Sull’eccezionalità dell’assunzione di prove nel giudizio dinanzi al C.N.F. C.N.F., 22/11/2021, n. 224

By | 11/06/2021

C.N.F., 22/11/2021, N. 224

«In tema di procedimento disciplinare, sebbene l’art. 63 RDL n. 37/1934 conferisca al CNF la facoltà di procedere a ogni indagine ritenuta utile, in sede di appello la prova viene assunta solo in casi eccezionali ed in particolare allorché sia stata richiesta e disattesa in primo grado»

FATTO

In data 16.01.2015 il Sig. [Omissis] presentava presso il COA di [Omissis] un esposto nei confronti dell’Avv. [Omissis] narrando di aver dato mandato alla professionista di proporre impugnazione avverso una sentenza di separazione giudiziale e ciò con ampio anticipo rispetto alla scadenza dei termini e previa corresponsione anticipata di compenso pari ad € 1.258,00 (cfr fattura n. 18 del 25.11.2011) e che l’avv. [Omissis] lasciava decorrere i termini e presentava quindi tardivamente il gravame con conseguente dichiarazione di inammissibilità dell’appello perché proposto in violazione degli artt. 325 e 326 c.p.c (vedesi dispositivo della sentenza n. 20/2012 del 16.10.2012 della Corte di Appello di [Omissis]).

L’esponente, lamentava, altresì, la mancata informazione da parte della professionista dell’esito negativo dell’impugnazione unitamente alla mancata restituzione di atti e/o documenti afferenti non solo il giudizio di separazione in appello, ma anche di altri procedimenti civili, ciò nonostante innumerevoli ed espresse richieste avanzate in tal senso.

Sulla base di tanto nei confronti dell’Avv. [Omissis] veniva deliberata l’apertura del procedimento disciplinare con il seguente capo di incolpazione: “Violazione delle norme del codice di deontologia forense- approvato dal CNF il 31.01.2014- e precisamente 1)- dell’art. 10 (Dovere di fedeltà), dell’art. 12 (Dovere di diligenza), dell’art. 26 comma 3 (Adempimento del mandato) perché quale avvocato dell’esponente ritardava il compimento di atti inerenti al mandato ricevuto ed in particolare presentava tardivamente e, quindi, oltre i termini di legge appello avverso la sentenza di separazione giudiziale dell’esponente determinando così la pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione per tardività della stessa, per come dichiarata in sentenza n. [Omissis]/2012 della Corte di Appello di [Omissis]; 2)- nonché dell’art. 27 comma 6 (Dovere di informazione) e dell’art. 33 comma 1 (Restituzione di documenti) perché quale avvocato dell’esponente ometteva di informare il suo assistito circa l’esito del giudizio di appello unitamente alla mancata restituzione di atti e/o documenti afferenti non solo il giudizio di separazione ma anche di altri procedimenti civili, ciò nonostante le richieste anche scritte avanzate dal suo assistito (cfr raccomandata A/r del 13.3.2013 e raccomandata A/r del 23.05.2013)…”.

Innanzi al Consiglio Distrettuale di Disciplina Forense di [Omissis] nessuna delle parti partecipava all’udienza dibattimentale all’esito della quale veniva emessa la decisione oggi gravata con la quale veniva inflitta, all’Avv. [Omissis], la sanzione disciplinare della sospensione di mesi uno dall’esercizio della professione di avvocato in quanto:

” ….L’accertamento dei fatti contestati è ampiamente documentato in atti ed in particolare dalla fattura n. 18 del 25.11.2011 si deduce la data di conferimento dell’incarico all’incolpata da parte dell’esponente; dalla sentenza n. [Omissis]/2012 del COA di [Omissis] si evince che “a fronte della notifica della sentenza di primo grado in data 11 nov. 2011, [Omissis] ha depositato il ricorso di appello soltanto in data 15 dic. 2011, quindi più di trenta giorni dopo, in violazione del dettato degli artt. 325 e 326 cpc” dalle richieste inviate all’incolpata dal proprio cliente (racc. del 12.3.2013- racc. del 23.5.2013) si rileva, anche in mancanza di controdeduzioni dell’incolpata, che quest’ultima non solo non ha fornito adeguate informazioni al cliente ma non ha provveduto a restituire allo stesso gli atti ed i documenti afferenti non solo il giudizio di separazione in questione ma anche altri procedimenti civili. L’incolpata non ha mai prodotto memorie difensive né ha ritenuto di presenziare all’udienza dibattimentale quantomeno per giustificare il suo operato deontologicamente scorretto. Sulla determinazione della sanzione hanno inciso sia la violazione di diverse norme deontologiche, ed in particolare art. 26 comma 3, art. 27 comma 6 ed art. 33 comma 1, sia il comportamento poco collaborativo dell’incolpata (art. 71 comma 3) la cui responsabilità è più che evidente…”

