CNF, 28/12/2019, n. 226
«Il giudizio dinanzi il CNF è da considerarsi giudizio devolutivo sicché il campo decisionale è circoscritto dai motivi di gravame.
Il CNF, quale giudice di legittimità e di merito, in sede di appello può apportare alla decisione le integrazioni che ritiene necessarie, sopperendo, eventualmente, così ad una motivazione inadeguata ed incompleta.
Al ricorso proposto innanzi al Consiglio Nazionale Forense avverso i provvedimenti disciplinari a carico degli avvocati non si applica né l’art. 342 cpc sull’atto di appello, in ragione della natura amministrativa e non giurisdizionale che connota la fase del procedimento di competenza dei locali Consigli dell’ordine, né il principio della cosiddetta “autosufficienza” del ricorso, atteso che esso, sebbene debba contenere l’enunciazione specifica dei motivi su cui si fonda, a norma dell’art. 59 del R.D. 22/1/34 n. 37, introduce un giudizio che non è limitato alla verifica della legittimità del provvedimento, bensì esteso anche al merito, sicché nulla impedisce al CNF di prendere in esame il procedimento di primo grado nella sua interezza.
La mancanza eventuale di adeguata motivazione non costituisce motivo di nullità della decisione del COA territoriale in quanto, alla motivazione carente il CNF, giudice di appello, può apportare le integrazioni che ritiene necessarie per cui l’eventuale inadeguatezza, incompletezza ed addirittura assenza della motivazione della decisione di primo grado può trovare completamento nella motivazione della decisione in secondo grado in relazione a tutte le questioni sollevate nel giudizio sia essenziali che accidentali» (Massima non ufficiale)
FATTO
Con ricorso depositato il 6/10/14 l’avv. [Omissis] proponeva impugnazione avverso la decisione del COA di [Omissis] del 7/11/11-16/06/14, notificata il 5/08/14, con la quale gli era stata inflitta la sanzione della censura. Il procedimento era stato rubricato dal COA di [Omissis] a seguito di un esposto del 13/01/2010 avanzato dal dott. [Omissis] con il quale riferiva che il padre, [Omissis], negli anni ’90 si era rivolto all’avv. [Omissis] per avviare una causa di lavoro contro la soc. [Omissis] Spa di [Omissis]. La causa veniva promossa dinanzi il Tribunale di [Omissis] che rigettava la domanda così come la Corte di Appello rigettava l’appello.
Il [Omissis] decideva di proporre ricorso per Cassazione e, non essendo l’avv. [Omissis] abilitato al patrocinio innanzi le magistrature superiori, questi gli prospettava la necessità dell’assistenza di un collega cassazionista di Roma, individuato nell’avv. Prof. [Omissis] il quale chiedeva in via anticipata un compenso di euro 10 mila che venivano pagati a mezzo quattro vaglia postali. L’avv. [Omissis] aveva predisposto il ricorso, poi la memoria difensiva e le note per la discussione, che trasmetteva all’avv. [Omissis].
La Suprema Corte rigettava il ricorso ed il 14/01/2009 il [Omissis] pagava alla controparte 20 mila euro di spese del giudizio ed in concomitanza di tale pagamento riferiva ai propri figli di avere saldato l’avv. [Omissis] per ogni spettanza.
Nel novembre 2009 l’avv. [Omissis] inviava al [Omissis] preavviso di fattura per €19.320,00 con oggetto “[Omissis]-[Omissis] Cassazione”. La richiesta veniva riscontrata dal dott. [Omissis], figlio di [Omissis], dal momento che il padre era stato colpito da emorragia cerebrale ed era incapace di intendere, il quale riferiva risultargli che il padre avesse regolato ogni spettanza. L’avv. [Omissis] rispondeva di non avere mai incassato somme per il giudizio di cassazione, al quale si riferiva la notula redatta “in applicazione di quanto concordato”, ed all’ennesima risposta negativa del dott. [Omissis] prospettava azione giudiziale per il saldo integrale delle proprie spettanze commisurato, naturalmente, al valore della causa e riguardante tutti i gradi della controversia non avendo mai riconosciuto il pagamento delle sue spettanze relative ai due gradi di giudizio.
