Le Sezioni Unite sul comodato della ‘casa familiare’ Una importante pronuncia a S. U. della Corte di Cassazione sulla sorte, in occasione della crisi della famiglia, della casa familiare appartenente a terzi


Qual’è la sorte della casa familiare, di proprietà di terze persone, in occasione della separazione o del divorzio della coppia?

La risposta spontanea sarebbe che se la coppia si divide, si disgrega, la casa familiare di proprietà di una terza persona, torna senz’altro al suo legittimo proprietario, cioè la terza persona.

Invece non è così.

Il problema

Questo è un problema piuttosto sentito in materia di separazione o di divorzio, poichè, non è raro (anzi, è frequente) che la proprietà della casa ove la famiglia ha stabilito la propria residenza e svolto la propria vita, in realtà, sia di proprietà di terze persone rispetto ai due coniugi, molto spesso dei genitori di lui o dei genitori di lei (oppure di un parente, oppure ancora di una società terza).

Quanto volte, infatti, in occasione del matrimonio, o più spesso in occasione della nascita dei nipotini, i genitori di lui, o i genitori di lei (o altro soggetto), mettono a disposizione della coppia e della nuova famiglia, un appartamento, o comunque un immobile di loro proprietà.

Non si sta parlando, naturalmente, del caso di una donazione del bene (che avrebbe, infatti, un’altra regolamentazione), ma del caso in cui, pur conservando la proprietà dell’immobile, si consenta ai coniugi di abitarlo e costruirci la nuova famiglia.

Ciò, naturalmente, viene compiuto con un senso di speciale generosità ed un senso di solidarietà verso il proprio figlio/figlia che va a costituire la nuova famiglia e con la intima convinzione/speranza che quel rapporto, quel matrimonio durerà per sempre.

Certo è che, normalmente, nel mettere a disposizione della nuova coppia il proprio appartamento, il terzo proprietario non si prefigura di stipulare un contratto di ‘comodato‘ (ex artt. 1803 e ss. C.C.), e, soprattutto, non si prefigura che quel contratto sopravviva alla crisi della coppia e che esso continui ad esistere a favore del (o della) coniuge del (o della) proprio/a figlio/a.

Insomma, la coppia si lascia ed in casa ci rimane la ex del proprio figlio/a.

Chiarimento necessario

Va subito chiarito che il problema di cui sopra, sorge unicamente se la coppia ha figli minori o figli maggiorenni non autosufficienti, o con handicap (ai sensi e per gli effetti dell’art. 337 septies C.C. equiparati ai figli minori), mentre, nessun problema di questo tipo – perlomeno, allo stato – sussiste se la coppia in crisi non ha prole.

E’, infatti, la tutela della prole (ex artt. 29 e ss. COST), che, in quanto tale, si pone come interesse meritevole di tutela e come interesse prevalente rispetto a quello privatistico del diritto di proprietà (pur anch’esso costituzionalmente garantito ex art. 42 COST.), che, dunque, soccombe di fronte a quello.

Ebbene, in questa spinosa questione, proprio di recente si è espressa, a Sezioni Unite, la Corte di Cassazione con la sentenza 29/09/2014, n. 20448 (dep. 8/10/2014).

La sentenza S.U. 29/09/2014 n. 20448

Occorre precisare che con la sentenza che qui si segnala (29/09/2014, n. 20448 dep. 8/10/2014), le Sezioni Unite tornano su una questione su cui si erano già espresse (oltre che con le singole Sezioni) e, precisamente con la sentenza S.U. 21/07/2004 n. 13603.

Dunque perchè di nuovo si è resa necessaria la pronuncia delle Sezioni Unite? Vi è un cambio di orientamento?

In realtà il cambio di orientamento, anzi precisamente, un «ripensamento» era quello che si auspicava la Terza Sezione quando con l’ordinanza 15113/2013 ha rimesso gli atti al Primo Presidente, il quale, a sua volta, ha assegnato la causa alle Sezioni Unite; tuttavia, con la sentenza S.U. 29/09/2014, n. 20448 qui in esame, la Cassazione non interviene per mutare l’orientamento assunto nel 2004, ma anzi per confermarlo, pur delimitandone e precisandone meglio la sua portata. Di qui la sua particolare importanza.

Il caso

Il caso pratico da cui scaturisce la pronuncia in commento è quello – classico – in cui il proprietario di un immobile aveva concesso al proprio figlio ed alla di lui moglie (e, dunque, nuora rispetto al proprietario dell’immobile), un appartamento perchè vi abitassero con la famiglia (figlio, moglie e prole).

Senonchè, poi, il matrimonio era entrato in crisi ed in occasione della separazione dei due coniugi, quell’appartamento, in quanto casa coniugale, familiare, con ordinanza presidenziale ex art. 708 CPC, era stato assegnato alla moglie del figlio (alla nuora), in quanto affidataria (si era nel 1999, e dunque, prima della L. 8/2/2006 n. 54 in materia di affido condiviso, oggi, peraltro sostituita dal D.L. 28/12/2013 n. 154).

