai sensi del comma precedente, i cinque anni decorrono dalla cessazione effettiva della convivenza.
Da un punto di vista processuale, come sopra espresso dal cit. art. 3 L. 898/1970, è il convenuto in sede di divorzio e che si oppone ad esso, a dover eccepire l’intervenuta riconciliazione; ne consegue, che spetterà, invece, al richiedente il divorzio, dover fornire la prova contraria dell’intervenuta riconciliazione.
E’ su questo aspetto che si pronuncia la Sez. I, della Suprema Corte con la sentenza 16/06/2020, n. 11636 che qui si segnala.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, il ricorrente aveva proposto gravame contro la decisione della corte territoriale che aveva respinto la domanda di divorzio in quanto aveva ritenuto che la riconciliazione implica la ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, ossia la ripresa di relazione reciproche, oggettivamente rilevanti, che si siano concretizzate in un comportamento inequivoco, incompatibile con lo stato di separazione; che, nel caso di specie, era incontestato che i coniugi, dopo la separazione consensuale, omologata con decreto del 13 giugno 2003, avevano convissuto nell’immobile costituente la casa coniugale dal 2004 al 2012, con entrambi i figli; che, con riguardo alla mancata ammissione dei capitoli di prova articolati nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, poichè la resistente aveva dedotto avvenuta riconciliazione come fatto ostativo alla proponibilità della domanda, sarebbe stato onere di quest’ultimo richiedere prove volte a dimostrare la persistenza della condizione di separazione con la seconda memoria, ex art. 183 c.p.c., comma 6; che, in ogni caso, i capitoli di prova contraria dedotti con la terza memoria vertevano su circostanze marginali, inidonee a contrastare le specifiche deduzioni avversarie; che dalle dichiarazioni dei testimoni ascoltati in primo grado era emerso che era stato proprio il ricorrente recatosi nel (OMISSIS), dove la moglie si era trasferita con i figli, a convincere la donna a rientrare con la prole nell’abitazione coniugale; che i coniugi facevano vita comune, trascorrevano le vacanza insieme, sebbene il ricorrente effettuasse anche periodi di vacanza da solo, si recavano insieme a far visita ai parenti e ricevevano questi ultimi nella loro abitazione; che i testi avevano anche smentito la deduzione del ricorrente, secondo il quale la moglie e i figli avrebbero vissuto nella dependance della villa; che conferma di siffatta conclusione si traeva dal fatto che i testi avevano ricordato che la convivenza era cessata nel 2012, quando la moglie si era stancata delle vane promesse del marito di interrompere la relazione extraconiugale instaurata con altra donna; che, infatti, se la convivenza fosse stata finalizzata esclusivamente ad agevolare il rapporto del padre con i figli, non sarebbe stata comprensibile la doglianza della moglie con riguardo a tale relazione, l’impegno del ricorrente a porvi termine e la finale reazione della prima; che, ancora, la convivenza era durata otto anni, sebbene entrambi i coniugi disponessero di risorse idonee a reperire autonome e separate sistemazioni abitative; che la valutazione di intervenuta riconciliazione non era superata dalla missiva, datata 8 maggio 2006, con la quale un avvocato, presentandosi come difensore della donna, aveva invitato il ricorrente a valutare l’opportunità di presentare un ricorso congiunto per lo scioglimento del matrimonio, sia perchè la lettera non proveniva dalla parte, ma da una professionista, sia perchè comunque la convivenza era durata per altri sei anni; che il ricorso congiunto per la modifica delle condizioni della separazione, che aveva trovato accoglimento, da parte del Tribunale di Milano, con decreto del 5 aprile 2013, rappresentava l’utilizzo di uno strumento processuale in assenza dei relativi presupposti normativi, ma non valeva a superare il dato dell’avvenuta riconciliazione.

Con la sentenza 11636/2020 la Corte respinge il ricorso per cassazione del richiedente il divorzio, poichè ritiene che innanzi tutto, la Corte territoriale non ha affatto deciso la controversia, valorizzando il mancato assolvimento, da parte del ricorrente, dell’onere di dimostrare l’infondatezza dell’eccezione di riconciliazione della parte.

Testualmente la Corte osserva che:

se tale fosse stata la ratio decidendi, in effetti, la sentenza impugnata si sarebbe discostata dal condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, poichè, come osservato supra, il legislatore espressamente stabilisce che l’eccezione di sopravvenuta riconciliazione deve essere proposta ad istanza di parte, il giudice non può rilevarla d’ufficio, non investendo essa profili d’ordine pubblico, ma aspetti strettamente attinenti ai rapporti tra i coniugi, in ordine ai quali è onere della parte convenuta eccepire e conseguentemente provare l’avvenuta riconciliazione.

Tuttavia, in secondo grado, l’appellante si doleva della mancata ammissione dei capitoli di prova testimoniale articolati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 3, ma, secondo la Corte di Cassazione la Corte d’appello, sul punto, aveva osservato che il richiedente per richiedere prove contrarie alla deduzione della controparte di avvenuta riconciliazione, avrebbe dovuto provvedere con la seconda memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, il che non era avvenuto.

In definitiva, la Corte rileva che

non emerge alcuna inversione dell’onere della prova, ma la conferma della intempestività della richiesta di prova contraria.

E la prova contraria che deve fornire il richiedente il divorzio, assume un contenuto alquanto difficile dato che  – vale la pena evidenziare – che la Suprema Corte ribadisce l’irrilevanza, ove considerata isolatamente, del fatto che i coniugi dormissero in letti separati o, a volte, si concedessero vacanze separate, oppure ancora che vi fossero pagamenti periodici per il mantenimento.

Ma vi è di più: neppure l’intervenuta modifica delle condizioni di separazione, può costituire una valida prova della mancata riconciliazione.

Infatti, il ricorrente lamentava anche, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 157 c.c., della L. n. 898 del 1970, art. 3, n. 2, lett. b e dell’art. 2909 c.c., per non avere la Corte d’appello tenuto conto del fatto che, per effetto del decreto con il quale il Tribunale aveva accolto la richiesta congiunta di modifica delle condizioni di separazione, si era formato il giudicato sull’assenza, in data anteriore a tale provvedimento, della pretesa riconciliazione.

Ma la Suprema Corte respinge anche questa doglianza osservando che, oltre a dover dimostrare il passaggio in giudicato della sentenza resa in altro giudizio,

deve escludersi che il procedimento di modifica delle condizioni di separazione – che certamente richiede la verifica della definitività del titolo della stessa: v., ad es., Cass. 24 luglio 2007, n. 16398 – comporti anche un accertamento con efficacia di giudicato dell’assenza di riconciliazione dei coniugi, ove la questione, evidentemente, non sia stata posta, come nel caso di specie, da alcuna delle parti processuali.

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Author: Avv. Daniela Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 20 agosto 1963. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 1992. Abilitata al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori dal 2004. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione famiglia di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833.

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