Frazionamento del credito, abuso del processo e responsabilità disciplinare dell’avvocato Cass. Civ. Sez. Un. 16/02/2017, n. 4090

By | 13/03/2017

Con un recente arresto (Cass. Civ. Sez. Un. 16/02/2017, n. 4090)1 le Sezioni Unite sono tornate sull’argomento del frazionamento del credito sfumando, almeno in parte, l’orientamento fortemente restrittivo a suo tempo espresso sul punto, secondo cui da siffatta condotta  (come noto consistente nel parcellizzare le richieste afferenti ad una pretesa unitaria nei confronti del medesimo soggetto, azionando in tal modo una pluralità di procedimenti giudiziari contro il medesimo, invece di concentrare il tutto in un unico giudizio) consegue l’applicazione della grave sanzione dell’improponibilità dell’intera domanda oggetto di frazionamento.2

Premessa generale

Molto sinteticamente, può in tesi generale dirsi che il comportamento in questione rientra nella categoria, di matrice giurisprudenziale ed alquanto discussa, dell’abuso del processo, ricorrente allorché una parte compia un atto processuale formalmente valido, ma con finalità diverse da quelle che gli sono proprie, così ingiustamente gravando la controparte di inutili pesi, in violazione dei doveri di buona fede, correttezza e lealtà processuale.3

Ad essa appartengono, oltre alla figura della frammentazione del credito (la quale, come vedremo subito appresso, si  ripartisce ulteriormente in due ulteriori sottospecie), anche l’uso deviato del processo e dei suoi strumenti (configurato, ad esempio, nel caso di chi instauri un contenzioso contro soggetti del tutto estranei al giudizio e/o inesistenti, allo scopo di trasferire la competenza territoriale in dato Foro piuttosto che in un altro);4 il comportarsi processualmente in modo puramente dilatorio (nel qual caso si sono, ad esempio, disapplicate norme astrattamente applicabili, onde evitare un inutile dispendio di attività processuali);5 e, infine, le ulteriori ipotesi che siano discrezionalmente valutate abusive dal giudice a mente dell’art. 96, 3° co., c.p.c.

Il tutto si colloca nell’alveo dell’abuso del diritto (sub specie abuso del diritto di azione),6 fattispecie anch’essa di elaborazione giurisprudenziale che si concretizza allorquando un soggetto eserciti un diritto in modo formalmente corretto, ma con modalità tali da sviare dalle finalità proprie della norma attributiva dello stesso, in tal modo determinando un sacrificio ingiustificato degli interessi del proprio partner negoziale.7

Casistica: frazionamento “del credito” e frazionamento “dei crediti”

Premessi i brevi cenni generali di cui sopra, ci si può ora concentrare su quanto propriamente attinente al tema del frazionamento, cominciando con il dire che quest’ultima figura si articola in due modalità operative diverse tra loro.

Da un lato, infatti, si collocano tutte quelle ipotesi in cui il creditore, invece di instaurare un unico contenzioso nei confronti della propria controparte, in tal modo concentrando in un solo processo le varie pretese ricollegate ad una singola obbligazione sottostante, (ragione per cui definiremo tali ipotesi in termini di frazionamento “del credito”),  moltiplica le iniziative giudiziali contro il  debitore azionando in tempi diversi singole porzioni di quell’unica obbligazione.

Si possono ricordare, ad esempio, i casi di chi:

  • propone più ricorsi per decreto ingiuntivo ciascuno per porzioni di un unico compenso professionale maturato nei confronti dello stesso cliente;8
  • aziona solo un’esigua porzione del proprio credito riservandosi di agire per il residuo, nell’intento di procurarsi un giudicato parziale da poter opporre al proprio debitore nell’eventuale successiva controversia attinente le ulteriori domande aventi ad oggetto tale residuo;9
  • pone in essere un comportamento analogo a quello appena descritto allo scopo di azionare la propria pretesa dinanzi ad un giudice dai costi inferiori, dalla forme più snelle e dai tempi più celeri.10

Dall’altro lato, esistono poi ulteriori fattispecie (che possiamo definire ipotesi di frazionamento “dei crediti” relativi ad uno stesso rapporto) in cui si collocano i comportamenti intesi a parcellizzare in più azioni le plurime pretese creditorie derivanti da un medesimo rapporto di durata intercorrente tra e stesse parti.

