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«È costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della l. 10 dicembre 2014, n. 183) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella l. 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio“».
«Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183) sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere, e sono, nell’esperienza concreta diverse. Con il prevedere una tutela economica che può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza».
La massima poc’anzi citata è estratta dalla sentenza della Corte Costituzionale (Corte Cost., 08/11/2019, n. 194), che si è espressa sui criteri di determinazione dell’indennità di licenziamento.
La Consulta punta il dito sul parametro dell’anzianità di servizio, chiarendo che tale parametro non deve ritenersi l’unico elemento che il giudice del lavoro deve valutare nel liquidare l’indennità spettante al lavoratore a fronte di un licenziamento illegittimo.
La questione di illegittimità costituzionale
La questione di costituzionalità del nuovo contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, introdotta nel più ampio contesto di riforma giuslavorista denominata Jobs Act veniva sollevata dal Tribunale di Roma con ordinanza 26/07/2017.
Con detta ordinanza veniva denunziata la violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., del diritto al lavoro tutelato dagli artt. 4 e 35 Cost., nonché delle norme dell’Unione europea e delle convenzioni internazionali, in violazione degli artt. 76 e 117, comma 1, Cost.
In specie, la previsione di un’indennità fissa e crescente solo in base all’anzianità di servizio non costituirebbe, secondo il rimettente, un adeguato ristoro per i lavoratori assunti dopo il 7/03/2015 ed ingiustamente licenziati. Tale irragionevole e sproporzionato regresso di tutela, infatti, oltre a determinare una disparità di trattamento fra vecchi e nuovi assunti, non supererebbe il test del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco imposto dal giudizio di ragionevolezza.
Lo stesso rimettente anticipa che le considerazioni in tema di non manifesta infondatezza sono incentrate sul contrasto delle disposizioni censurate con: l’art. 3 Cost., perché «l’importo» dell’indennità risarcitoria da esse prevista non ha «carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie» e perché la totale eliminazione della discrezionalità valutativa del giudice
«finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro»;
gli artt. 4 e 35 Cost., perché
«al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, è attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso»;
gli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., perché le sanzioni previste per il licenziamento illegittimo sono
«inadeguat[e]» rispetto a quanto previsto dagli obblighi discendenti, tra l’altro, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla Carta sociale europea.
Il rimettente denuncia l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, in quanto dispone che il giudice, una volta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, che deve essere di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, entro una soglia minima e una soglia massima.
Non è dunque il quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l’indennità al cuore delle doglianze, ma il meccanismo di determinazione dell’indennità, configurato dalla norma censurata.
Il rimettente lamenta, infatti, che la norma in esame introduce un criterio rigido e automatico, basato sull’anzianità di servizio, tale da precludere qualsiasi «discrezionalità valutativa del giudice», in violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto in contrasto con l’esigenza di assicurare un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subìto dal lavoratore, nonché un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente.
La decisione della Consulta
La Consulta, con la pronuncia in commento, nel riitenere non fondate tutte le altre questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Roma, dichiara, invece, fondata la questione di legittimità costituzionale in relazione al solo art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015.
La Corte, infatti, riconosce che il meccanismo di quantificazione dell’indennità risarcitoria introdotto dal Jobs Act operante entro limiti predefiniti connota l’indennità come rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. L’indennità assume, infatti, i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur volendone fornire la relativa prova. Nonostante il censurato art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 diversamente dal vigente art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970 (c.d. statuto dei lavoratori) non definisca l’indennità ‘onnicomprensiva’, è palese la volontà del legislatore di predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo, in conformità al principio e criterio direttivo dettato dalla legge di delegazione di prevedere un indennizzo economico ‘certo’.
Il giudice delle leggi rileva, innanzitutto, il contrasto di tale disciplina con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse. Nel prestabilirne interamente il quantum in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio, il Jobs Act connota l’indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. Tuttavia, è un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato dipende, nei vari casi, da una pluralità di fattori: l’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è solo uno dei tanti.
«La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere, e sono, nell’esperienza concreta diverse. Con il prevedere una tutela economica che può non costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione censurata comprime l’interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza».
La Corte chiarisce, ancora, che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui determina l’indennità in un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», contrasta altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente (quarto dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente).
Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce né un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa degli artt. 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost., che tale interesse, appunto, proteggono.
Documenti&Materiali
Scarica il testo della sentenza della Corte Cost., 08/11/2018, n. 194