Il Dott. [Omissis] riteneva censurabile il comportamento dell’avv. [Omissis] perché aveva preteso di essere pagato almeno in parte in danaro contante e con assegni bancari alla moglie evidentemente per eludere il fisco; aveva consigliato ricorso per cassazione ad un cliente novantenne; aveva presentato un avviso di parcella per il ricorso in Cassazione di cui si era occupato un altro avvocato già pagato dal padre; aveva richiesto il pagamento di € 19.320,00 dopo quasi un anno implicitamente ammettendo di essere stato pagato per poi smentire la cosa pochi giorni dopo; aveva ingiustamente prospettato il ricalcolo del costo di prestazioni che risultavano essere già state pagate.
Dell’esposto veniva data comunicazione all’attinto che dimetteva controdeduzioni chiarendo che la causa aveva un valore superiore a 6 milioni di euro e documentava di avere costantemente relazionato dell’andamento della causa il dott. [Omissis] e di avere percepito e fatturato la somma di lire 12.240.000 e poi di € 9.832,00 per i precedenti gradi di giudizio. Precisava che erano stati entrambi i [Omissis], padre e figlio, a chiedergli di essere parte attiva anche nel giudizio per Cassazione, in particolare nella redazione degli atti, per cui mai avevano messo in discussione che si trattasse di attività che avrebbe dovuto essere remunerata in maniera distinta rispetto alle competenze del prof. [Omissis] ed esposte sotto i minimi di tariffa. Ribadiva di non avere mai inviato note a saldo dei primi due gradi di giudizio stante la mole di attività da trasferire per cui era stato più comodo redigere quella di Cassazione che comprendeva meno voci. Deduceva, infine, di avere predisposto le bozze degli atti in Cassazione, di avere percepitoselo acconti e che, dopo il giudizio di primo grado, aveva raggiunto un accordo con il cliente, secondo cui il compenso complessivamente convenuto doveva ritenersi spalmato sui tre gradi del giudizio anche se non andava a soddisfare neppure quanto maturato per il primo grado. La parcella per il grado di Cassazione risentiva di tale spalmatura anche se poi aveva ritenuto di giustificarla facendo riferimento alla tariffa ed all’attività svolta.
In data 11/10/2010 il COA valutava privo di fondamento l’esposto con riferimento alla pretesa percezione da parte dell’avv. [Omissis] di somme non fatturate, al ruolo che lo stesso avrebbe avuto circa le competenze percepite dall’avv. [Omissis] e alla pretesa inadeguatezza delle informazioni rese al sig. [Omissis]. Riteneva, viceversa, necessario approfondire in dibattimento sulla richiesta di compenso per l’attività che l’attinto non era abilitato a svolgere in quanto privo del titolo di cassazionista e sulla richiesta al cliente, minacciando l’avvio di azione giudiziale, di un compenso diverso e maggiore di quello convenuto.
Deliberava l’adozione dell’incolpazione per la violazione degli artt. 21,43 e 60 CDF in relazione all’art. 38 L. Professionale, con riguardo alla causa di lavoro definitasi negativamente con sentenza della Corte di Cassazione, perché pretendeva dal cliente [Omissis] il pagamento di un compenso di € 15.785,01 oltre accessori in riferimento ad attività che non poteva espletare per difetto di abilitazione al patrocinio innanzi le giurisdizioni superiori e perché a seguito del mancato pagamento della proposta di parcella di € 15.785,01 oltre accessori pretendeva dal cliente, minacciando l’avvio di azione giudiziale, la corresponsione di un compenso maggiore e diverso rispetto a quello già convenuto, pari a quello fatturato, per l’assistenza nei tre gradi di giudizio.
