IO SONO MILANO

By | 11/04/2015

Care amiche e amici,

oggi non parliamo di novità legislative o sentenze.

Gli avvenimenti di Milano e le reazioni che ne sono seguite ci hanno infatti indotto a proporvi qualche nostra considerazione: perché l’episodio di Milano è grave, anzi gravissimo e tragico, e le risposte che vanno profilandosi all’orizzonte sembrano davvero poco adeguate a tale gravità.

E se è naturale che in questo momento il pensiero non può che essere rivolto alle vittime di quella follia ed ai loro famigliari (una dei quali é una collega del Foro di Pesaro al cui dolore ci uniamo con tutta la nostra più sincera solidarietà), è vero pure che quanto accaduto va analizzato, per quanto possibile, con la necessaria lucidità: lontana dalla retorica montante degli indignati di mestiere, così come dalle logiche strumentali che si stanno affacciando sulla scena.

Guardando le cose con quest’animo, si vede subito come il rapporto tra pistolettate e palazzi di giustizia sia stato, negli anni, piuttosto intenso.

Così, nel settembre del 2002, durante un’udienza di separazione che si teneva al tribunale di Varese, il marito estrasse la rivoltella, esplodendo quattro colpi, freddando la moglie e venendo disarmato grazie all’intervento di una coraggiosa PM.

Questo l’estratto di un resoconto giornalistico online dell’epoca.

«Questa vicenda pone però dei dubbi atroci: come ha fatto l’omicida ad arrivare fino alla sezione civile del primo piano con un’arma addosso? La tragedia poteva essere evitata se l’uomo fosse passato dal metal detector posto al pianterreno del palazzo di giustizia? L’apparecchiatura c’è, è stata installata da circa un anno, ma non è ancora in uso e a quanto pare è stata aggirata al momento del passaggio».

Il 17 ottobre del 2007, ancora, sempre durante un’udienza di separazione (stavolta al Tribunale di Reggio Emilia), il marito sparò una decina di volte, uccidendo a revolverate moglie e cognato, ferendo il suo avvocato, azzoppando uno dei due poliziotti accorsi e venendo infine fermato solo a (purtroppo necessarie) pistolettate dal secondo di essi.

Ecco che cosa si disse allora, in una cronaca giornalistica online

«L’inchiesta della Procura dovrà chiarire anche l’efficienza del sistema di controllo all’ingresso del palazzo di giustizia. L’albanese è entrato in tribunale con una pistola in tasca senza che nessuno si fosse accorto che era armato. – Omissis –, magistrato a Reggio Emilia, ha detto che a fine 2001 era pronto un piano per dotare il palazzo di giustizia di telecamere a circuito chiuso e di un metal detector, ma il piano “è rimasto lettera morta”».

Milano 2015, ancora. Non c’è certo bisogno di ricordare i fatti, ma vale la pena leggere le domande che si ritrovano poste più o meno dappertutto.

«Mi sembra incredibile quello che è successo”, ha detto ai cronisti all’esterno del Palazzo di Giustizia un uomo di circa 50 anni che era all’interno nel momento degli spari. “Non è possibile – ha aggiunto – che una persona possa entrare armata in un tribunale soprattutto in un periodo in cui i controlli dovrebbero essere più forti».

Insomma, dal 2002 al 2015, una cosa è certa: in tribunale si può entrare armati e sparare. E tutti trasecolano come se questa verità non fosse un dato di fatto acclarato nel corso degli anni e certificato dai morti.

E potremmo continuare con episodi che, se non riguardano l’interno del palazzo, riguardano però le sue immediate adiacenze (Crotone 2013: un ferito grave).

O potremmo risalire ancora nel tempo, per trovare pistole rivolte contro se stessi, come nel lontano 1999, allorquando un giudice del tribunale di Torino si sparò alla testa nel suo ufficio del palazzo di giustizia lasciando il seguente biglietto d’addio da cui traspare un sentimento di angosciante e profonda frustrazione professionale

«Caro – omissis –, chiedo scusa a te, alle ragazze, a tutti. Non fatevi assurdi sensi di colpa. La mia decisione la capirete dai miei fascicoli, accatastati sul mio tavolo, negli armadi del mio ufficio. Ormai è una valanga che ci sommerge tutti, e io mi sento sopraffatta, impotente, sconfitta. Non ce la faccio più ad arrestare la valanga, a mani nude. Ormai mi ha travolta, non riesco neppure a fare le cose che prima potevo, che ancora potrei fare. Addio…»

Insomma, esiste un fil rouge tra revolverate e palazzi di giustizia in cui molte persone (troppe) hanno perso la vita o sono rimaste ferite nelle più varie situazioni senza che – e questo è quello che occorre evidenziare – si sia fatto nulla per prevenirlo.

Tanto che gli episodi sono reiterati e, a fronte di essi, la domanda posta negli anni è rimasta sempre le stessa: come è possibile che ciò sia accaduto?

Senonché, dopo i fatti Milano, quella domanda è davvero mal posta.

Oggi non serve più a niente chiedersi  – ancora una – volta come abbia potuto l’omicida accedere armato al tribunale. Occorre invece domandarsi per quale ragione dai fatti di Reggio Emilia, Varese, Torino, Crotone, siano trascorsi anni e nulla sembri cambiato. Non solo un sistema di sicurezza evidentemente fallace, ma anche in tutto il contorno di ferme dichiarazioni di sdegno, di elucubrazioni autoreferenziali, di proclami propagandistici, di inchieste ostentate per l’accertamento di responsabilità sino ad oggi, a quanto ci risulta, mai accertate, che a breve si acquieterà nell’attesa che, tra qualche tempo, l’ennesimo revolver crepiti nei corridoi di tribunali e corti ammazzando chissà chi.

