Rapporto tra processo civile e processo penale: sospensione necessaria, parlano le Sezioni Unite In nota a Cass. Civ., Sez. Un., 21/05/2019, n. 13661

By | 13/06/2019

Il rapporto tra giudizio civile e giudizio penale è problema complesso in relazione al rischio di difformità di giudicati.

Con la sentenza Cass. Civ., Sez. Unite, 21/05/2019, n. 13661 che qui si segnala le Sezione Unite sono state chiamate a risolvere la questione se, in un caso di azione risarcitoria per sinistro stradale, il giudizio civile debba essere necessariamente sospeso nei confronti di tutti i litisconsorti, oppure se la sospensione operi soltanto in relazione all’azione risarcitoria proposta nei confronti del conducente-imputato, oppure ancora se non operi sospensione alcuna.

Più in particolare la questione rimessa alla cognizione delle SS.UU. concerne l’identificazione dei presupposti legali soggettivi di operatività della sospensione necessaria del processo civile di risarcimento del danno derivante da reato promosso quando nel processo penale concernente il reato sia stata già pronunciata la sentenza di primo grado. Prevale difatti questo profilo, poichè, nel caso sottoposto alla sua attenzione, non vi era coincidenza tra i soggetti che si sono costituiti parti civili nel processo penale e coloro che hanno promosso, anche mediante spendita di diversa qualità, il giudizio civile.

E con la citata sentenza 21/05/2019, n. 13661 le Sezioni Unite hanno formulato il seguente principio di diritto:

«in tema di rapporto tra giudizio penale e giudizio civile, i casi di sospensione necessaria previsti dall’art. 75 c.p.p., comma 3, che rispondono a finalità diverse da quella di preservare l’uniformità dei giudicati, e richiedono che la sentenza che definisca il processo penale influente sia destinata a produrre in quello civile il vincolo rispettivamente previsto dagli artt. 651, 651 bis, 652 e 654 c.p.p., vanno interpretati restrittivamente, di modo che la sospensione non si applica qualora il danneggiato proponga azione di danno nei confronti del danneggiante e dell’impresa assicuratrice della responsabilità civile dopo la pronuncia di primo grado nel processo penale nel quale il danneggiante sia imputato».

La Suprema Corte argomenta considerando che la disposizione di cui si discute è frammento dell’ampia e articolata disciplina dei rapporti tra processo civile e processo penale, radicalmente rinnovata dalla riforma del codice di procedura penale, e va dunque interpretata alla luce del microsistema prefigurato dal legislatore per il raccordo tra i due giudizi.

Il codice del 1988 ha ripudiato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale, in favore di quello della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e dell’autonomia dei giudizi (tra varie, Cass., sez. un., 11 febbraio 1998, n. 1445 e sez.un., 26 gennaio 2011, n. 1768). Quel che prevale è l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire ivi la propria azione (Corte Cost. 21 aprile 2006, n. 168 e 28 gennaio 2015, n. 23). Sicchè si è scoraggiata la proposizione dell’azione civile nel processo penale (in termini, Corte Cost. 29 gennaio 2016, n. 12) e si è favorita la separazione dei giudizi.

Per liberare il giudice penale dall’esame di questioni che non debbano essere accertate ai fini del giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato, l’art. 75 c.p.p., comma 1, là dove stabilisce che “L’azione civile proposta dinanzi al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato. L’esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio“, ha posto uno sbarramento al trasferimento dell’azione civile nel processo penale, e lo ha quindi disincentivato.

Il danneggiato è incoraggiato a evitare la costituzione di parte civile e a promuovere la propria pretesa in sede civile, anche per poter sfuggire agli effetti del giudicato di assoluzione dell’imputato-danneggiante.Qualora, difatti, a norma dell’art. 75 c.p.p., comma 2, “L’azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la costituzione di parte civile“, la sentenza dibattimentale irrevocabile di assoluzione dell’imputato-danneggiante (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima) non sarà opponibile al danneggiato, in base all’ultimo nucleo normativo del 1 comma dell’art. 652 c.p.p.. Anche nella relazione al testo definitivo del c.p.p. si legge significativamente che “viene sancito espressamente che, in assenza della transiatio iudicii, il processo non può essere sospeso e che, di conseguenza, non può trovare applicazione l’art. 652, comma 1“, e che la linea seguita della separazione del giudizio civile dal penale, se può essere criticata perchè non aderente al principio dell’unità della giurisdizione (principio, peraltro, “da considerarsi non di rilevanza costituzionale come la corte ha avuto occasione di statuire sin dalla sentenza n. 1 del 1970”), ha “il vantaggio di attuare la massima semplificazione dello svolgimento del processo, secondo la regola indicata nella direttiva 1 della legge delega”.

E il vantaggio è amplificato dal fatto che il danneggiato potrà comunque fruire degli effetti derivanti dalla condanna dibattimentale dell’imputato-danneggiante, nonchè di quelli della sentenza dibattimentale irrevocabile di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, agli esiti delle quali l’imputato danneggiante sarà pur sempre vincolato, a norma rispettivamente dell’art. 651, e dell’art. 651 bis c.p.p.: l’operatività delle disposizioni prescinde difatti dalla partecipazione, anche potenziale, del danneggiato.

Osservano però le Sezioni Unite che

«queste sezioni unite hanno d’altronde già da tempo rimarcato, con riguardo giustappunto alla valenza dell’art. 75 c.p.p., che esso ha ceduto il passo a quello del giusto processo, in virtù del quale in tanto la sentenza è giusta in quanto l’applicazione della legge sia avvenuta nell’ambito di un procedimento nel quale sia stato pienamente assicurato il diritto di difesa (Cass., sez. un., ord. 5 novembre 2001, n. 13682)».

In definitiva, il favore per la separazione dei giudizi comporta l’accettazione del rischio di difformità dei giudicati ai quali i giudizi separati conducano.

La separazione e l’autonomia dei giudizi comportano difatti che il giudizio civile sia disciplinato dalle sole regole sue proprie, che largamente si differenziano da quelle del processo penale, non soltanto sotto il profilo probatorio, ma anche, in via d’esempio, con riguardo alla ricostruzione del nesso di causalità, che risponde, nel processo penale, al canone della ragionevole certezza (Cass., sez. un. pen., 10 luglio 2002, n. 30328; sez. un. pen., 24 aprile 2014, n. 38343 e 4 maggio 2017, n. 33749) e, in quello civile, alla regola del “più probabile che non” (tra varie, Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576 e ord. 27 settembre 2018, n. 23197). Sicchè non meritevole di tutela è in questi casi l’interesse del danneggiante di attendere gli esiti del processo nel quale egli sia imputato.

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