Il COA di [Omissis] fissava l’udienza dibattimentale e l’avv. [Omissis], a mezzo del proprio difensore, depositava memoria difensiva con allegata raccomandata 13/10/11 con la quale aveva rinunciato al compenso dichiarando di non avere più nulla a pretendere per la pratica e che conseguentemente veniva meno l’oggetto dell’esposto. Deduceva di avere svolto solo attività collaborativa del tutto lecita (attività di “comparsista”) e richiesta dal cliente e, pertanto, era lecita la richiesta di compenso per tale attività; che nessuna richiesta di compenso maggiore era stata avanzata dall’attinto il quale aveva solo prospettato che, in ipotesi di contenzioso, avrebbe agito per il recupero integrale delle proprie spettanze secondo tariffa; evidenziava il difetto del profilo soggettivo della responsabilità avendo agito, su richiesta del cliente, in piena trasparenza ed attuando un comportamento conforme a prassi consolidata secondo cui il professionista dei gradi di merito collabora con quello incaricato per il giudizio di legittimità.
Eccepiva il difetto di competenza del COA di [Omissis] ritenendo inderogabilmente competente il CNF trattandosi di materia riferita all’iscrizione all’albo dei cassazionisti. Prospettava, infine, la prescrizione per essere stata la bozza del ricorso per cassazione redatta neL giugno 2005 e la notifica del capo di incolpazione avvenuta nell’ottobre 2010.
Concludeva per il proscioglimento con la formula più ampia ed in subordine per la declaratoria di incompetenza del COA in favore del CNF ovvero per la prescrizione. Il COA territoriale rigettava le eccezioni preliminari ed affermava la responsabilità dell’avv. [Omissis] in riferimento ad entrambi i capi di imputazione e, riconosciuto il vincolo della continuazione, gli comminava la sanzione della censura.
Avverso la decisione del COA di [Omissis] insorgeva l’avv. [Omissis] proponendo ricorso col quale eccepiva la violazione e, comunque, la falsa applicazione degli artt. 38 L. Professionale e 21, 43 e 60 CDF per difetto dell’elemento materiale degli illeciti contestati, la carenza e, comunque, l’illogicità della motivazione, la carenza di istruttoria nonché il difetto dei profili oggettivi e soggettivi dei presunti illeciti.
Chiariva che l’attività svolta non era consistita nell’esercizio professionale senza titolo dinanzi alla Corte di Cassazione, cioè nel compimento di atti tipici di quel giudizio, in quanto non aveva sottoscritto alcun mandato, non aveva redatto gli atti depositati presso la Suprema Corte, non aveva firmato quegli atti e non aveva messo piede in Cassazione. Aveva svolto un’attività di consulenza, richiesta dal cliente, diretta a trasfondere all’avv. [Omissis] tutti gli elementi di fatto dei diritto oggetto e tema di studio dei due gradi di merito. Pertanto il COA doveva giudicare se tale attività di supporto avrebbe dovuto essere o meno compensata mentre, nella decisione, aveva capovolto il thema decidendum arrivando alla conclusione che l’incolpato aveva svolto attività di cassazionista per la quale non poteva chiedere il compenso (violazione dell’art. 21CDF). Conseguentemente nella fattispecie mancava del tutto l’elemento materiale dell’addebito perché non vi era stata attività di cassazionista e non vi era stata una richiesta di compenso per quell’attività.
Deduceva che l’art. 38 L. Professionale era stato probabilmente richiamato come norma di riferimento generale perché non rilevava nella specie dal momento che non veniva contestato un mancato o ritardato o trascurato compimento di atti inerenti al mandato che costituiva la fattispecie configurata da tale articolo e identico discorso poteva farsi per l’art. 60 CDF trattandosi di una “norma di chiusura” che non rilevava per la fattispecie in esame.