Anni dopo l’assegnazione, quindi, il proprietario dell’immobile ha agito nei confronti della nuora per ottenere la restituzione dell’immobile stesso. I primi due gradi di giudizio hanno rigettato la sua domanda, in ossequio all’orientamento di cui sopra del 2004, e, una volta in Cassazione, come sopra anticipato, la Terza Sezione, ha rimesso alle Sezioni Unite, auspicando un mutamento dell’orientamento. Mutamento che, invece, non è avvenuto, ma sono state, tuttavia, effettuate delle precisazioni utili a delimitarne l’ambito di applicazione.

La critica alle Sezioni Unite del 2004

Le Sezioni Unite del 2004 hanno affermato il seguente principio di diritto:

Nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809, comma 2, c.c.

L’obiezione principale mossa a questo principio e sottoposta alle Sezioni Unite del 2014 è quella della ritenuta sostanziale espropriazione delle facoltà del comodante, in conseguenza del fatto che esso escluderebbe la recedibilità ad nutum ex art. 1810 CC, senza neppure distinguere a seconda che il proprietario sia genitore del beneficiario o un terzo estraneo.

Si è sostenuto, in particolare, che a differenza del coniuge proprietario, tenuto a rispettare la solidarietà post coniugale in ragione della tutela costituzionale dell’istituto familiare, i terzi non dovrebbero essere costretti a subire una situazione destinata a durare indefinitamente nel tempo. Inoltre la soluzione prescelta giungerebbe a negare la configurabilità del precario di casa familiare, con l’effetto di scoraggiare il diffuso istituto del comodato quale soluzione ai problemi abitativi delle giovani coppie. Inoltre, costituirebbe un modo per attribuire al coniuge assegnatario diritti poziori rispetto a quelli vantati dall’originario comodatario.

La posizione delle Sezioni Unite del 2014

A queste obiezioni, le Sezioni Unite del 2014, con la sentenza 29/09/2014, n. 20448 rispondono che, in primo luogo, occorre distinguere due ‘forme’ di comodato: quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 CC, e quello c.d. precario regolato dall’art. 1810 CC.

Ciò chiarito, le S.U. della Corte ritengono che solo in quest’ultima forma, ossia nel comodato precario, connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dall’impossibilità di desumerlo dall’uso cui doveva essere destinata la cosa, sia consentito di richiedere ad nutum il rilascio al comodatario.

Nell’altra ipotesi di comodato, invece, in cui il godimento dell’immobile viene concesso per un tempo determinato o per un uso determinato da cui sia possibile desumere una scadenza contrattuale, la facoltà del comodante di esigere la restituzione dell’immobile è consentita solo in caso di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno, oltre che, naturalmente per la scadenza del termine o il conseguimento dell’uso determinato (art. 1809 C.C.).

Ed è a questo tipo contrattuale che, secondo le S.U., va ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario.

In questo caso, infatti, il comodato sorge per un uso determinato e dunque per un tempo determinabile per relationem che può essere individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale. Ed in questa ipotesi, l’applicazione dell’art. 1809 CC che consente al comodante di riprendersi il bene in occasione di bisogno sopravvenuto ed urgente (che naturalmente andrà dimostrato), secondo le S.U., ha l’effetto di riequilibrare la posizione del comodante ed escludere le distorsioni della disciplina negoziale.

In conclusione, secondo le S.U. del 2014,

le preoccupazioni dell’ordinanza di rimessione possono essere superate con un’attenta lettura ed una prudente applicazione della sentenza del 2004

Precisamente, le S.U. affermano che, la sentenza del 2004,

prevenendo le obiezioni, ha esplicitato che non intendeva affermare che, ogniqualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata. Ha infatti in primo luogo invitato i giudici di merito a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione.
In secondo luogo ha precisato che la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti.

Di conseguenza, deve intendersi che spetterà al comodatario fornire la prova della destinazione e dell’uso che le parti hanno voluto attribuire in occasione della stipula del comodato dell’immobile; mentre, spetterà al comodante dimostrare il raggiungimento del termine prefissato o il conseguimento dell’uso cui era destinato il godimento dell’immobile, oppure, ancora, il proprio bisogno imprevisto ed urgente di godimento dell’immobile stesso.

Tanto per completezza va detto che nella fattispecie da cui muove la pronuncia, il comodante si è visto respingere il ricorso ancora una volta, (cioè, dopo i primi due gradi, anche in sede di legittimità) sostanzialmente perchè le S.U. hanno ritenuto che le Corti di merito abbiano correttamente valutato che l’immobile era stato concesso in comodato perchè venisse usato quale «casa familiare», e perchè non era stato sufficientemente dimostrato che la scadenza del predetto comodato fosse individuata nel raggiungimento dell’indipendenza economica della prole.

Documenti & materiali

Scarica il testo della sentenza Cass. Civ. S.U. 29/09/2014, n. 20448
Scarica il testo della sentenza Cass. Civ. S.U. 21/07/2004 n. 13603

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Author: Avv. Daniela Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 20 agosto 1963. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 1992. Abilitata al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori dal 2004. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione famiglia di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833.

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