Se ne sono sentite diverse, in questi giorni, di affermazioni: chi ha parlato di necessità di rispettare la magistratura, chi ha richiamato l’indipendenza del giudice e quant’altro. Concetti sacrosanti in linea di principio, che, tuttavia, non hanno nulla a che spartire con l’accaduto. Perché sparare a un magistrato – e a un avvocato, aggiungiamo, e ad altre persone ancora – in un contesto come quello milanese, non è stato e non è un atto di lesa maestà, ma un puro e semplice omicidio, reso possibile non tanto e non solo da isolate falle di sicurezza, ma dalla crisi profonda di un sistema–giustizia che nel nostro paese ha completamente perso di vista la propria stessa ragion d’essere: le persone.

Persone che ricorrono alla giustizia. Persone che lavorano nella giustizia. Persone che proteggono la giustizia. Persone che dovrebbero confrontarsi da persone con persone, per dare risposta al bisogno di giustizia e di sicurezza delle persone.

Al loro posto, oggi, troviamo ruoli: avvocati, giudici, cancellieri, impiegati. Ruoli che si impostano come ruoli e si confrontano, da ruoli, con altri ruoli. Non nomi e cognomi, non storie individuali e capacità professionali. Ma schede matricolari, al possesso delle quali corrisponde una sorta di status immodificabile ed una qualifica di ruolo, appunto, che i bene educati scrivono solitamente con l’iniziale maiuscola.

E’ una logica sbagliata, in cui chi non possiede lo status (come il cittadino che si rivolge al sistema) si trasforma, da protagonista che dovrebbe essere, in intruso mal tollerato. Una logica che crea inevitabilmente catene di governo medievali – governanti, vassalli, giù giù sino ai servi della gleba – in base a titoli burocraticamente precostituiti, senza riferimento alla qualità delle persone. Che alimenta, in tal modo, logiche di appartenenza a gruppetti e combutte di vario genere, capaci di sfociare, come abbiamo potuto constatare in questi anni in alcuni tribunali, in vere e proprie sacche di corruttela.

E’ una logica opaca e impermeabile. Che non premia, ma deprime chi vale. Che non progredisce in efficienza, ma si avvita su se stessa. Che finisce per preoccuparsi cinicamente solo della propria sopravvivenza, ed è incapace di ascoltare le persone che vivono al di fuori delle sue mura, per le quali diviene incomprensibile e ostile.

Con l’effetto finale di scardinare – nel che sta la cosa forse più grave – la rete di relazioni umane indispensabili a sorreggere un apparato che, per presupposti, oggetto e missione, non può non avere una dimensione fondata sulla persona umana.

A Milano, giovedì scorso non hanno ucciso un giudice, un avvocato, un coimputato. Hanno ucciso delle persone. Non dei ruoli, ma degli esseri umani, con la loro pienezza di sogni, progetti, ambizioni, speranze, ragioni e torti.

Essi sono stati uccisi non solo dalla mano di un assassino, ma anche dal sistema che non li ha protetti, come avrebbe dovuto, contro quell’assassino, recidivando così – cinicamente, lo si ripete – in atteggiamenti già manifestati in passato senza porvi rimedio (e, a quanto pare, senza neppure corrispondere alcun risarcimento: si veda questo articolo sulle traversie di chi si è azionato in giudizio per i fatti di Reggio Emilia).

Quelle vittime, allora, possono e devono costituire lo spunto di una riflessione e di una ripartenza di quello stesso sistema. Facendolo divenire (o, forse, ritornare ad essere) un luogo dove la persona – sia essa giudice, avvocato, impiegato, cittadino che chiede giustizia – possieda la centralità che merita. Dove la logica della responsabilità e del merito premi le molte energie e risorse positive ed espella le scorie che ne avvelenano il corpo. Dove il prestigio degli operatori non sia attribuito per concorso, “semel, semper”, ma venga guadagnato nei fatti, con la quotidiana capacità di ascolto e la testimonianza concreta dei risultati ottenuti.

E in cui chi ha il compito di preoccuparsi delle persone e della loro sicurezza, metta a fuoco quella responsabilità e si impegni davvero per evitare altre morti assurde – che so – piazzando all’accesso degli avvocati idonei rilevatori di impronte digitali o lettori dei tesserini, verificando maniacalmente i dettagli della struttura generale di sicurezza, adottando, insomma, qualsiasi misura capace di impedire che un uomo armato di pistola si possa intrufolare indisturbato in un palazzo di giustizia solo perché ha indosso un completo grigio con cravatta e annessa ventiquattrore, o perché mostra una qualsiasi tessera cartacea.

Sarebbe bellissimo potersi ritrovare tra qualche anno intorno ad un nucleo rifondante di questo tipo, per verificare in modo responsabile, maturo, professionale, umano, i risultati ottenuti e pianificare nuovi obiettivi. Incontrandosi tra persone, con l’attenzione rivolta alle persone. E non fronteggiandosi tra ruoli ingabbiati nelle logiche autoconservative che ci hanno portato dove ci hanno portato.

E poter così commemorare i morti di Milano con la testimonianza ed il ricordo, ma anche con la consapevolezza di avere dato un senso al loro sacrificio – perché anche nel senso di una morte sta la pace della vittima e il ristoro dei suoi famigliari – rendendogli quella giustizia nell’esercizio della quale sono caduti e che non li ha protetti come avrebbe dovuto.

“Io sono Milano”. Ripartiamo di lì.

Luca Lucenti, Daniela Gattoni, Francesca Serretti,Claudia Gianotti

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.