Deduceva, ancora, che il COA territoriale erroneamente ed immotivatamente aveva ritenuto che le bozze degli atti inviati al prof. [Omissis] connotavano un’attività tipica ed esclusiva del cassazionista mentre nella specie quest’ultimo, ricevute le bozze, aveva elaborato poi atti completamente diversi per impostazione e contenuto, essendo stato scelto ed avendo ricevuto mandato dal [Omissis] ed avendo la piena ed esclusiva paternità degli atti. Viceversa il COA aveva considerato il prof. [Omissis] alla stregua di un qualsiasi domiciliatario scelto dal presunto dominus (avv. [Omissis]) senza neppure consultare il cliente. La decisione impugnata andava censurata e riformata perché la violazione dell’art. 21 CDF risultava del tutto insussistente sotto il profilo oggettivo.
Deduceva, ancora, la insussistenza degli elementi oggettivi anche in relazione alla contestata fattispecie del terzo comma dell’art. 43 CDF, e quindi l’erroneità e l’ingiustizia della decisione impugnata, in quanto nessuna richiesta di un compenso maggiore di quello già indicato era avvenuta ed il predetto articolo non ammetteva, per la sua natura sanzionatoria, interpretazioni analogiche o estensive e, pertanto, per verificarsi l’illecito doveva essere stata formalizzata una richiesta di un compenso maggiore di quello in precedenza indicato. L’incolpato non aveva mai chiesto un compenso maggiore di quello indicato ma aveva solo ricordato che in caso di contenzioso avrebbe dovuto far liquidare la parcella dal COA, parcella da attenersi rigorosamente alla tariffa: non si era trattato di una minaccia ma l’espressione di un obbligo. In altre parole vi era un implicito richiamo ad un dovere del cliente riferito a un debitore che non contestava un quantum ma che addirittura obiettava con ragioni contraddittorie l’an debeatur. Deduceva, ancora, la mancanza dell’elemento soggettivo del preteso illecito disciplinare in quanto era stato richiesto espressamente dagli esponenti di prestare la sua attività collaborativa anche in occasione del giudizio per Cassazione quando aveva comunicato di non poter patrocinare in Cassazione il [Omissis]; si era adoperato per ricercare non un prestanome ma un professionista di gran rilievo e prestigio per avanzare ricorso in Cassazione; il prof. [Omissis] era stato scelto dagli esponenti in una rosa di tre candidati; l’incolpato aveva collaborato con l’avv.[Omissis] adoperandosi anche per tutta una serie di adempimenti p[a]ratici oltre che per la redazione delle bozze degli atti; che tale attività collaborativa era ritenuta lecita sulla scorta di un’imponente prassi degli studi professionali pubblici e privati nonché dell’Avvocatura dello Stato e delle Avvocature civiche per cui non si era potuta realizzare la sussistenza di un elemento psicologico di dolo o colpa nel suo comportamento in assenza di diversi opinamenti da parte di qualsivoglia COA italiano.
Concludeva, infine, che gli addebiti contestati erano del tutto insussistenti sotto il profilo oggettivo e soggettivo per cui chiedeva, in riforma della decisione impugnata, nel merito il suo più ampio proscioglimento e, in via subordinata, in istruttoria, la ammissione della prova per testi articolata nel ricorso.
Dopo la rituale discussione il ricorso è stato assegnato a sentenza.
DIRITTO
Giova segnalare, con riguardo alla successione delle fattispecie disciplinari, come gli illeciti di cui agli artt. 21, e 43 CDF, siano stati riprodotti negli art. 5 (Condizione per l’esercizio dell’attività professionale), sprovvisto di autonomo apparato sanzionatorio, nell’art.36 (Divieto di attività professionale senza titolo e di uso di titoli inesistenti) e nell’art. 29 (Richiesta di pagamento) del nuovo CDF, che prevedono autonomi apparati sanzionatori.