Avverso la richiamata decisione interpone tempestivo gravame l’Avv. [Omissis], con ricorso nel quale si contesta che il ritardo nella proposizione del gravame sia dipeso da propria responsabilità professionale, ma affonda le sue radici nella mancata conoscenza e possesso della documentazione relativa al primo giudizio in uno alla sentenza notificata. L’appellante, poi, afferma la non veridicità della mancata restituzione della documentazione atteso che, a dir della stessa, il cliente a cui pur veniva restituita l’intera documentazione dei diversi procedimenti: “….riteneva, comunque, dover frequentare quasi quotidianamente lo studio lasciandosi andare a complimenti non graditi, veniva invitato a non farvi ritorno con la minaccia di fare ricorso alle forze dell’ordine! ! ! ..”

DIRITTO

Il ricorso proposto è infondato onde dovrà essere rigettato, sebbene si imponga la rideterminazione della sanzione inflitta.

Opportuna completezza espositiva ed argomentativa esige evidenziare che il ricorso redatto in forma estremamente sintetica e scarna è al limite dell’ammissibilità. Il ricorso proposto innanzi al Consiglio Nazionale Forense avverso la decisione emessa dal Consiglio distrettuale di disciplina, seppur non soggiace al disposto dell’art. 342 c.p.c. sull’atto di appello – che impone a pena di inammissibilità una chiara individuazione delle questioni e dei punti della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice – deve infatti contenere, a norma dell’art. 59 del r.d. n. 37 del 1934, la precisazione del contenuto e la portata delle censure mosse al provvedimento impugnato, in modo che resti individuato il ” thema decidendum” sottoposto all’esame del giudice disciplinare.

Sul punto deve affermarsi dando continuità alla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione ex multis (Cass. SS.UU. n. 34476 del 27/12/2019 che: “…. Questa Corte (Cass., Sez. Un., 17 giugno 2013, n. 15122) ha infatti già statuito che il giudizio di competenza del Consiglio nazionale forense a seguito di ricorso avverso provvedimenti disciplinari emessi dal Consiglio territoriale, pur avendo indubbi connotati impugnatori, non è assimilabile all’appello disciplinato dal codice di procedura civile, che si configura come un giudizio di secondo grado avente natura omogenea rispetto a quello di primo grado. Invero, stante la natura amministrativa del procedimento dinanzi al Consiglio dell’ordine e del provvedimento sanzionatorio che lo conclude, è solo con il ricorso avverso tale provvedimento dinanzi al Consiglio nazionale forense che si instaura per la prima volta un procedimento giurisdizionale che investe il giudice disciplinare del potere di conoscere ogni aspetto della vicenda in contestazione. Tale principio – enunciato dalle Sezioni Unite con riferimento al ricorso proposto innanzi al CNF avverso il provvedimento disciplinare emanato dal Consiglio dell’ordine territoriale – è applicabile, dopo la riforma dell’ordinamento professionale forense di cui alla legge n. 247 del 2012, con riguardo all’impugnazione dinanzi al CNF della decisione resa dal Consiglio distrettuale di disciplina, giacché anche il procedimento davanti al Consiglio distrettuale di disciplina conserva il carattere amministrativo del precedente, svolgendo detto organo una funzione amministrativa di natura giustiziale (cfr. Cass., Sez. Un., 10 luglio 2017, n. 16993). Ne deriva che al ricorso proposto innanzi al Consiglio nazionale forense avverso la decisione disciplinare emessa dal Consiglio distrettuale di disciplina non può ritenersi applicabile, in via immediata e diretta, il disposto dell’art. 342 cod. proc. civ., come si è affermato invece nell’impugnata sentenza. Ciò, peraltro, non toglie che, a norma dell’art. 59 del regio decreto n. 37 del 1934, richiamato dall’art. 36, comma 2, della legge n. 247 del 2012, il ricorso al Consiglio nazionale forense debba contenere «l’indicazione specifica dei motivi sui quali si fonda» (cfr. Cass., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28049). Ma, mentre ai fini del rispetto dell’art. 342 cod. proc. civ., pur non occorrendo l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, è necessario che l’impugnazione contenga, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (Cass., Sez. Un., 16 novembre 2017, n. 27199); affinché sia rispettato il precetto di cui all’art. 59 del regio decreto n. 37 del 1934, basta, più semplicemente, che il ricorso al Consiglio nazionale forense precisi il contenuto e la portata delle censure mosse al provvedimento adottato dal Consiglio distrettuale di disciplina, sì che resti individuato il thema decidendum sottoposto all’esame del giudice disciplinare…”.

