Il principio di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e l’eccezione di sovrabbondanza: verso un processo civile di ‘atti magri’

By | 04/12/2013

Nell’attesa che trovi attuazione il progetto di riforma del processo civile di cui si vocifera ormai da tempo, la giurisprudenza, come spesso accade, sta già autonomamente provvedendo ad introdurre nel sistema civilistico nuovi principi processuali di immediata applicazione.

Uno di questi, di notevole rilievo per la tendenza pandemica che comincia a manifestare  e le conseguenze importanti che discendono dalla sua applicazione (inammissibilità degli atti o condanna alla spese di chi non vi si adegui, come vedremo) potrebbe definirsi quale principio di sinteticità e chiarezza degli atti di parte.

Cominciamo subito con il rilevare che, in realtà, estrarre sinteticità e chiarezza dalla materia viva del processo civile è compito del giudice, il quale deduce il diritto applicabile (che egli ha il dovere di conoscere), dal fatto sottopostogli, ed in tal modo riconduce, per così dire, ad ordine il disordine.

E’, quest’ultima, un’operazione riassumibile nei noti brocardi “jura novit curia”, da un lato, e “da mihi factum, dabo tibi jus”, dall’altro, in cui si concretizza, in effetti, l’adempimento dell’obbligazione professionale del giudice e che quest’ultimo ha, dunque, l’obbligo di compiere.

Detto questo, va anche aggiunto che le parti hanno un corrispondente onere (e, come vedremo, in certi limiti, l’obbligo) di agevolarne il compito, redigendo ‘atti magri‘, ma al tempo stesso completi e tali da consentire al giudice (e alla controparte) di comprendere comunque, velocemente e chiaramente, quale sia la materia del contendere e, dunque, contenersi, altrettanto sinteticamente e chiaramente, di conseguenza.

Di come certi atti di parte siano (intenzionalmente) ‘obesi’, ovverosia molto poco sintetici e chiari

Ora, tutti noi, nella quotidiana prassi operativa, ci siamo imbattuti in atti, per così dire, ‘disordinati’ (ad es. nella fascicolazione, nel richiamare i documenti etc.) e/o inutilmente prolissi nell’esporre i fatti o le ragioni in diritto: atti che la dottrina ha efficacemente definito come ‘atti obesi’.

Quante volte, in questi casi, ci siamo detti: “ma perché devo perdere tempo a leggere tutte queste pagine del tutto inutili e confuse? Quasi quasi lascio perdere“. Ma, poi, ci siamo anche risposti: “vuoi vedere che alla pagina 48, riga 23, dopo l’ennesimo copia-incolla di atti precedenti, ci ritrovo infilata una qualche domanda nuova“?

E così siamo andati coscienziosamente, ancorché con fatica, avanti nella lettura, a volte scovandola, quella domanda nuova, a volte no: ma comunque ci è toccato andare avanti. E abbiamo, perso un mucchio di tempo. E abbiamo anche rischiato che il tutto producesse effetti finali paradossali, posto che il giudice, all’esito della lettura di decine e decine di pagine del tutto inutili, è inevitabilmente portato a ‘tagliare corto’, con tutti i rischi che ciò comporta per il buon esito del giudizio.

Per rimediare al problema in questione, dunque, in giurisprudenza si sta affermando (non da oggi) un orientamento che cerca di mettere a drastica dieta gli atti ‘obesi’, costringendoli a diventare atti ‘versione slim’.

In principio era l’autosufficienza

Sul punto, va ricordato come la Corte di Cassazione abbia da tempo elaborato un concetto (quello di autosufficienza del ricorso), che, seppure indirettamente, riconduce ai principi di chiarezza e sinteticità sopra accennati.

In merito, si prenda ad es, Cass. Civ., Sez. VI. 12 ottobre 2012, n. 17447, che è uno dei numerosi esempi rinvenibili in giurisprudenza, secondo la quale:

«il ricorso per cassazione, confezionato mediante la riproduzione degli atti dei pregressi gradi di giudizio e dei documenti ivi prodotti con procedimento fotografico o similare e la giustapposizione degli stessi con mere proposizioni di collegamento, è inammissibile per violazione del criterio di autosufficienza, in quanto detta modalità grafica [impedisce] l’agevole comprensione della questione controversa».

Autosufficienza come inequivocità dell’atto di parte: il principio di sinteticità  e chiarezza (anche in appello)

Ora, il concetto di autosufficienza sopra accennato, a ben vedere, altro non significa se non capacità dell’atto di parte di essere inequivoco, cioè di ‘spiegarsi da solo’ senza necessità di ricorrere all’ausilio di elementi interpretativi esterni. Ed, in questo senso, tale concetto rappresenta null’altro che un’esplicazione della sovraordinata categoria del principio di sinteticità e chiarezza qui in esame.

