Verifiche fiscali: alle SS.UU. la problematica degli accertamenti “a tavolino”

By | 25/05/2015

Con una lunga e articolata ordinanza (Cass. Civ., Sez. VI, ordinanza 14/01/2015, n. 527), la Sezione VI della Suprema Corte si è recentemente occupata di un delicata questione interpretativa relativa alla portata della previsione contenuta nell’art. 12, 7° co., 1° periodo, L. 27/07/2000, n. 212 (Statuto del contribuente), la quale, sotto la rubrica «Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali», così dispone:

«nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza. (…)».

La norma

La norma appena richiamata, come è agevole rilevare, prevede alcune garanzie endoprocedimentali in favore del contribuente soggetto a verifica fiscale, stabilendo che (salvo casi di – motivata – urgenza) l’avviso di accertamento conseguente alla verifica stessa possa essere emesso solo dopo che:

  • gli operatori abbiano rilasciato al contribuente copia del processo verbale di chiusura delle operazioni;
  • siano inutilmente decorsi sessanta giorni da tale momento senza che il contribuente abbia comunicato proprie osservazioni e richieste.

Quanto sopra, tuttavia, va letto in raccordo alla previsione di cui al primo comma del medesimo art. 12 L. 212/2000 cit., che delimita il perimetro applicativo delle disposizioni in esso contenute alle ipotesi in cui accessi, ispezioni e verifiche fiscali vengano eseguiti «nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali».

I problemi

Nel quadro sopra delineato, allora, sorgono alcune perplessità di rilievo.

Che accade nel caso in cui l’amministrazione proceda ”a tavolino”, cioè in assenza di accesso nei locali del contribuente (tramite, ad esempi, acquisizione di notizie da altre pubbliche amministrazioni, da terzi, dai questionari inviati dall’Agenzia o da elementi forniti dallo stesso contribuente in sede di colloqui presso l’Ente impositore)?

Fuoriuscendo tale ipotesi dal perimetro testualmente delimitato dall’art. 12, 1° co., L. 212/2000 (che, come si è visto, è circoscritto ai casi di verifiche compiute con accesso fisico ai locali ove il contribuente svolge la sua attività), sarà possibile ipotizzare comunque un dovere dei verificatori di procedere nel senso previsto dal comma settimo della medesima disposizione, in virtù di un generale obbligo dell’Amministrazione di attivare comunque – cioè a prescindere da specifiche norme che lo prevedano – un adeguato e idoneo contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente oggetto di verifica fiscale, preliminarmente all’adozione dell’atto impositivo, a pena di invalidità di quest’ultimo?

In secondo luogo: che succede in caso di violazione delle norme procedimentali poste a presidio del contraddittorio? Il provvedimento finale dovrà essere considerato sempre e comunque nullo? Oppure occorrerà temperare la rigidità di tale conclusione optando per soluzioni intermedie che considerino l’effettiva rilevanza dell’attività partecipativa del contribuente durante la fase istruttoria rispetto all’emanazione del provvedimento finale (che, così, sarà potrà essere considerato illegittimo solo ove emerga che le sue previsioni sarebbero state effettivamente diverse, laddove precedute dal contraddittorio con l’interessato)?

Queste, in sintesi le domande che si pone la Suprema Corte nel precedente in esame.

I limiti testuali posti dall’art. 12, 7° co., L. 212/2000

I fautori della tesi che interpreta restrittivamente il disposto del comma settimo dell’art. 12 L. 212/2000 qui in esame, limitandone l’operatività ai casi di verifiche con accesso fisico presso il contribuente, hanno buon gioco a far leva sull’argomento testuale che sembra escludere l’esistenza di un tale principio generale, posto che il primo comma dell’art. 12 L. 212/2000 cit. circoscrive apertamente l’ambito di operatività delle garanzie riconosciute al contribuente ai soli casi di accesso nei locali di sua pertinenza.

E i medesimi hanno, altresì, nuovamente buon gioco – come ricorda la Suprema Corte nel provvedimento in esame e come emerge pure da Cass. Civ., Sez. VI, 13/06/2014, n. 13588) – a giustificare tale limitazione in base alla considerazione che la ratio di garanzia del contribuente sottesa alle previsioni procedimentali “rigide” di cui citato settimo comma dell’art. 12 L. 212/2000 si esplica nei soli casi in cui

«l’Amministrazione invade la sfera del contribuente nei luoghi di sua pertinenza, ricercando direttamente gli elementi che reputa utili a verificare la sussistenza di attività non dichiarate)»

nei quali, dunque,

«sussiste la specifica esigenza di bilanciare lo squilibrio tra contribuente e Amministrazione, derivante dall’assoggettamento del primo ai poteri ispettivi della seconda, e, quindi, di espandere il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali».

Si tratterebbe, dunque, di una norma di natura palesemente “speciale”, non applicabile, come tale, oltre i casi da essa stessa determinati, e, nello specifico, inapplicabile agli accertamenti condotti “a tavolino”.

Esiste un principio generale di contraddittorio endoprocedimentale?