Orbene alla luce di tanto risulta che l’Avv. [Omissis] abbia in effetti individuato la parte della sentenza che intende impugnare e quindi formulato, seppur in maniera estremamente succinta e generica, i motivi di gravame così che può dirsi rispettato il precetto di cui all’art. 59 del r.d. n. 37 del 1934.

Dal gravame sottoposto all’esame di questo giudice si evince che la ricorrente abbia contrastato l’operato del Consiglio Distrettuale di Disciplina quanto meno per un difetto di istruttoria. La ricorrente, come evidenziato nella narrativa di fatto, svolge un unico motivo, escludendo la propria responsabilità e lamentando l’erroneità della decisione perché fondata su fatti non corrispondenti al vero e dei quali fornisce una versione del tutto differente rispetto a quella accertata dal CDD.

L’appellante in buona sostanza sostiene che il ritardo verificatosi nell’impugnazione della sentenza dipese dalla circostanza che ella subentrò ad altri professionisti e non era in possesso della documentazione relativa al primo grado di giudizio ed ancor di più della sentenza di primo grado notificata.

Orbene il Consiglio Distrettuale di disciplina ha ritenuto: “L’accertamento dei fatti contestati è ampiamente documentato in atti ed in particolare dalla fattura n. 18 del 25.11.2011 si deduce la data di conferimento dell’incarico all’incolpata da parte dell’esponente….”.

Sul punto è necessario precisare che al di là della emessa fattura, che data la sua indicazione “procedura separazione personale sentenza n. [Omissis]/11” potrebbe offrire diversa interpretazione (quale per esempio rivolta ad una consulenza stragiudiziale sulla percorribilità dell’appello) atteso che nessuna menzione v’è riguardante l’appello, agli atti del procedimento non sussistono altre prove della data dell’effettivo conferimento dell’incarico in quanto il mandato apposto a margine dell’atto di appello non contiene alcun riferimento temporale così che dovrà considerarsi di data contestuale alla redazione dell’atto. (ex multis: Cassazione Civile, sez lav. 13 giugno 2005, n. 12636).

Al di là di tale considerazione si deve tuttavia dar conto che l’Avv. [Omissis] neppure in questo giudizio ha espressamente provveduto a contestare le precise affermazioni del signor [Omissis] come contenute nell’esposto versato agli atti del giudizio con il quale lo stesso denuncia: ” ….Ho conferito all’avvocato [Omissis] l’incarico di proporre appello avverso la sentenza di separazione giudiziale n. [Omissis]/11 del Tribunale Civile di [Omissis] depositata in data [Omissis]/2011 e notificata all’avvocato [Omissis], difensore da me nominato nel relativo giudizio in data 11/11/2011. All’atto del conferimento dell’incarico ho consegnato all’avvocato [Omissis] la sentenza innanzi detta e la missiva del 17/11/2011 con cui il precedente difensore……precisava che il termine breve per proporre appello decorreva da 11/11/2011. Preciso che l’incarico professionale in questione è stato da me conferito all’avvocato [Omissis] molto tempo prima della scadenza del termine per proporre appello avverso la citata sentenza. In occasione del conferimento dell’incarico ho provveduto, altresì, a consegnare anche la documentazione necessaria per il gravame. Ho corrisposto, altresì all’avvocato [Omissis] l’importo di euro 1258,40 in data 25/11/2011, a titolo di compenso professionale, come comprovato dalla fattura n. 18….”

Non v’è quindi dubbio che, al di là di ogni altra considerazione e di quanto allegato in maniera telegrafica e indimostrata nel ricorso in esame, non vi è una presa di posizione dell’avv. [Omissis] rispetto alle affermazioni dell’esponente poste a base della decisione di primo grado, con la conseguenza che in assenza di una contestazione puntuale e alla luce dei riscontri documentali in atti (soprattutto la rilasciata fattura n. 18) il gravame risulta infondato. Si rammenta che, secondo giurisprudenza costante, il CNF, quale giudice di legittimità e di merito, in sede di appello, può apportare alla decisione le integrazioni che ritiene necessarie, sopperendo così ad una eventuale motivazione inadeguata ed incompleta, anche riesaminando le circostanze che hanno condotto il CDD a ritenere l’incolpato responsabile delle violazioni contestate (Cass. SS.UU. 15122/13; CNF 186/17).