Il Nuovo Codice Deontologico Forense, sebbene informato al principio della tipizzazione della condotta disciplinarmente rilevante, “per quanto possibile” rinvia ai principi generali ed al tipo di sanzione applicabile in ipotesi che presentino, seppure parzialmente, analogie con il caso specifico. Nella fattispecie, pertanto, qualora non si volesse considerare esemplificativo il comportamento posto in essere dal ricorrente per violazione degli artt. 21 e 43 del vecchio CDF ma anche solo suscettibile di ledere i principi generali espressi dal Codice Deontologico quali, probità, diligenza, lealtà e correttezza allora potrebbe invocarsi la violazione dei principi di cui agli artt. 5, 29 e 36 del nuovo CDF.
Ciò posto, preliminarmente va rilevato che le due eccezioni, sollevate dinanzi il COA territoriale, la prima di incompetenza del COA procedente in favore del CNF trattandosi di materia attinente all’iscrizione all’albo speciale dei patrocinatori innanzi le giurisdizioni superiori, e l’altra di prescrizione dell’azione disciplinare dovendosi ritenere la consumazione del presunto illecito deontologico col deposito del ricorso in Cassazione, non sono state riproposte e, pertanto, non verrà dato conto delle pronunce rilevanti circa le citate doglianze in quanto il giudizio dinanzi il CNF è da considerarsi giudizio devolutivo sicché il campo decisionale è circoscritto dai motivi (CNF sent. 12/12/2014 n. 183 – CNF sent. 16/04/14 n. 68).
In merito alla prassi relativa ai compensi nell’ambito delle Avvocature di Stato, degli uffici legali pubblici e degli studi associati privati la prassi amministrativa, a differenza degli usi (costituente fonte del diritto) non ha efficacia “erga omnes” e non ha vero carattere di generalità limitandosi a connotare il comportamento di fatto dei singoli uffici nei rapporti interni e con il pubblico, senza essere, tuttavia, accompagnata dalla convinzione della sua doverosità (Cass. Civ. III sez.19/01/2006 n.1018). La prassi amministrativa, di cui sono espressione le circolari, le risoluzioni o i singoli provvedimenti della P.A., non è suscettibile di produrre alcun diritto vivente vincolante per il giudice nell’interpretazione di disposizioni di legge (Cass, Civ. sez lav. 24/11/2015 n.23960).
In merito al travisamento dei fatti da parte del COA territoriale e sulla asserita erronea ricostruzione degli stessi si osserva che il Consiglio territoriale ha ampio potere discrezionale nel valutare conferenza e rilevanza delle prove acquisite nel procedimento conformemente al principio del libero convincimento. Non vi è dubbio alcuno che l’attività istruttoria espletata dal COA debba ritenersi correttamente motivata allorquando la valutazione disciplinare sia avvenuta non già solo sulla base delle dichiarazioni dell’esponente ma anche dell’analisi delle risultanze documentali acquisite agli atti del procedimento che rappresentano certamente criterio logico-giuridico inequivocabile a favore della completezza e definitività dell’istruttoria (CNF sent. 28/03/14 n. 43 – CNF sent. 12/03/15 n.27).
In merito alla richiesta di prova testimoniale avanzata dal ricorrente, non risulta dalla copia della pronuncia del COA e del ricorso dell’incolpato che la difesa dell’avv. [Omissis], ovvero lo stesso avvocato [Omissis] abbia richiesto l’escussione del teste [Omissis] al COA e che il COA vi abbia provveduto negativamente. Conseguentemente o la richiesta di escussione non è stata perpetrata al COA ovvero è stata perpetrata ma non ammessa.
