REPLAY. Non vuole togliere lo hijab musulmano e perde un’occasione di lavoro: è discriminazione A margine della sentenza della Corte di Appello di Milano, n. 579/2016


«Si deve quindi ritenere che, essendo il hijab un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione musulmana, l’esclusione da un posto di lavoro a ragione del hijab costituisca una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa».

E’ discriminatorio escludere una hostess perché indossa il velo (hjiab)

La Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, ha riconosciuto carattere discriminatorio (in specie, si è trattato di discriminazione diretta) alla condotta, di una società di selezione del personale, tesa ad escludere una candidata di religione musulmana dalla selezione di personale hostess per una fiera di calzature, in quanto quest’ultima si era rifiutata di non indossare il velo (hijab).

La condotta sopra descritta ha arrecato, secondo i Consiglieri della Corte, un pregiudizio alla candidata in termini di lesione del diritto alla parità di trattamento nell’accesso al lavoro nonostante il credo religioso, discriminazione che è costata alla società datrice di lavoro la somma di € 500,00, riconosciuta all’appellante a titolo di risarcimento del danno liquidato in via equitativa. Le spese del giudizio sono state, invece, compensate tra le parti, attesa la novità e la particolarità della vicenda.

Ma facciamo un passo indietro per comprendere i contorni della vicenda.

La preselezione del personale hostess richiedeva (preferibilmente) capelli lunghi, sciolti e vaporosi: non è causa di giustificazione

La ricorrente appellante, cittadina italiana, figlia di cittadini egiziani, professava la religione musulmana e “vestiva” il velo. Essendo iscritta alla mailing list promossa dalla società appellata e ritenendo di possedere almeno 4 dei requisiti richiesti (segnatamente: conoscenza della lingua inglese, altezza, taglia 40 e n. 37 di  calzature), aveva presentato la propria candidatura, rispondendo all’annuncio ricevuto e inviando la propria fotografia.

In seguito, per contro, riceveva la seguente risposta:

«Ciao […] mi piacerebbe farti lavorare perchè sei molto carina, ma sei disponibile a togliere lo chador? Grazie»,

email a cui l’appellante replicava nei seguenti termini:

«Ciao […] porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa».

Seguiva, infine, l’ultimo scambio di email tra il selezionatore e la dipendente:

«Ciao […] immaginavo, purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili. Grazie comunque».

«Dovendo fare semplicemente volantinaggio, non riesco a capire in cosa devono essere flessibili i clienti…».

Violazione della direttiva 2000/78/CE  e dell’art. 3 D.LGS. 261/2003

In base alla normativa comunitaria (direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) attuata in Italia dal D.LGS. 216/2003, art. 3, comma 1, il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, orientamento sessuale, etc., esteso sia nel settore pubblico che privato, è suscettibile di tutela giurisdizionale con specifico riferimento ad alcune aree, tra cui:

«l’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione».

Pertanto, l’utilizzo di un criterio (richiesta di sciogliere i capelli senza utilizzo del velo) che sia intimamente collegato con quello vietato (distinzione in base all’appartenenza religiosa) costituisce discriminazione diretta.

La possibilità di stabilire una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi elencati dalla sopra citata norma è consentita e non costituisce discriminazione solo laddove, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui viene espletata tale caratteristica costiuisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attiività lavorativa e purchè la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.

Circostanze, quest’ultime, non riscontrate nel caso di specie.

Infatti, a nulla è valsa, a parere del Giudice di appello, la difesa articolata dalla società appellata, la quale ha sostenuto che il suo compito era quello di effettuare una preselezione delle candidate hostess sulla base delle caratteristiche fisiche ed estetiche predetermimnate dal cliente stesso.

In particolare, come visto, l’annuncio richiedeva alcuni requisiti quali l’altezza di almeno 165 cm., numero di scarpa 37, taglia 40/42 e, in aggiunta a questi, anche ulteriori requisiti, tra cui i “capelli lunghi, sciolti e vaporosi” che però venivano descritti come elementi secondari: l’utilizzo dell’avverbio “preferibilmente” esclude, ad avviso dei giudici, l’essenzialità della richiesta stessa.

In questi termini, cioè, l’assenza del velo non era mai stata prospettata, né dal committente, né dal selezionatore, come requisito essenziale e determinante della prestazione e, dunque, non può essere valevole a integrare la causa di giustificazione richiesta dalla citata normativa.

Documenti & materiali

Scarica il testo della sentenza Corte di Appello di Milano, 20/05/2016, n. 579

Avviso “Replay”

Questo articolo è stato pubblicato in data 07/06/2016 ed è stato uno dei più letti del nostro blog. Non costituisce un aggiornamento e viene nuovamente pubblicato nella sua stesura originaria per la serie “Replay” 2016.

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Author: Avv. Francesca Serretti Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 24 febbraio 1982. Iscritta all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 2010. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione lavoro di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

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