Possono esemplificarsi, ad esempio:

  • il caso in cui il danneggiato in un sinistro stradale proponga azione per il ristoro del danno materiale, riservandosi di instaurare un ulteriore giudizio per il danno alla persona riportato nel medesimo sinistro;11
  • il caso della proposizione, in distinti giudizi, di domande afferenti aspetti dello stesso rapporto di lavoro subordinato;12
  • o, ancora, il caso del creditore che si azioni in sede monitoria per la parte del credito vantato nei confronti dei proprio debitore munita di prova scritta, rimettendo al rito sommario un’ulteriore porzione creditoria sfornita dell’adeguato supporto istruttorio.13

Si tratta, come espressamente affermato dalle SS.UU. nella decisione 4090/2017 qui in commento, di categorie – quella del frazionamento “del credito” e quella del frazionamento “dei crediti” – diverse tra loro, la cui reciproca interferenza, tuttavia, come si vedrà, ha posto nella pratica diverse problematiche interpretative, fonte di altalenanti pronunce di legittimità e di merito.

Si aggiunga che la soluzione delle molteplici questioni implicate dall’argomento in esame ha comportato, da parte della giurisprudenza, il ricorso ai massimi valori ispiratori del nostro ordinamento giuridico:  dal principio di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), a quello del giusto processo (art. 111 Cost.); dal dovere di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), ai doveri di lealtà e probità processuale (art. 88 c.p.c.); dal divieto di abuso del diritto, a quello di abuso del processo, etc.

Si versa, cioè, in una di quelle ipotesi controverse nelle quali la decisione adottata finisce inevitabilmente con l’essere influenzata da fattori che superano il puro tecnicismo giuridico, colorandosi di enfasi etica e sfociando nell’elaborazione creativa di norme altrimenti non enucleabili nell’ordinamento.

Afflati, questi ultimi, che, pur ispirati al commendevole intento di razionalizzare e migliorare la malandata struttura del processo civile adeguandola alle esigenze della contemporaneità, finiscono inevitabilmente con il determinare veri e propri sommovimenti giurisprudenziali in funzione dei diversi metri di lettura di volta in volta adottati, rischiando di pervenire a risultati molto diversi da quelli auspicati, soprattutto in termini di (in)certezza operativa e di  (im)prevedibilità delle decisioni.

Frazionamento versione light, strong, medium,

Così, in tema di frazionamento “del credito” e/o “dei crediti”, si sono alternati nel tempo orientamenti giurisprudenziali di segno ora favorevole ora contrario accavallatisi tra loro al punto da richiedere tre diversi interventi delle Sezioni Unite.

Queste ultime, dal canto loro,  hanno, in un primo momento, sancito la piena liceità del frazionamento del credito, per poi completamente escluderla, ed infine, da ultimo, escluderla, sì, ma ammettendo la liceità almeno a certe condizioni, del diverso comportamento consistente nel frazionamento “dei crediti” (categoria, quest’ultima, la cui consapevolezza, almeno secondo chi scrive, si è pienamente maturata solo con la pronuncia del 2017 qui in esame, essendo stata, come si vedrà, spesso identificata con quella del frazionamento “del credito”).

Molto sinteticamente, dunque, può dirsi che, corrispondentemente ai tre arresti della Sezioni Unite sopra ricordati, si sono manifestati, in materia di frazionamento, tre orientamenti: uno che definiremo light, più risalente nel tempo; uno, che chiameremo strong, successivo ad esso, ed uno, infine, cui ci riferiremo come medium, che si colloca temporalmente ai giorni nostri e che, salvo ulteriori sorprese, è destinato a costituire l’attuale quadro operativo sul punto.

Versione light: frazionare il credito si può

La versione light della problematica del frazionamento è fatta propria da Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108,14 secondo la quale il frazionamento in più parti di un credito accompagnato dalla riserva di azione per il residuo è perfettamente ammissibile.