Sul punto la sentenza n. 21948 del 28/10/15 della Suprema Corte a Sezioni Unite stabilisce che in tema di procedimenti disciplinari a carico di avvocato Il Consiglio dell’Ordine ha il potere di valutare la convenienza a procedere all’esame di tutti o di parte dei testimoni ammessi, e, quindi, revocare l’ordinanza ammissiva e di dichiarare chiusa la prova quando ritenga superflua la loro ulteriore assunzione perché in possesso, attraverso la valutazione delle risultanze acquisite di elementi sufficienti a determinare l’accertamento completo dei fatti da giudicare.
Inoltre la discrezionalità del giudicante in ordine all’introduzione nel procedimento dei mezzi istruttori fa sì che non sia censurabile né possa determinare la nullità della decisione la mancata audizione dei testi indicati ove risulti che il Consiglio abbia ritenuto quegli elementi ininfluenti ai fini della decisione per essere il Collegio già in possesso di elementi sufficienti a determinare l’accertamento (CNF sent. 23/07/! 5 n. 135 – CNF sent. 14/03/15 n. 54- CNF sent 24/11/14 n.160 – ed altre).
Va inoltre osservato, come da giurisprudenza costante del CNF, che quest’ultimo, quale giudice di legittimità e di merito, in sede di appello può apportare alla decisione le integrazioni che ritiene necessarie, sopperendo, eventualmente, così ad una motivazione inadeguata ed incompleta (CNF- Sentenza 20/03/14 n. 43). Pertanto al ricorso proposto innanzi al Consiglio Nazionale Forense avverso i provvedimenti disciplinari a carico degli avvocati non si applica né l’art. 342 cpc sull’atto di appello, in ragione della natura amministrativa e non giurisdizionale che connota la fase del procedimento di competenza dei locali Consigli dell’ordine, né il principio della cosiddetta “autosufficienza” del ricorso, atteso che esso, sebbene debba contenere l’enunciazione specifica dei motivi su cui si fonda, a norma dell’art. 59 del R.D. 22/1/34 n. 37, introduce un giudizio che non è limitato alla verifica della legittimità del provvedimento, bensì esteso anche al merito, sicché nulla impedisce al CNF di prendere in esame il procedimento di primo grado nella sua interezza (Cass. civ. sez. Unite 17/06/2013 n. 15122), La mancanza eventuale di adeguata motivazione non costituisce motivo di nullità della decisione del COA territoriale in quanto, alla motivazione carente il CNF, giudice di appello, può apportare le integrazioni che ritiene necessarie per cui l’eventuale inadeguatezza, incompletezza ed addirittura assenza della motivazione della decisione di primo grado può trovare completamento nella motivazione della decisione in secondo grado in relazione a tutte le questioni sollevate nel giudizio sia essenziali che accidentali (CNF 14/03/15 n. 56 – CNF sent. 13/03/15 n. 42 – CNF sent. 28/12/15 n.224 – Cass. SS.UU sent. 4/12/15 n.24708).
Passando all’esame della violazione deontologica addebitata all’avv. [Omissis] (art. 21 CDF previgente, ora 5 e 36 NCDF) si fa rilevare che è principio incontestabile quello in cui pone in essere un comportamento lesivo dei principi di lealtà e correttezza il professionista che sottoscriva una procura per attività da svolgere dinanzi ad un’autorità giudiziaria in ordine alla quale egli sia privo di jus postulandi o che eserciti attività difensionale senza avere conseguito la necessaria abilitazione (nella specie l’incolpato, privo di iscrizione all’albo degli avvocati abilitati all’esercizio dinanzi le giurisdizioni superiori, aveva ricevuto autonomamente il cliente, redatto autonomamente l’atto difensivo, ricevuto una specifica procura a rappresentarlo dinanzi la Corte di Cassazione, trasmesso l’atto al collega per la mera sottoscrizione (CNF 18/12/2009n. 163).
