«L’esercizio della facoltà descritta nella norma in esame [mediazione delegata dal giudice] è demandato alla discrezionalità del giudice, anche in fase di appello, a prescindere dall’obbligatorierà o meno della mediazione ante causam o dalla vigenza o meno della norma prima dell’introduzione della controversia, ed è collegato a una preliminare considerazione della qualità delle parti e della particolarità della lite sottoposta al vaglio del giudice».
Con una recente pronuncia, la Corte di appello di Milano è intervenuta nuovamente sul tema della mediazone c.d. delegata nel secondo grado di giudizio, valorizzando la discrezionalità del giudice d’appello nell’esercizio di questo potere/facoltà previsto dall’art. 5, 2° comma, D.LGS. 28/2010.
Come noto, l’art. 84, 1° co., lett. c), D.L. 69/2013, conv. in L. 98/2013, ha introdotto all’art. 5 del D.LGS. 28/2010 un nuovo 2° comma che, per quanto qui interessa direttamente, recita: “Fermo quanto previsto dal comma 1-bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello (…)”.
Nel caso di mediazione delegato in grado d’appello, il relativo esperimento diviene condizione di procedibilità della domanda anche qualora l’oggetto della causa non verta nelle materia per le quali è prevista l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento mediatorio.
Infatti, la facoltà di disporre la mediazione d’ufficio, inoltre, non è limitata alle materie per cui il tentativo è obbligatorio, ma può estendersi anche al di là dei settori indicati dall’art. 5, comma 1-bis, del D.LGS. 28/2010 ed, in particolare “anche su una controversia quale quella in esame, avente ad oggetto il recupero di un credito rimasto insoddisfatto”.
E’ altrettanto notorio che gli elementi che l’organo giudicante (in specie, la Corte di appello) deve prendere in considerazione per disporre il tentativo di conciliazione sono essenzialmente attinenti alla natura della causa ed al comportamento delle parti.
Nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte territoriale, i motivi principali di censura riguardavano essenzialmente l’efficacia della notifica della cessione di un credito di una società, poi dichiarata fallita, ad un istituto di credito e l’opponibilità della predetta cessione alla curatela del fallimento medesimo. Dall’esame dell’atto introduttivo e dalla lettura della sentenza gravata, la Corte ha ritenuto che non vi fossero significativi squilibri d’interesse tra le parti o particolari esigenze ad ottenere un’interpretazione autorevole della legge o un precedente vincolante.
Sulla base di tali presupposti, la Corte, nel richiamarsi all’intento del legislatore del 2013 (D.L. 69/2013, conv. in L. 98/2013) consistente nell’incentivazione degli strumenti di risoluzione delle controversie preposti a facilitare l’accesso alla giustizia con l’assistenza di un mediatore qualificato, ha esercitato il potere conferito dalla legge, assegnando il termine di 15 giorni per l’avvio della mediazione, procedimento da espletare nel termine di 3 mesi a far tempo dalla comunicazione dell’ordinanza.
La Corte d’appello nella propria ordinanza ha, da ultimo, disposto anche la comparizione personale delle parti innanzi al mediatore designato.