Per ciò che attiene, poi, il vizio o difetto di prova la giurisprudenza rammenta che occorre un adeguato riscontro probatorio per suffragare le dichiarazioni dell’esponente, in modo tale che la valutazione disciplinare sia correttamente motivata non solo sulla base delle dichiarazioni dello stesso, ma altresì dalle risultanze documentali acquisite agli atti (cfr. CNF 74/18). Anche in sede disciplinare, peraltro, opera il principio del libero convincimento del giudice disciplinare, che ha ampio potere discrezionale nel valutare la conferenza e rilevanza delle prove acquisite, con la conseguenza che la decisione assunta in base alle testimonianze e agli atti acquisiti in conseguenza degli esposti deve ritenersi legittima quando risulti coerente con le risultanze documentali acquisite al procedimento (cfr. Cass. SS.UU. 961/17; CNF 160/19).

Nel caso di specie di deve evidenziare che la ricorrente sia nel corso del giudizio innanzi CDD ed in questa sede non offre alcun elemento di prova che possa neutralizzare gli assunti dell’esponente e le valutazioni operate dal CDD.

Né il CNF può nel caso procedere ad ulteriore indagine ritenuta utile in quanto, pur avendone facoltà, da esercitare tuttavia in casi eccezionali e particolarmente quando la prova sia stata richiesta e disattesa nel procedimento di primo grado, non può con ciò sanare preclusioni e decadenze già maturate (cfr. CNF 160/19). Gravava infatti sulla ricorrente l’onere di dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni o l’infondatezza degli addebiti (cfr. CNF 149/19), mentre, al di là di eventuali dubbi che possono sorgere circa l’effettiva data del conferimento del mandato e l’esatta indicazione riportata nella fattura, il comportamento tenuto dall’Avv. [Omissis] nel corso del giudizio di primo grado nel quale non si è difesa e quindi la non puntuale contestazione delle circostanze di fatto denunciate, fanno ritenere che il CDD sia pervenuto alla sua decisione sulla base del principio del libero convincimento. È appena il caso di evidenziare che è sufficiente a soddisfare l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti essere sorretto da un percorso argomentativo logico e coerente all’adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla.

La decisione del CDD deve essere invece riformata per quel che attiene l’applicazione della sanzione.

Al di là del giudizio di adeguatezza rispetto alla gravità ed alla natura del comportamento deontologicamente contestato all’avv. [Omissis] sulla base dei fatti complessivamente valutati, e del disposto di cui all’art. 21 nuovo CDF che al comma 3 richiede che la sanzione sia ” unica anche quando siano contestati più addebiti nell’ambito del medesimo procedimento ” e deve essere ” commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità, al comportamento dell’incolpato, precedente e successivo al fatto, avuto riguardo alle circostanze, soggettive, e oggettive, nel cui contesto è avvenuta la violazione” e che si debba comunque tener conto “del pregiudizio eventualmente subito dalla parte assistita e dal cliente, della compromissione dell’immagine della professione forense, della vita professionale, dei precedenti disciplinari”, deve essere rilevato che il CDD di [Omissis] ha erroneamente inflitto alla ricorrente una sanzione di entità non prevista dall’ordinamento. La durata minima della sospensione disciplinare è infatti di mesi due giusto l’espresso disposto sia dell’art. 40 R.D.L. n. 1578 del 1933, sia dell’art. 22 comma 1 là dove, nel determinare la tipologia delle sanzioni disciplinari, il nuovo Codice definisce alla lettera c) la sospensione come una sanzione che “consiste nell’esclusione temporanea, da due mesi a cinque anni, dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura”. (In questo senso: SSUU n. 13237/2018).

In relazione a tale assorbente rilievo e valutata anche l’assenza di precedenti disciplinari a carico dell’Avv. [Omissis], ritiene di infliggere la sanzione più lieve della censura.

P.Q.M.

Visti gli artt. 38,40 e 44 del RDL 27 novembre 1933, n. 1578 e gli artt. 59 e segg del Regio Decreto 22 gennaio 1934, n. 37; il Consiglio Nazionale Forense, riunito in Camera di Consiglio, rigetta il ricorso ed a parziale modifica della decisione impugnata infligge all’Avv. [Omissis] la sanzione della censura. Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità o degli altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.

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