É risultato confermato e documentalmente provato, nel procedimento dinanzi il COA territoriale, che l’avv. [Omissis], non abilitato al patrocinio avanti le giurisdizioni superiori, ha preteso dal cliente [Omissis] il pagamento di attività espletata nel giudizio di cassazione consistita nella redazione di ricorso, di memoria e di “appunti di udienza”. É rimasto provato che anche per il grado di Cassazione il ricorrente ha intrattenuto rapporti diretti con il cliente, ha concordato connesso il compenso, ha autonomamente redatto gli atti, ha insieme al cliente individuato il cassazionista abilitato con cui si è poi rapportato, mantenendo peraltro la gestione dei rapporti con i clienti della pratica, curando la redazione degli atti che l’avvocato cassazionista ha poi ricevuto dall’incolpato, utilizzato e fatto propri dopo un’attività di controllo e di integrazione. Non è pertinente, pertanto, il richiamo alla liceità dell’attività del “comparsista” e alla liceità della collaborazione che, non iscritti all’albo speciale possono prestare a favore di colleghi abilitati, in quanto siffatta collaborazione presenta connotati diversi dalla gestione del rapporto con i clienti, dalla redazione degli atti, dalla definizione dei rapporti economici (con specifico accordo sul compenso), come fatto dall’avv. [Omissis].
Ne consegue l’illiceità della pretesa di ottenere il pagamento di una prestazione discendente da contratto nullo per illiceità dell’oggetto e la responsabilità del ricorrente che in qualche misura deve avere percepito egli stesso tanto da indursi a rinunciare, nel corso del procedimento, alla richiesta di compenso.
Sulla violazione dell’art. 43 previgente CDF (ora art. 29 NCDF) occorre rilevare che nel caso specifico dell’avv. [Omissis] non sembra possa versarsi nell’ipotesi addebitata in quanto egli ha richiesto un compenso per le attività non giudiziali svolte per la proposizione del ricorso in Cassazione, attività che, sia il COA nella decisione che il ricorrente nell’atto di impugnazione, hanno affermato non essere state oggetto di convenzione alcuna tra il professionista ed il cliente. Tuttavia il COA nella parte motiva della decisione afferma che il [Omissis] richiedeva un compenso maggiore di quello già indicato.
Il compenso può ritenersi sproporzionato od eccessivo ex art 43 (ora 29) CDF solo al termine di un giudizio di relazione condotto con riferimento a due termini di comparazione, ossia l’attività espletata e la misura della sua remunerazione da ritenersi equa; solo una volta che sia stato quantificato l’importo ritenuto proporzionato può essere formulato il successivo giudizio disproporzione o di eccessività che presuppone che la somma richiesta superi notevolmente l’ammontare di quella ritenuta equa (CNF sent. 11/06/15 n. 87 – CNF sent.18/03/14 n.29).
Viola l’art. 43 (ora 29 NCDF) l’avvocato che, a causa del mancato spontaneo pagamento delle competenze professionali e senza averne fatta espressa riserva richieda con una successiva comunicazione un compenso maggiore di quello già indicato in precedenza. La riserva deve essere formulata contestualmente alla indicazione del compenso richiesto dall’avvocato dal momento che i destinatari della richiesta devono essere messi in grado di conoscere immediatamente ed inequivocabilmente le conseguenze alle quali vanno incontro in caso di mancato spontaneo pagamento del compenso richiesto dal professionista nell’ammontare specificamente indicato. Le modalità o le forme di esplicitazione della “espressa riserva” devono essere le stesse di quelle utilizzate per la richiesta di pagamento del compenso. Le norme di cui all’art. 43 (ora 29 NCDF) impongono sempre e comunque all’avvocato di attenervisi, a prescindere dal soggetto destinatario della sua richiesta di pagamento del compenso, dal momento che esse non disciplinano affatto soltanto il rapporto dell’avvocato con il cliente o con la parte assistita (CNF sent. 22/12/14 n.203).
