La pena detentiva è extrema ratio anche per la diffamazione a mezzo internet Cass. Pen., Sez. V, 17/02/2021, n. 13993

By | 15/06/2021

CASS. PEN., SEZ. V, 17/02/2021, N. 13993

«L’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se non commesso nell’ambito dell’attività giornalistica, è compatibile con la libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza» (Massima non ufficiale)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del Gup del Tribunale di [Omissis] del 28/03/2018 [Omissis] veniva assolto dai reati di diffamazione commessi mediante pubblicazione di post denigratori su Facebook ai danni di [Omissis], vice Sindaco del Comune di [Omissis], in relazione ai capi G e H perché il fatto non sussiste (per la continenza delle espressioni), e in relazione ai capi A, D, E, F, I, L, M, N e O, per non aver commesso il fatto, sul rilievo della mancata prova della riferibilità dell’indirizzo IP all’imputato.

Con sentenza emessa il [Omissis] la Corte di Appello di [Omissis], in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato l’imputato alla pena di 4 mesi di reclusione per i reati di diffamazione contestati.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di [Omissis], Avv. [Omissis], che ha dedotto i seguenti motivi, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

2.1. Con il primo motivo deduce il vizio di motivazione in relazione all’art. 603 c.p.p., lamentando che la riforma della sentenza assolutoria sia stata pronunciata senza una rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, costituita dalla annotazione di p.g. che aveva escluso la riconducibilità del profilo Facebook all’imputato.

2.2. Con un secondo motivo lamenta il vizio di motivazione, sostenendo che manchi la c.d. motivazione rafforzata richiesta in caso di riforma della decisione di primo grado, non essendosi confrontata con la sentenza di assoluzione e con l’incertezza processuale della riconducibilità del profilo all’imputato, derivante dall’annotazione di p.g. e dalla perizia, nonché dall’assenza di conformità della pagina socia, commentata e la corrispondenza dell’indirizzo IP, e dall’assenza di conformità della stampa dei messaggi a quelli estrapolati da Internet.

2.3. Con terzo motivo deduce la violazione di legge in relazione all’art. 595 c.p. e 10 CEDU, in quanto la Corte territoriale ha inflitto la pena detentiva di 4 mesi di reclusione, benché la giurisprudenza della Corte di Strasburgo abbia affermato che la pena detentiva è sproporzionata, tranne che nei casi di discorsi d’odio o di incitamento alla violenza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato limitatamente al terzo motivo.

2. Il primo ed il secondo motivo sono manifestamente infondati, in quanto la sentenza impugnata ha ribaltato la sentenza assolutoria di primo grado sulla base della rivalutazione non già di una prova dichiarativa, suscettibile di rinnovazione, bensì di una prova documentale, insuscettibile come tale di rinnovazione.

2.1. Invero, la sentenza di primo grado aveva assolto l’imputato per i post denigratori pubblicato su Facebook, ritenendo che la mancata individuazione dell’indirizzo IP del dispositivo utilizzato dal soggetto agente non consentisse di ritenere raggiunta la prova certa della responsabilità penale dell’imputato.

La sentenza di appello impugnata, nel ribaltare la pronuncia assolutoria, ha innanzitutto affermato la rilevanza penale delle espressioni denigratorie ascritte ai capi G e H, ritenendo che non fossero continenti, e che, al contrario, rivolgessero accuse apodittiche e gravemente denigratorie per un pubblico amministratore, accusato di “aver rovinato un paese” e di aver commesso molte “malefatte” perseguendo scopi diversi da quelli istituzionali (capo G), e di aver abusato della propria posizione di appartenente alla Guardia di Finanza per minacciare [Omissis] (capo H).

Oltre a tale profilo – non oggetto di censura con il ricorso per cassazione -, la Corte territoriale ha affermato la riferibilità dei post denigratori pubblicati su Facebook all’imputato evidenziando: l’unicità della provenienza delle esternazioni, che va valutata non in maniera parcellizzata, solo alla luce del contenuto di ciascuna di esse, ma nel contesto complessivo in cui si inseriscono, caratterizzato da incessanti esternazioni tenacemente volte a screditare la reputazione di [Omissis], quale persona e figura istituzionale nell’amministrazione comunale e nel corpo della guardia di finanza, e delle persone a lui vicine; il contenuto dei commenti, in cui l’autore traccia la propria esperienza personale nei rapporti con [Omissis], indicandolo come colui che ha sporto nei suoi confronti “tante querele” e che è prossimo per essere chiamato in giudizio, come riscontrato dalla pendenza dei procedimenti nei confronti dell’odierno ricorrente; le indicazioni dell’autore dei post su se stesso, allorquando afferma di essere stato per otto anni e mezzo presidente dell’antiracket, come riscontrato dalle indagini, e allorquando lamenta che la persona offesa, in qualità di finanziere, avrebbe “sbattuto in faccia” il tesserino minacciando lui e l'”azienda di famiglia [Omissis] ” – presso la cui sede l’imputato ha effettivamente eletto domicilio -; la pubblicazione dei post dal proprio profilo Facebook, corredato dalla sua fotografia, senza adozione di false identità.