Si veda, sul punto, Cass. Civ. Sez. II, 04/07/2012, n.11199, secondo cui l’immotivata ampiezza delle difese di parte, oltre a non giovare alla chiarezza delle stesse:

«concorre ad allontanare l’obiettivo di un processo celere, che esige da parte di tutti atti sintetici, redatti con stile asciutto e sobrio (…), e si risolve soltanto in una inutile e disfunzionale sovrabbondanza, infarcita di continui e ripetuti assemblaggi e trascrizioni degli atti defensionali, delle sentenze dei gradi di merito, delle prove testimoniali, della consulenza tecnica e dei suoi allegati planimetrici».

E si veda pure, per un’applicazione da parte del CNF in sede di appello, la massima di CNF 27/05/2013, n. 83, secondo cui:

«in base al principio di autosufficienza del ricorso, l’appello al CNF deve contenere, a pena di sua inammissibilità, (…) la formulazione specifica dei motivi contenente la esposizione chiara e inequivoca, ancorché succinta, delle ragioni di fatto e di diritto che sostengono l’impugnazione, tale da consentire la individuazione delle questioni sottoposte all’esame del giudice del gravame».

Precedente, quest’ultimo, dal quale emerge con palmare evidenza l’inestricabile collegamento tra autosufficienza (cioè la capacità del ricorso/appello di autoesplicarsi secondo una linea logica documentata e lineare), da un lato, e principio di sinteticità e chiarezza nell’esposizione delle relative ragioni di fatto e di diritto, dall’altro.

Tale principio, trova applicazione non solo nel giudizio di cassazione, ma anche, ad esempio, in appello, dove, oltre alla sentenza CNF appena citata, troviamo pure, sempre in via esemplificativa, C.App. Bologna, Sez. III, 01/10/2013, n. 1776, secondo la quale:

«per la rilevanza dei fini perseguiti, il nuovo testo dell’art.342 c.p.c. va, dunque, interpretato in modo rigoroso, ovviamente (….) non sotto un profilo meramente formale (…),ma per il contenuto che l’atto di appello deve esprimere in maniera chiara ed anche immediatamente percepibile dalla Corte» .

Esso trova, altresì, riconoscimento normativo: vuoi espresso (ad es., nell’ art. 3, 2° co, D.Lgs. 02/07/2010, n.104 , cd. codice del processo amministrativo, secondo cui «il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica»), vuoi implicito (come nell’ipotesi del nuovo testo dell’art. 342 c.p.c., che, sancendo l’onere dell’appellante di indicare le «modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto», nonché «l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata», altro non rappresenta se non un’esplicazione del principio di chiarezza e sinteticità in esame).

La lettera del Primo Presidente della Cassazione del 17/06/2013; sinteticità e chiarezza costituiscono un vero e proprio principio dell’ordinamento

In conclusione, dunque, si può dire che sinteticità e chiarezza emergono nell’ordinamento giuridico alla stregua di veri e propri principi (o meglio, di un unico principio costituto dall’endiadi dei due termini), così come emerge dal testo della  lettera del 17/06/2013 che il Primo Presidente della Suprema Corte ha inviato al Presidente del CNF, proprio in ordine agli argomenti qui in esame (la lettera è pubblicata sul sito della Corte di Cassazione).

Con essa, il Presidente della Corte, partendo dal presupposto che i provvedimenti giudiziali devono contenere «la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione» (art. 132, 2° co., n. 4 c.p.c.), ne deduce – non a torto – che un «siffatto tipo di sentenza, caratterizzato da “chiarezza” e “sinteticità“, presupponga necessariamente analoghe caratteristiche negli atti di parte».

Il che, prosegue la lettera in questione, si pone in conformità rispetto ad un indirizzo già presente sia in ambito sovranazionale che in ambito nazionale.

Quanto all’ambito sovranazionale, il primo Presidente si riferisce esemplificativamente alle istruzioni pratiche per la instaurazione del procedimento presenti, in lingua inglese, sul sito della CEDU.

Tali istruzioni, al punto II, dedicato alla «Forma e contenuto» del ricorso, espressamente prevedono infatti che:

«11. Nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine (allegati esclusi), il ricorrente dovrà contestualmente presentare un breve riassunto dello stesso.
12. Nel caso in cui il ricorrente produca documenti a sostegno del proprio ricorso, questi non devono essere degli originali. I documenti allegati dovranno essere elencati in ordine cronologico, numerati progressivamente ed accompagnati da una breve descrizione (ad esempio lettera, ordine, sentenza, appello ecc
,)»,

così ponendo un principio di sinteticità (ricorso lungo al massimo 10 pagine, salvo casi eccezionali) ed un principio di chiarezza (principio del preliminare riassunto; documenti numerati e descritti) per tale genere di ricorsi.