Nella fattispecie il [Omissis] non ha mai chiesto un compenso maggiore di quello già indicato ma ha semplicemente ricordato che in caso di contenzioso avrebbe dovuto far liquidarla parcella dal Consiglio dell’Ordine ed essa avrebbe dovuta attenersi rigorosamente alla tariffa. In buona sostanza il dott. [Omissis], nel suo esposto, non contesta il quantum bensì l’an sia perché deduce nell’atto che i compensi sarebbero stati già versati e sia perché l’attività sarebbe stata svolta dal prof. [Omissis] e non dall’avv. [Omissis].
Non vi è nella fattispecie quel termine di raffronto tra un minore importo ed un maggiore importo, cioè il divario alla base della previsione dell’art. 43 cdf, ma una contestazione che si riferisce all’an debeatur in quanto, da un lato, il ricorrente dichiara che non è vero che i compensi siano stati pagati mancando i saldi dei vari gradi di giudizio (e quindi nessuna minaccia, ma la puntualizzazione di un dare avere su cui le parti hanno opinioni diverse) dall’altro lato fa riferimento alla tariffa professionale: il che è l’espressione di un dovere in un contesto nel quale nessuna cifra in difetto e/o in eccesso è stata formulata. In altre parole vi è un implicito richiamo ad un dovere del cliente riferito ad un debitore che non contestava un quantum ma che obiettava con ragioni contraddittorie l’an debeatur.
Occorre, infine sottolineare che la responsabilità disciplinare prevista dall’ordinamento forense e dal codice deontologico prescinde dall’elemento intenzionale del dolo o della colpa essendo sufficiente a configurare la violazione l’elemento della suitas della condotta, inteso come volontà consapevole dell’atto che si compie, dovendo la coscienza e la volontà essere interpretate in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi, di dominarlo: L’evitabilità della condotta tenuta delinea, pertanto, la soglia minima della sua attribuibilità al soggetto, intesa come appartenenza della condotta al soggetto (CNF12/12/14 n. 182).
In merito alla sanzione disciplinare inflitta all’avv. [Omissis], infine, fa fatto rilevare che il COA territoriale ha inflitto quella della censura. In tema di procedimento disciplinare la sanzione è determinata sulla base dei fatti complessivamente valutati e non già per effetto di un computo meramente matematico ovvero in base ai principi codicistici in tema di concorso di reati, per i quali la pena per il reato più grave andrebbe aumentata per effetto della continuazione formale ritenuta, cosicché si debba determinare quantitativamente l’aumento operato sulla pena base per ogni violazione. La sanzione e la sua misura nel complesso idonea va determinata in base alla valutazione complessiva dei fatti, dei comportamenti, delle qualità e soprattutto del disvalore che gli stessi comportamenti determinano nella classe forense (Cons. Naz. Forense20/03/14 n. 39).
Sul punto la Corte di Cassazione, con sentenza n. 3023/2015, ha chiarito che l’art. 65 co.5 della legge n. 247/12 deve essere interpretato nel senso che in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, le norme del nuovo codice deontologico forense si applicano anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli all’incolpato, avendo recepito il criterio del “favor rei” in luogo del criterio del “tempus regit actum”.
Alla stregua delle suddette considerazioni il Consiglio, in accoglimento parziale del ricorso, ritiene esistente la responsabilità disciplinare dell’avv. [Omissis] per la sola violazione dell’art. 36 NCDF (Divieto di attività professionale senza titolo e uso di titoli inesistenti) ed in base alle previsioni di cui all’art 21 (Potestà disciplinare) e 22 (Sanzioni) del NCDF, e alla luce della tenuità della condotta, decide di irrogare la sanzione più favorevole all’incolpato attenuandola in quella dell’avvertimento.
Il ricorso deve essere, pertanto, accolto per quanto di ragione.
P.Q.M.
Visti gli artt. 5, 29 e 36 nonché 21 e 22 NCDF e l’art. 65 co.5 della legge n. 247/12;
Dispone che in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma per finalità di informazione su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati nella sentenza.
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