Gli argomenti su cui si fonda tale orientamento sono molteplici e possono riassumersi come di seguito:

  • esistenza della previsione di cui all’art. 1181 c.c., che «nel riconoscere il diritto del creditore di rifiutare un adempimento parziale, non esclude il potere dello stesso di accettarlo e, quindi, di richiederlo, anche giudizialmente» (in termini, v. Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108; v. pure Cass. Civ., Sez. II, 15/04/1998, n. 3814 e Cass. Civ., Sez. II, 19/10/1998, n. 10326);

  • mancanza di una norma che vieti espressamente il frazionamento della pretesa, di talché non è consentito di discostarsi dal tenore testuale dell’art. 1181 c.c., sopra riportato (Cass. Civ., Sez. II, 19/10/1998, n. 10326), né, comunque, di imporre al creditore di azionarsi in un unico contesto (Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 25/01/2016, n. 1251), neppure invocando i principi di correttezza, buona fede e solidarietà sociale, etc., richiamati, come vedremo, dai fautori del contrario opinamento “strong”;

  • impossibilità di valutare in termini di abuso del processo l’attività consistente nell’esercitare il proprio diritto di azione, potendosi ricorrere, al fine di eliminare eventuali effetti distorsivi, alla semplice  «valutazione dell’onere delle spese, come se unico fosse stato il procedimento sin dall’origine» (Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 25/01/2016, n. 1251);

  • mancanza di una norma che legittimi una pronuncia di inammissibilità/improponibilità, visto che «da una interpretazione sistematica, non è consentito all’interprete affermare l’inammissibilità di una domanda giudiziale per il fatto che la stessa riguarda solo una parte dell’unico credito vantato. In realtà è da dire che la normativa invocata non contiene alcun appiglio per giungere a tale inammissibilità» (Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108; nello stesso senso, Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 25/01/2016, n. 1251);

  • sussistenza di uno specifico interesse del creditore a ricorrere al frazionamento in funzione di ottenere un risparmio di costi o di tempi del processo ricorrendo ad un giudice di livello inferiore da quello previsto per l’intero credito (Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108);

  • possibilità per il debitore di evitare gli aggravi procedurali derivanti dal frazionamento,  valutando, «ove il creditore si limiti a chiedere un pagamento parziale, di offrire l’intero e porre in mora il creditore medesimo», oppure, laddove il creditore agisca solo per una parte del credito, di «rispondere con una domanda di accertamento negativo riguardante il credito per l’intero» (così Cass. Civ., Sez. II, 19/10/1998, n. 10326; nello stesso senso, Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108);

  • l’esistenza di ipotesi in cui si è ammessa la proposizione di domande parcellizzate, quali «una richiesta di condanna generica limitata all’an debeatur, con riserva di agire in separato giudizio per la determinazione del quantum» e la richiesta del risarcimento del maggior danno ex art. 1224 c.c. proposta «in separato giudizio, successivo a quello in cui si sia formato il giudicato sugli interessi legali per il medesimo ritardo, purché il creditore, nel primo giudizio abbia fatto espressa riserva di agire in separata sede per il maggior danno» (v. Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108).

Versione strong: frazionare il credito non si può

Alla tesi di cui sopra si contrappone l’impostazione fatta propria, sette anni dopo da Cass. Civ., Sez. Un., 15/11/2007, n. 23726,15 di segno completamente opposto, secondo la quale, dunque, il creditore non può legittimamente frazionare il proprio credito dovuto «in forza di un unico rapporto obbligatorio» (precisazione, quest’ultima, che, come vedremo trattando della versione “medium”, possiede un proprio autonomo rilievo), violando tale comportamento i principi di buona fede, correttezza, solidarietà sociale, giusto processo e ragionevole durata di esso.