Quanto all’ambito nazionale, invece, il predetto primo Presidente cita un’altra lettera, in questo caso inviata il 20/12/2010 dal Presidente del Consiglio di Stato al Presidente della Società Italiana Avvocati Amministrativisti, con cui, il primo, alla luce dei principio di sinteticità e chiarezza degli atti del processo amministrativo espressamente introdotto dall’art. 3 D.Lgs. 104/2010 sopra citato, evidenziava l’opportunità che fossero depositati «ricorsi e, in genere, scritti difensivi in un numero contenuto di pagine, che potrebbero essere quantificate, al massimo, in 20-25» e che, superato eventualmente tale limite, venisse anteposto «all’inizio di ogni atto processuale una distinta ed evidenziata sintesi del contenuto dell’atto stesso, di non più di una cinquantina di righe».

Insomma, il principio in esame esiste ed è affermato, oltre che dalla legge, anche dai massimi livelli giurisdizionali del sistema. Impossibile non tenerne, dunque, conto: si devono redigere atti sintetici e chiari e, ciononostante, completi sotto ogni profilo difensivo. Il che trasferisce il perno del ragionamento dal contenuto dell’atto allo stile espositivo dello stesso, elemento che, in questa nuova prospettiva, diventa fondamentale ai fini di una difesa valida ed efficace.

Con il che paiono essersi integrate in via pretoria, tutte le disposizioni del codice di rito che fanno riferimento alle difese di parte: come, ad esempio, per stare al processo civile, gli artt. 125 (contenuto degli atti di parte), 163 (citazione di primo grado), 167 (comparsa di risposta),  414 (ricorso introduttivo in materia di lavoro),  342 c.p.c. e simili.

A tutte tali norme, infatti, sembra essersi aggiunto un comma che più o meno suonerà così: “l’atto deve essere completo, ma sintetico e chiaro; lungo non più di N pagine; munito di riassunto iniziale, sommario e sintesi dei motivi a pena di nullità/inammissibilità” (oppure, come vedremo nel paragrafo successivo, “a pena di condanna aggravata alle spese“).

Dall’affermazione del principio di sinteticità e chiarezza all’eccezione di sovrabbondanza:  il caso di Trib.Milano, Sez.IX, ord. 01/10/2013

Affermare che esiste nell’ordinamento un principio/onere di sinteticità e chiarezza degli atti di parte, che la parte è tenuta a rispettare, non è cosa da poco.

Ed infatti, si cominciano a delineare vere e proprie eccezioni di sovrabbondanza,  non tanto e non solo in fase di gravame o cassazione, ma anche nell’ambito del primo grado di giudizio, come avvenuto nel caso di cui si è occupata una recente ordinanza del Tribunale di Milano, Sez. IX, 01/10/2013, pubblicata in diversi siti internet.

Il caso è interessante poiché lo stesso rileva più che sotto il profilo di un’invocata nullità dell’atto per mancanza di sinteticità e chiarezza (in ordine alla quale non si rinvengono precedenti noti), nella diversa ottica della responsabilità processuale di parte.

Così, nel caso in esame, una parte aveva sollevato il rilievo (probabilmente, a quanto è dato capire, una vera e propria eccezione) di sovrabbondanza delle memorie istruttorie avversarie e il giudicante aveva condiviso tale tesi, osservando come dette memorie fossero ingiustificatamente ampie, in quanto «atti che, rispetto alle precedenti difese ed al thema decidendum, non introducono elementi di particolare differenziazione o novità».

In presenza di un tale tipo di atti, le soluzioni prospettabili sono di tre specie:

  • valutazione del comportamento della parte che non abbia rispettato il principio in esame sotto il profilo della violazione dei doveri di lealtà processuale per gli effetti di cui all’art. 88 c.p.c., con conseguente trasmissione degli atti agli organi competenti per il seguito disciplinare;
  • rilevanza di tale comportamento in sede di valutazione delle prove ex art. 116, 2° co., c.p.c. (secondo il quale il giudice può desumere argomenti di prova, tra l’altro, dal contegno delle parti durante il processo);
  • considerazione, infine, del comportamento in questione al momento della liquidazione delle spese ex artt. 91 e 92 c.p.c. (l’ordinanza non cita la liquidazione ‘punitiva’ delle spese di cui all’art. 96 ult. co. c.p.c., ma va da sé che essa rientra nel ragionamento, giacché discendente dalla condanna di cui all’art. 91 c.p.c. cit.).