L’insieme di tali elementi indiziari, dunque, unitamente all’assenza di denunce di furto dell’identità digitale da parte dell’imputato, o di una mera contestazione neppure in sede dibattimentale, sono stati ritenuti univoci e convergenti per affermare la riconducibilità delle espressioni diffamatorie all’odierno ricorrente, sulla base di un apprezzamento di fatto immune da censure di illogicità, e dunque insindacabile in sede di legittimità.

2.2. Al riguardo, nel rammentare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato, che è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785), estendendo anche al giudizio abbreviato il principio già affermato dalla sentenza “Dasgupta” (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Rv. 267492), va osservato che, nella fattispecie, non viene in rilievo una prova dichiarativa, né una diversa valutazione della stessa, bensì una diversa valutazione del complesso indiziario concernente l’individuazione dell’autore dei post diffamatori.

Sul punto, va dunque ribadito il principio secondo cui non sussiste l’obbligo di rinnovazione della istruttoria dibattimentale nel caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado basata su una diversa interpretazione della fattispecie concreta, alla luce della valutazione logica e complessiva dell’intero compendio probatorio e non sulla base di un diverso apprezzamento della attendibilità di una prova dichiarativa decisiva (Sez. 5, n. 53210 del 19/10/2018, Esposito, Rv. 275133; Sez. 5, n. 42746 del 09/05/2017, Fazzini, Rv. 271012).

2.3. Per quanto già esposto, non ricorre neppure una violazione dell’obbligo di c.d. “motivazione rafforzata”, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte a partire dalla sentenza “Mannino”, secondo cui, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679): la Corte territoriale ha infatti assolto congruamente al proprio onere di motivazione rafforzata, delineando compiutamente le linee del proprio autonomo e alternativo ragionamento probatorio posto a fondamento dell’individuazione dell’imputato quale autore dei post denigratori e diffamatori, evidenziando i molteplici elementi indiziari e formulando una autonoma valutazione probatoria degli stessi.

3. É invece fondato il terzo motivo.

Va premesso che la sentenza impugnata ha irrogato la pena di 4 mesi di reclusione, concedendo la sospensione condizionale.

3.1. Al riguardo, va rammentato che la giurisprudenza della Corte EDU, sottolineando il ruolo fondamentale della stampa di “cane da guardia” della democrazia (Corte EDU, caso Bladet Tromso e Stensaas c. Norvegia, 20.5.1999; Corte EDU, caso Cumpana e Mazare c. Romania, 17.12.2004; Corte EDU, caso Riolo c. Italia, 17.7.2008; Corte EDU, caso Gutierrez Suarez c. Spagna, 1.6.2010; Corte EDU, caso Belpietro c. Italia, 24.9.2013), e riconoscendo la libertà di espressione come presupposto e chiave di volta di una società democratica, nonché garanzia contro le ingerenze dell’autorità pubblica, nel valutare la proporzione delle misure restrittive, con particolare riferimento alle sanzioni penali, e pur riconoscendone l’astratta compatibilità con la libertà di espressione, ha da tempo affermato, a partire dal leading case Cumpadà e Mazare c. Romania del 2004, che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, può essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza; al di fuori di tali ipotesi, infatti, la stessa previsione di una pena detentiva ha un effetto dissuasivo (“chilling effect”) nei confronti del giornalista nell’esercizio della libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU (Corte EDU, caso Cumpanà e Mazare c. Romania, 17.12.2004, p. 115; Corte EDU, caso Norwood c. Regno Unito, 16.11.2004, in tema di discorso islamofobo; Corte EDU, caso Pavel Ivanov c. Russia, 20.2.2007, in tema di discorso antisemita).

Ciò posto, il profilo della proporzione del trattamento sanzionatorio è divenuto di particolare attualità proprio con riferimento all’ordinamento italiano, e, dunque, oggetto di un diffuso dibattito giurisprudenziale e dottrinale, riguardante, in particolare, la astratta previsione della pena detentiva per le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa punite ai sensi della L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 13 e la compatibilità con l’art. 10 CEDU.

Infatti, nel caso Belpietro c. Italia, la Corte EDU ha ribadito l’incompatibilità tra l’art. 10 CEDU e l’applicazione della pena detentiva, ancorché sospesa, al giornalista ritenuto responsabile di omesso controllo ai sensi dell’art. 57 c.p., ritenendo che il caso non fosse “caratterizzato da alcuna circostanza eccezionale che giustificasse il ricorso ad una sanzione così severa” (Corte EDU, caso Belpietro c. Italia, 24.9.2013); principio ribadito anche nel caso Ricci c. Italia, immediatamente successivo (Corte EDU, 8.10.2013).