Senonché, la questione relativa all’applicabilità o meno dell’art. 12, 7° co., L. 212/2000 al di fuori dei limiti testuali di cui al primo comma del medesimo articolo, presuppone, in realtà, la risoluzione di una problematica preliminare di respiro ben più ampio, occorrendo domandarsi se, a livello sistematico, possa o meno dirsi esistente un principio generale di “contradditorio endoprocedimentale tributario”, la cui violazione a sua volta possa dirsi capace di condizionare la stessa validità dell’atto impositivo.

La risposta a tale più generale quesito interpretativo è fondamentale, posto che l’eventuale soluzione positiva del dubbio spazzerebbe via ogni considerazione di natura letterale, imponendo ai verificatori di procedere all’adeguato confronto e contraddittorio con il contribuente sin dai momenti iniziali del processo di formazione della pretesa tributaria. E ciò, a prescindere dall’esistenza di specifiche previsioni di legge e in tutti i casi in cui si proceda a verifica, ivi compresi quelli con metodologia “a tavolino” che qui direttamente interessano.

La risposta negativa

Hanno risolto negativamente il dubbio di cui sopra, ad esempio, Cass. Civ., Sez. V, 29/12/2010, n. 26316, secondo cui non è possibile

«sulla scorta dello stato attuale della legislazione, ritenere esistente un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale»,

nonché, in termini pressoché identici, Cass. Civ., Sez. V, 02/04/2014, n. 7598, secondo la quale

«anche dopo l’entrata in vigore dello statuto dei diritti del contribuente, allo stato attuale della legislazione non si può ritenere esistente un principio generale di contraddittorio in ordine alla formazione della pretesa fiscale»

e, ancora, la già citata Cass. Civ., Sez. VI, 13/06/2014, n. 13588, ove si legge che

«nell’ordinamento non sussiste un principio generale che imponga il contraddittorio fin dalla fase di formazione della pretesa fiscale».

In sostanza, dunque, secondo l’orientamento qui in esame, la previsione dell’art. 12, 7° co., L. 212/2000 non avrebbe alcuna portata generale, ma si limiterebbe a dettare alcune garanzie specifiche a tutela del contribuente nel momento in cui egli è costretto a subire l’accesso dei verificatori nei propri locali, le quali, come recita l’ordinanza qui in commento, vanno intese come

«funzionali a soddisfare una esigenza di tutela specificamente derivante dallo squilibrio che si determina tra contribuente e Amministrazione per effetto di tale accesso e non come espressione di un principio generale di tutela del contraddittorio endoprocedimentale, ossia anteriore alla formazione dell’atto impositivo e quindi finalizzato a garantire la partecipazione del contribuente alla formazione del provvedimento; principio, quest’ultimo, del quale peraltro, nelle sentenze nn. 7598/14 e 13588/14 si mette espressamente in discussione la sussistenza».

La risposta affermativa

Senonché, sulla medesima questione si sono espresse in termini sostanzialmente opposti Cass Civ., Sez. V, 05/02/2014, n. 2594, che ha applicato la norma in questione ad un’ipotesi di avviso di accertamento seguito ad indagini bancarie (annullandolo per mancato rispetto del termine dilatorio di cui al più volte citato art. 12, 7° co., L. 212/2000) e Cass. Civ., Sez. V, 05/12/2014, n. 25759, emessa in fattispecie di abuso del diritto.

Secondo quest’ultima decisione, in particolare, la materia in esame deve essere letta

«alla stregua degli specifici riferimenti, tratti dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui “il rispetto dei diritti di difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo” (cfr. Corte giustizia 18.12.2008, causa C-349/07, Sopropè; id. 22.10.2013, causa C- 276/12, Sabou)»

con la conseguenza che

«i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione” (cfr. Corte di giustizia 24.10.1996, causa C-32/95 P, Lisrestal; id. 21.9.2000, causa C-462/98 P, Mediocurso; id. 12.12.2002, causa C-395/00, Cipriani; id. Sopropè, cit.; id. Sabou, cit.)».

La posizione delle Sezioni Unite

Anche la Suprema Corte, dal canto suo, pare avere imboccato una via interpretativa di segno garantista.

Così, la decisione Cass. Civ., SS. UU., 18/12/2009, n. 26635, espressamente rileva come, in materia di accertamento derivante dall’applicazione degli studi di settore:

«è il contraddittorio – previsto espressamente dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, come modificato dalla L. n. 301 del 2004, art. 1, comma 409, lett. b), e comunque già affermato come indefettibile, a prescindere dalla espressa previsione, dalla giurisprudenza, in ossequio al principio del giusto procedimento amministrativo (v. Cass. n. 17229 del 2006), e dalla prassi amministrativa – l’elemento determinante per adeguare alla concreta realtà economica del singolo contribuente l’ipotesi dello studio di settore».

La più recente pronuncia resa da Cass. Civ., SS. UU., 29/07/2013, n. 18184, ribadisce il concetto, spingendosi anche a determinare quali siano le concrete conseguenze dell’inosservanza, da parte dell’Amministrazione, delle regole poste a tutela del contraddittorio con il contribuente:

«l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento — termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni — determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus»

(vedremo, peraltro, al paragrafo successivo come tale conclusione in termini di illegittimità tout court dell’atto impositivo venga letta in modo perplesso dall’ordinanza di rimessione in commento).

