Il danno da cenestesi lavorativa non è un danno da perdita di chance Nota a Corte d'appello di Milano, 27/06/2016, n. 2659

La Corte d’appello di Milano è intervenuta recentemente sul tema del risarcimento del danno c.d. da “cenestesi lavorativa”, ovverosia quel danno consistente nella maggior usura, fatica e difficoltà di svolgimento dell’attività lavorativa, danno che, nella fattispecie, era occorso ad un lavoratore a seguito di un infortunio sul lavoro in itinere.

La pronuncia che si segnala (n. 2659/2016) pare interessante perchè esclude che il danno in questione debba farsi rientrare nel novero del c.d. danno da perdita di chanche, non incidendo un tale danno sulla capacità/opportunità della vittima di produrre reddito.

Il giudice d’appello, nel decidere il ricorso in appello presentato dal dipendente e dai familiari di quest’ultimo (in particolare, il ricorso è stato presentato anche dalla moglie in proprio e da entrambi, moglie e marito, anche quali esercenti la potestà sui figli minori), ha chiarito che il danno da cenestesi lavorativa consiste, piuttosto, in una

«compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato in maniera onnicomprensiva come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento percepito dal soggetto leso».

Tale conclusione appare ancor più credibile, nella fattispecie in esame, ove la riduzione della capacità lavorativa dovuta ai postumi del sinistro qualificata dal CTU come potenzialmente incidente sulla possibilità di avanzamento della carriera era stata solo ipotizzata dal medesimo consulebte quale mera eventualità.

Peraltro, nella fattispecie, risultava anche che in primo grado era rimasto insoddisfatto il relativo onere probatorio. Infatti, il lavoratore al termine della malattia e, dunque, a guarigione avvenuta, era stato riadibito alle precedenti mansioni (dirigenziali) che ricopriva prima del sinistro.

Di conseguenza, nel respingere parzialmente il ricorso, la Corte ha condiviso quanto statuito dal giudice di prime cure in merito alla liquidazione effettuata in via equitativa e omnicomprensiva del danno non patrimoniale nelle sue diverse componenti. Nella posta risarcitoria era stata compresa, dunque, la maggior gravosità nello svolgimento dell’attività lavorativa, intesa come maggior usura, attraverso l’applicazione di una percentuale di personalizzazione del danno del 35% , così, riconoscendo – osserva la Corte –

«un risarcimento superiore alla percentuale massima di personalizzazione stabilita dalle Tabelle elaborate dal Tribuale di Milano».

Documenti & materiali

Scarica il testo della sentenza della Corte d’appello di Milano, 27/06/2016, n. 2659

Author: Avv. Francesca Serretti Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 24 febbraio 1982. Iscritta all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 2010. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione lavoro di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

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