3.2. In tale quadro interpretativo la Corte di Cassazione, in relazione ad un caso (“Sallusti”) che ha sollecitato ampi dibattiti pubblici, aveva inizialmente affermato la legittimità “convenzionale”, in relazione all’art. 10 CEDU, dell’inflizione della pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione di una notizia falsa, configurandosi in tal caso una delle “ipotesi eccezionali” individuate dalla giurisprudenza della Corte EDU (Sez. 5, n. 41249 del 23/10/2012, Sallusti, Rv. 253753).

In contrasto con tale orientamento interpretativo si colloca, invece, la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di diffamazione a mezzo della stampa, l’inflizione della pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali, annullando con rinvio la decisione con la quale era stata irrogata la sanzione detentiva in considerazione della grave portata diffamatoria del fatto, commesso mediante la pubblicazione di una notizia falsa su un articolo di giornale e della personalità degli offesi (militari in carriera accusati di aver commesso un furto in danno di un collega) (Sez. 5, 13/03/2014, Strazzacapa, Rv. 260398).

A diverse conclusioni è invece pervenuta la giurisprudenza che ha ribadito la legittimità, in relazione all’art. 10 CEDU, dell’inflizione della pena detentiva in ipotesi di condanna per il delitto di diffamazione a mezzo stampa commesso mediante pubblicazione di una notizia non rispondente al vero, nella piena consapevolezza di tale falsità da parte del giornalista, configurandosi in tal caso una delle “ipotesi eccezionali” individuate dalla giurisprudenza della Corte EDU, evidenziando che la condotta accertata, riguardante la divulgazione di una notizia falsa, rimane del tutto estranea all’ambito di applicazione dell’art. 10 CEDU, indipendentemente dalle potenzialità diffusive dell’offesa arrecata alla reputazione del soggetto passivo, in quanto la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo ribadisce come la ricerca della verità storica sia parte integrante della libertà di espressione, e “nulla ha a che vedere con la gratuita volontà svincolata dal diritto di informazione del pubblico su fatti reali – di criminalizzare una persona” (Sez. 5, 17/02/2017, n. 6333, Di Palo; Sez. 5, 28/09/2015, n. 39195, Torru, Rv. 264834).

3.3. Successivamente, la Corte di Strasburgo è nuovamente intervenuta, a proposito del c.d. “caso Sallusti”, e, richiamandosi in larga parte al precedente Belpietro c. Italia del 2013, ha affrontato la questione se la sanzione penale detentiva imposta per il mancato controllo del direttore sull’altrui condotta giornalistica sia una limitazione necessaria al diritto di manifestazione del pensiero ai fini del mantenimento di una società democratica.

Tanto premesso, con la recente decisione del 2019, la Corte di Strasburgo ha ribadito che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa o commutata, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, possa essere compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza; circostanze che non ricorrevano nella fattispecie concreta (Corte EDU, caso Sallusti c. Italia, 7.3.2019).

3.4. In seguito all’ennesima pronuncia della Corte EDU, nella giurisprudenza di merito è stata sollevata, con due distinte ordinanze, questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’art. 595 c.p., comma 3 e L. n. 47 del 1948, art. 13, in relazione al parametro interposto di cui all’art. 117 Cost., ed all’art. 10 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea.

Con l’ordinanza n. 131 del 26 giugno 2020 la Corte Costituzionale, adottando il medesimo schema decisorio già seguito per il “caso Cappato” nel giudizio di legittimità della fattispecie di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. (C. Cost. 207/2018), e tenendo conto della pendenza in Parlamento di diversi progetti di legge in materia di revisione della disciplina della diffamazione a mezzo stampa, ha rinviato di un anno la decisione, demandando al legislatore “la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica”, e, dall’altro, “di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale”, disegnando “un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco”, che contempli non solo il ricorso a sanzioni penali non detentive e a rimedi civilistici e riparatori, ma anche a “efficaci misure di carattere disciplinare”, e che riservi la pena detentiva soltanto alle condotte che “assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”.

Nel richiamare l’elaborazione della giurisprudenza della Corte EDU, la Corte Costituzionale ha sottolineato che il bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione “non può (..) essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni”; ed è, dunque, “necessaria e urgente una complessiva rimeditazione” del bilanciamento, divenuto ormai inadeguato anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU, e necessita di una rimodulazione in grado di “coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica (..) con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi”, esposte a rischi maggiori rispetto al passato, considerando gli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”.

3.5. Proprio richiamando la decisione costituzionale, la Corte di Cassazione ha recentemente affermato che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, spetta al giudice di merito accertare la ricorrenza dell’eccezionale gravità della condotta diffamatoria attributiva di un fatto determinato – che implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio -, che, secondo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, sola giustifica l’applicazione della pena detentiva (Sez. 5, n. 26509 del 09/07/2020, Carchidi, Rv. 279468).