Completa il quadro, infine, Cass. Civ., SS. UU., 18/09/2014, n. 19667, concernente la fattispecie di una iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. 602/1973 eseguita (in epoca precedente all’introduzione, nel corpo di tale disposizione, del comma 2-bis ad opera dell’art. 7 D.L. 70/2011, conv. in L. 106/2011) senza previa comunicazione al contribuente, la quale lapidariamente precisa che il contraddittorio endoprocedimentale

«costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa».

Le perplessità della Sezione VI

Nel quadro sopra delineato, la sesta Sezione, con il provvedimento qui esame, esprime una serie di articolate perplessità, rilevando in sintesi che:

  • non esiste alcuna norma nell’ordinamento che preveda un principio generale di contraddittorio endoprocedimentale in materia tributaria, ma solo «una serie di disposizioni che tale obbligo prevedono nell’ambito di specifici procedimenti»;
  • anche in ambito comunitario, l’applicazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale viene applicato con diversi distinguo e soprattutto in modo tale da temperare le conseguenze della sua violazione (ad esempio sottoponendo il provvedimento finale ad una sorta di “prova della resistenza”, costituita dal verificare se il contraddittorio avrebbe o meno avuto effettiva utilità in relazione al contenuto del provvedimento stesso);
  • volendo, poi, fare discendere l’affermazione del principio in questione dalla normativa comunitaria, occorrerebbe comunque considerare come la diretta applicabilità di essa concernerebbe esclusivamente i procedimenti relativi a tributi c.d. armonizzati, con il conseguente rischio del verificarsi di discriminazioni giuridicamente inaccettabili tra tali fattispecie (sottoposte al principio del contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio) e fattispecie diverse (escluse da tale ambito).

Su tali basi, dunque, la questione viene rimessa alle SS.UU. per stabilire

«se l’affermazione contenuta nella sentenza n. 19667/14 – secondo cui, nella materia tributaria, ogni volta che debba essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente, l’Amministrazione sarebbe tenuta ad attivare, a pena di invalidità dell’atto, il contraddittorio endoprocedimentale “indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva” – trovi fondamento nell’ordinamento nazionale o esclusivamente nel diritto dell’Unione Europea e, in questo caso, quale ne sia la portata applicativa».

Due ulteriori aspetti

Ma il provvedimento in commento non si ferma qui e svolge due ulteriori considerazioni in via, per dire così, subordinata rispetto al quesito principale sopra riportato, valevoli, cioè, nell’ipotesi in cui Sezioni Unite dovessero confermare l’esistenza di un principio di contraddittorio endoprocedimentale, in qualche modo immanente rispetto all’attività accertativa.

Per tale ipotesi, infatti, la Sezione si domanda, in primo luogo, quali debbano essere le concrete modalità di esplicazione di tale principio nelle verifiche “a tavolino”, posto che l’art. 12 L. 212/2000 prevede specifiche indicazioni limitatamente, tuttavia, alle verifiche con accesso ai locali del contribuente; e, in secondo luogo, quali siano le conseguenze del mancato rispetto di dette modalità da parte dell’amministrazione.

Sotto il primo profilo, la Corte ritiene

«che l’ opzione ermeneutica più lineare per garantire il contraddittorio processuale, nei termini delineati dalla sentenza n. 1968/14, nei procedimenti di verifica c.d. “a tavolino” sia quella di applicare anche a tali verifiche il disposto dell’articolo 12, comma 7, l. 212/00».

Sotto il secondo, invece, l’ordinanza in commento sottolinea l’esigenza di optare tra l’opinione che ricollega indefettibilmente alla violazione delle norme procedurali poste a presidio del contraddittorio la sanzione nullità del provvedimento finale in tal modo emanato e l’indirizzo, di matrice comunitaria, secondo cui, invece,

«l’atto emanato in violazione del diritto del contribuente al contraddittorio debba essere giudicato invalido soltanto se, in mancanza di tale violazione, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso».

Tesi, quest’ultima, forse più ragionevole, ma che, oltre a fondarsi su un criterio distintivo alquanto incerto e discrezionale, rischia di creare un pericoloso cortocircuito tra fattispecie di accertamenti “a tavolino”, regolati come sopra, e fattispecie di accertamenti con accesso ai locali del contribuente, nei quali, invece, la giurisprudenza si è consolidata nel far conseguire alla violazione del principio in esame la radicale nullità dell’atto impositivo.

Non resta, dunque, che attendere le Sezioni Unite.

Documenti & materiali

Leggi Cass. Civ., Sez. VI, Ordinanza 14/01/2015, n. 527

Print Friendly, PDF & Email

Author: Avv. Luca Lucenti

Avvocato, nato a Pesaro il 20 ottobre 1961. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 1991. Abilitato al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori dal 2004. Responsabile di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.