L’ordinanza in esame opta per quest’ultimo indirizzo, che, in realtà, sembra essere per certo quello preferibile, posto che, salvo fattispecie particolari, la violazione del principio di sinteticità e chiarezza non sembra rilevare, quantomeno di per se stessa, quale comportamento che lede i doveri di lealtà processuale. D’altro canto, da tale violazione, sempre in se stessa considerata, sembra altresì assai difficoltoso fare discendere argomenti di prova a carico della parte che se ne è resa responsabile.

Viceversa, ricondurre la questione nell’ambito del regolamento delle spese significa, da un lato, quantificare in termini monetari la maggior fatica ingiustificatamente costata alla parte ‘sintetica e chiara’ nell’esaminare e nel contrastare le difese confuse e prolisse dell’avversario e, dall’altro, ricondurre la questione (almeno in parte) nell’ambito delle doglianze di parte.

In conclusione: il problema degli ‘atti obesi’ è un problema che va risolto “con juicio”

In conclusione, il problema degli ‘atti obesi’ è un problema che affligge il giudice, ma anche le parti. Ed è sicuramente sensato trovare una soluzione ad esso (e si è visto che tale soluzione si sta sviluppando sui diversi piani della sanzione di inammissibilità e/o del regolamento delle spese di lite, in funzione del diverso tipo di processo).

Tuttavia il sistema funziona nella misura in cui esso preveda adeguati e specifici rimedi – come previsto per gli atti di parte – anche nel caso in cui sia il giudicato a violare il principio di sinteticità e chiarezza di cui all’art. 132, 2° co., n. 4 c.p.c., : problema la cui soluzione è, come facile immaginare, alquanto complicata.

Ed il sistema funziona, altresì, nella misura in cui il rimedio si contemperi equamente con le necessità espositive di parte inevitabilmente derivanti dai filtri, sempre più pregnanti, previsti per i gravami e le tenga adeguatamente presenti nel valutare gli atti processuali  (si segnala sul punto un precedente post del nostro blog dal titolo dal titolo «Il ‘doppio filtro’ in appello o, meglio, l’appello civile filtrato: una panoramica»), nonché con l’onere di specifica contestazione di tutti i fatti allegati dagli avversari, pena il loro implicito riconoscimento: è ben chiaro, infatti, che, stante tale situazione, vi saranno ipotesi in cui contenere la trattazione in un ambito di pagine ristretto sarà materialmente impossibile.

Ed il sistema stesso funziona, infine, nella misura in cui esso prenda atto del fatto che redigere atti del tipo in esame richiede una competenza elevatissima, mezzi adeguati e dispendiosi che non possono essere garantiti dalla figura professionale low cost verso la quale ci stiamo indirizzando (ma questo apre altri capitoli che esulano dal tema qui in esame).

In definitiva, dunque, il sistema, come sempre, funziona se regole e principi vengono applicati “con juicio”, per dirla con il Manzoni, da tutti gli operatori del settore, in un’ottica di reciproca collaborazione e di valorizzazione delle rispettive professionalità: solo in questi termini, il principio di sinteticità e chiarezza potrà diventare un’arma formidabile per migliorare l’efficienza della giustizia civile e far emergere la qualità della classe forense.

Documenti & materiali

Scarica la lettera del 17/06/2013 del Primo Presidente della Cassazione al Presidente del CNF pubblicata nella sezione Prima Presidenza del sito della Suprema Corte
Scarica la lettera del 20/10/2010 del Presidente del Consiglio di Stato al Presidente della Società Italiana Avvocati Amministrativisti
Scarica le istruzioni pratiche (in lingua inglese) per la instaurazione del procedimento dinanzi alla CEDU, pubblicate sul sito della Corte
Scarica l’ordinanza Trib.Milano, Sez. IX, 01/10/2013,
Leggi l’articolo Il principio di autosufficienza si applica anche all’atto di appello al CNF (e ivi sentenza e richiami) e scarica la sentenza CNF 27/05/2013, n. 83
Leggi l’articolo Inammissibilità dell’appello ex art. 342, 1° co., c.p.c. nuova formulazione. C. App. Bologna 1176/2013: istruzioni per l’uso sul nostro blog
Leggi l’articolo Il ‘doppio filtro’ in appello o, meglio, l’appello civile filtrato: una panoramica sul nostro blog
Leggi l’articolo Il principio di autosufficienza del ricorso in cassazione su Persona e Danno

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Author: Avv. Luca Lucenti

Avvocato, nato a Pesaro il 20 ottobre 1961. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 1991. Abilitato al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori dal 2004. Responsabile di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

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