3.6. Ciò posto, va dunque affrontata la questione se la pena detentiva debba ritenersi sproporzionata anche nei casi di condanna per diffamazione commessa non con il mezzo della stampa, o comunque non nell’esercizio dell’attività giornalistica e del connesso diritto di cronaca e di critica.

3.6.1. Invero, la giurisprudenza della Corte EDU è stata elaborata con precipuo riferimento alla proporzione della pena detentiva nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica giornalistica, per l’effetto dissuasivo (c.d. chilling effect) che può determinare sulla libertà di espressione della stampa in generale, considerato il “watch-dog” della democrazia.

Tuttavia, va rilevato che la giurisprudenza Europea ha attribuito rilievo al rischio di effetto dissuasivo (chilling effect) anche in relazione all’esercizio del diritto di critica nei confronti degli organi giudiziari, come nel caso Morice c. Francia, in cui la Grande Chambre è intervenuta sul tema dei limiti del diritto di critica dell’avvocato nei confronti dell’operato di un magistrato (Corte EDU, Grande Chambre, caso Morice c. Francia, 23.4.2015), affermando che, se da un lato l’esercizio legittimo del diritto di critica non può estendersi fino a minare l’immagine di imparzialità del sistema giudiziario e dunque la fiducia in esso dei consociati, dall’altro lato la magistratura rappresenta un’istituzione fondamentale dello Stato, sicché il diritto di critica nei confronti dell’operato dei suoi esponenti corrisponde ad un interesse pubblico, e gode di limiti più ampi di quello esercitabile nei confronti dei normali cittadini, purché la critica non si traduca in “attacchi gravemente lesivi e infondati” (“gravely damaging attacks that are essentially unfounded”, p.p. 131); ciò posto, nel solco della propria consolidata giurisprudenza in materia, la Corte EDU ha preso in considerazione anche i profili della natura e della severità della sanzione irrogata al ricorrente, ribadendo il dovere di self-restraint degli Stati rispetto all’utilizzo del diritto penale in materia di libertà di espressione, e ritenendo, con riferimento al caso di specie, che la sanzione pecuniaria di 4.000,00 Euro fosse di per sé eccessiva e dunque comportasse quel rischio di chilling effect idoneo a porla in contrasto con la tutela offerta dall’art. 10 CEDU (Corte EDU, Grande Chambre, caso Morice c. Francia, 23.4.2015).

Analogamente nel recente caso L.P. e Carvalho c. Portogallo, la Corte EDU ha ravvisato una violazione dell’art. 10 CEDU in relazione alla condanna, rispettivamente per diffamazione e per oltraggio, subita da due avvocati per dichiarazioni offensive negli scritti difensivi (Corte EDU, caso L.P. e Carvalho c. Portogallo, 8.10.2019), affermando che le sanzioni inflitte, benché di modesto ammontare, possono determinare un c.d. chilling effect, un effetto dissuasivo sulla professione forense in generale, nella difesa degli interessi dei clienti da parte degli avvocati.

3.6.2. Al riguardo, va rilevato che anche l’ordinanza n. 131 del 2020 della Corte Costituzionale ha evidenziato la necessità di una rimeditazione del bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione che tenga conto anche “della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni”, e degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in Internet”.

In altri termini, l’ordinanza “monito” non sembra circoscrivere l’opportunità di una rimeditazione della necessità della pena detentiva ai soli casi di esercizio dell’attività giornalistica, estendendo la valutazione anche ai casi di rapida e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks, come nella fattispecie in esame.

3.6.3. Questo Collegio ritiene, dunque, che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione (nella specie, Internet), anche se non commesso nell’ambito dell’attività giornalistica, possa essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

Invero, alla stregua di una interpretazione convenzionalmente conforme, va osservato che l’effetto dissuasivo (chilling effect) è stato ravvisato dalla Corte EDU anche al di fuori dell’ambito dell’attività giornalistica, con riferimento all’esercizio del diritto di critica degli avvocati nei confronti dell’attività di un magistrato.

Sotto il profilo costituzionale, invece, va rilevato che escludere la pena detentiva – riservandola soltanto ai c.d. discorsi d’odio – alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell’esercizio dell’attività giornalistica, rischia, da un lato, di compromettere il principio di uguaglianza (art. 3 Cost., comma 1) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, coloro che commettano il fatto non nell’esercizio dell’attività giornalistica), e, dall’altro, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost., comma 2), prevedendo un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva offensività, rispetto a quelli commessi nell’esercizio dell’attività giornalistica.

4. Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte di Appello di [Omissis], ed il rigetto del ricorso nel resto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte di Appello di [Omissis].

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