Già il R.D. 14 giugno 1909, n. 442 che approvava il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all’art. 29, tabella B, n. 12, includeva la filatura e la tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l’applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove ne era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo.
E’ la Cassazione a stabilire, con la sentenza n. 22710/2015, depositata il 06/11 scorso dalla sezione lavoro, che la pericolosità della lavorazione dell’amianto (ed in particolare dell’inalazione anche di una sola fibra di amianto) era nota già all’inizio del secolo scorso, con la conseguenza che
è, quindi, irrilevante che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute del d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 09 aprile 2008, n. 81.
Ed, ancora,
invero, per le ragioni esposte, quel che rileva è, piuttosto il mancato assolvimento della suddetta prova liberatoria da parte della datrice di lavoro, trattandosi di responsabilità contrattuale per omessa adozione, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., delle opportune misure di prevenzione atte a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore nel luogo di lavoro […].
Siamo partiti dalla fine (citando dei passi della sentenza qui in commento), e, cioè, dal terzo grado di giudizio che si conclude con una sentenza, che in accoglimento del ricorso (promosso dagli eredi di un lavoratore deceduto), cassa con rinvio al giudice d’appello, in diversa composizione, la sentenza di secondo grado per la definizione del merito della controversia (nello specifico, risarcimento del danno “iure proprio” e iure hereditatis” conseguito al decesso di un lavoratore per mesoteloma pleurico) secondo i principi enunciati dalla Corte medesima.
E, ora, ripartiamo dal principio.
Il caso
Dopo 28 anni di servizio (dal 1955 al 1982), il Sig. G., impiegato in un cantiere navale con mansioni di controllo di ingresso e di uscita dei lavoratori dal luogo di lavoro, contraeva una malattia (mesotelioma pleurico) che in poco tempo lo conduceva alla morte.
Di qui, la domanda risarcitoria per il danno patito dagli eredi del de cuius.
In primo e secondo grado, i ricorrenti vedevano respingere le proprie pretese essenzialmente sulla base del fatto che, nel corso del giudizio di primo grado, pur riconoscendo il collegamento tra inalazione delle polveri di amianto e cancro (e poi morte) del lavoratore, sarebbe mancata la prova circa l’elemento soggettivo in capo al datore di lavoro in riferimento alla condotta omissiva, non essendo stato dimostrato che gli ambienti di lavoro fossero tali, per la polvere che stazionava, da richiedere l’adozione di particolari misure per il loro abbattimento.
La pronuncia della Cassazione
La vicenda finisce, com’è ovvio, davanti alla Corte di Cassazione, la quale nella propria sentenza, richiama l’art. 2087 C.C. quale norma di ordine generale che impone al datore di lavoro di preservare l’integrità fisica e morale del lavoratore, pena il risarcimento del danno, anche non patrimoniale (2059 C.C.).
Gli ermellini, in altre parole, precisano che, per la tutela di uno dei più importanti diritti fondamentali tutelati a livello costituzionale (il diritto alla salute, in questo caso, dei lavoratori), il datore di lavoro ha l’obbligo di adottare tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto, rendano necessari a tutelare l’integrità fisica dei loro dipendenti.
E ciò è quanto non è avvenuto nel caso in considerazione.
Posto ed acclarato, infatti, il fatto che, al momento dello svolgimento del rapporto di lavoro (al di là di specifiche disposizioni per il trattamento dell’amianto), fosse ben nota l’intriseca pericolosità delle fibre dell’amianto, tanto che l’uso di materiali che ne contengono era sottoposto a particolari cautele (si veda, ad es., il T.U. per la tutela del lavoro delle donne minorenni e dei fanciulli del 1909), il datore di lavoro avrebbe dovuto offrire la prova (liberatoria) circa l’adozione di tutte quelle misure di prevenzione atte a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore nel luogo di lavoro.
Il mancato assolvimento della suddetta prova liberatoria da parte datoriale è stata quindi posta a fondamento dell’accoglimento del ricorso da parte della Cassazione e del conseguente rinvio alla Corte di Appello per la definizione della vicenda anche nel merito secondo i principi così delineati.
Documenti & materiali
Scarica il testo di Cass., sez. lav., 06/11/2015, n. 22710