Un caso particolare ma tutt’altro che infrequente: in sede di separazione consensuale, il marito, oltre ad obbligarsi al pagamento dell’assegno di mantenimento in favore del figlio, trasferisce alla moglie la propria quota di comproprietà della casa familiare, le riconosce i risparmi accumulati sul conto corrente anche se cointestato, e si obbliga al pagamento in suo favore di una somma una tantum in sede divorzile, sede divorzile che poi effettivamente le parti procedono a fare dopo la separazione.
Ebbene, accade però che il marito avesse alcuni creditori e che questi ultimi, ritenendosi illegittimamente defraudati del patrimonio da aggredire, esercitassero l’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 cc nei confronti dell’atto dispositivo.
Il primo grado accoglie, il secondo grado respinge, il caso finisce il Cassazione che decide con la sentenza 04/07/2019, n. 17908 che qui si segnala.
La III Sezione della Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, cassa la sentenza impugnata della corte territoriale che aveva negato la revocatoria; insomma, dunque, riconosce i presupposti per disporre la dichiarazione di inefficacia di quegli atti dispositivi di natura patrimoniale effettuati dai coniugi in sede di separazione consensuale.
Le ragioni su cui poggia la decisione n. 17908/2019 della Corte sono le seguenti:
«– la giurisprudenza di legittimità, da tempo, riconosce che le attribuzioni patrimoniali dall’uno all’altro coniuge concernenti beni mobili o immobili, in quanto attuate nello spirito degli accordi di sistemazione dei rapporti fra i coniugi in occasione dell’evento di separazione consensuale, sfuggono sia alle connotazioni classiche dell’atto di “donazione” vero e proprio (tipicamente estraneo, di per sé, ad un contesto – quello della separazione personale caratterizzato dalla dissoluzione della ragioni della convivenza materiale e morale), e dall’altro, a quello di un atto di vendita (attesa oltretutto l’assenza di un prezzo corrisposto);
– tali attribuzioni, sempre secondo l’oramai consolidato indirizzo di legittimità, svelano una loro “tipicità”, la quale, di volta in volta, può colorarsi dei tratti della obiettiva “onerosità”, ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., in funzione della eventuale ricorrenza, nel concreto, dei connotati di una sistemazione “solutorio – compensativa” più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati (o eventualmente, solo riflessi) patrimoniali, i quali, essendo maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale, per lo più non si rendono perciò sempre – guardati con sguardo retrospettivo immediatamente riconoscibili come tali” (così, testualmente, già Cass. 23/03/2004 n. 5741);
– l’onerosità dell’attribuzione patrimoniale non può farsi discendere tout court dall’astratta sussistenza di un obbligo legale di mantenimento, ma può emergere dall’esigenza di riequilibrare o ristorare il contributo apportato da un coniuge al ménage familiare e non adeguatamente rappresentato dalla situazione patrimoniale formalmente in essere fino al momento della separazione. E tale accertamento, solo se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 10/04/2013, n. 8678)».
Fatte queste premesse, la Suprema Corte ne tra la conseguenza
«che la qualificazione dell’atto dispositivo per cui è causa come atto a titolo oneroso dipende dalla possibilità di ricondurlo, in concreto, ad una causa che, trovando titolo nei pregressi rapporti anche di natura economica delle parti e nella necessità di darvi sistemazione nel momento della dissoluzione del vincolo, giustifichi lo spostamento patrimoniale fra i coniugi».
In sostanza, dunque, sembra di capire, che l’atto dispositivo contenuto in un regolamento dei rapporti patrimoniali in sede di separazione, potrà essere considerato a titolo oneroso se riconducibile in concreto ad una giustificazione, ad una ragione che giustifichi lo spostamento patrimoniale da un coniuge all’altro.
E sotto questo profilo, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la Corte ravvisa la gratuità della disposizione patrimoniale del marito a favore della moglie.
Oltre a ciò la Corte, sotto altro profilo, ritiene che anche un’altra censura meriti accoglimento e cioè quella che attiene alla violazione dell’art. 156 c.c., comma 2. Precisamente, la Corte afferma che
«posto che l’assegno di mantenimento in sostituzione del quale era stata attribuito a G.L., in aggiunta alla sua quota, il 50% della proprietà dell’immobile adibito a residenza familiare doveva intendersi finalizzato a garantirle la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto durante la convivenza matrimoniale, esso andava riconosciuto solo ove fosse emerso che G.L. non era in grado, con i propri redditi, di mantenere tale condizione e che versava effettivamente in una situazione di disparità economica rispetto al marito»
mentre tutto ciò non emerge dal percorso motivazionale ed argomentativo della sentenza gravata.
La Corte ricorda che la giurisprudenza è ferma nel ritenere che, al fine di individuare l’esigenza di uno dei coniugi di vedersi assegnato un quid per il mantenimento, deve tenersi conto della situazione economico patrimoniale di entrambi i coniugi, deducendola “non solo” dalla valutazione dei redditi, ma da ogni altra circostanza rappresentata da elementi di ordine economico, o suscettibili di apprezzamento economico, idonei ad incidere sulle condizioni delle parti.
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Scarica la sentenza Cass. Civ., Sez. III, 04/07/2019, n. 17908