Le principali ragioni addotte a suffragio di tale impostazione sono già state sopra accennate e sono essenzialmente le seguenti, tutte ricavate dalla lettura delle Sezioni Unite n. 23726/2007 sopra citata, che ha costituito un punto di svolta nell’approccio alla problematica:

  • valorizzazione delle regole di buona fede, correttezza e solidarietà sociale derivanti dal codice civile e costituzionalizzati tramite il riferimento all’art. 2 Cost, le quali «costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili»;

  • valorizzazione, ex art. 111 Cost., del principio di giusto processo e di ragionevole durata, il primo, in quanto un processo, per definizione «”giusto” non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi»; il secondo «per l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata»;

  • esigenza di non gravare ingiustamente la posizione del debitore, sia «per il profilo del prolungamento del vincolo coattivo cui egli dovrebbe sottostare per liberarsi della obbligazione nella sua interezza, ove il credito sia nei suoi confronti azionato inizialmente solo pro quota con riserva di azione per il residuo», sia «per il profilo dell’aggravio di spese e dell’onere di molteplici opposizioni (per evitare la formazione di un giudicato pregiudizievole) cui il debitore dovrebbe sottostare, a fronte della moltiplicazione di (contestuali) iniziative giudiziarie»;

  • irrilevanza di un interesse del creditore al frazionamento in quanto, anche se per avventura se ne ravvisasse l’esistenza «resterebbe comunque lesiva del principio di buona fede, nel senso sopra precisato, la scissione del contenuto della obbligazione operata dal creditore, per esclusiva propria utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del suo debitore»

Come si noterà, gli argomenti utilizzati dalla versione “strong” sono, in parte (gli ultimi due), speculari rispetto agli analoghi argomenti utilizzati, in senso eguale e contrario, per affermare la versione “light” del principio, in parte, invece, finalizzati ad allargare, per così dire, il respiro del metodo interpretativo, portandolo, dal terreno dell’analisi testuale, al piano dei principi generali e di lì operando una diversa ricostruzione della vicenda in chiave essenzialmente integrativa del sistema.

Versione medium: frazionare il credito non si può; frazionare i crediti sì; ma…

Infine, veniamo ai giorni nostri, allorquando Cass. Civ. Sez. Un. 16/02/2017, n. 4090 in esame ha prescelto una via intermedia nell’approccio alla problematica del frazionamento qui in esame, ampliandone l’orizzonte oltre il frazionamento “del credito”, sino a ricomprendere in generale anche l’intera tematica della parcellizzazione dei crediti derivanti da un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, (ovverosia il comportamento che si è sopra definito in termini di frazionamento “dei crediti”) e dichiarando la non legittimità del primo comportamento e, per converso la legittimità, quantomeno a date condizioni, del secondo.

Le SS.UU., infatti, partono da una interpretazione autentica del decisum del 2007 osservando che

«quando le sezioni unite hanno discusso di (in)frazionabilità del credito si sono riferite sempre ad un singolo credito, non ad una pluralità di crediti facenti capo ad un unico rapporto complesso. Pertanto solo una interpretazione dell’espressione “unico rapporto obbligatorio”, avulsa dal contesto nel quale essa è inserita, può indurre a ritenere che nella sentenza n. 23726 del 2007 il principio di infrazionabilità sia stato espressamente affermato non (soltanto) in relazione ad un singolo credito, bensì (anche) in relazione ad una pluralità di crediti riferibili ad un unico rapporto di durata».

In tal modo viene portato a compimento quel processo di progressiva maturazione della distinzione tra i due diversi tipi di comportamento “parcellizzante” – frazionamento (illegittimo) del singolo credito, da una parte, e frazionamento (legittimo a determinate condizioni) dei vari crediti derivanti dal medesimo rapporto, dall’altra –  che in giurisprudenza non era percepito sempre chiaramente, come emerge esaminando i percorsi giurisprudenziali di merito che hanno portato la Suprema Corte ad esprimersi nelle diverse fattispecie sottoposte al suo esame, nel corso dei quali un medesimo comportamento è stato ascritto, ora alla categoria del frazionamento illegittimo “del credito”, ora a quella del frazionamento legittimo “dei crediti”.

Infrazionabilità del singolo credito, frazionabilità del crediti inerenti ad un medesimo rapporto

Una volta operata la premessa di cui sopra e distinti i due casi di frazionamento sopra citati, le S.U. passano ad esaminare la tematica della legittimità o meno di ciascuno di essi, dichiarando sin dal principio di ritenere «decisamente condivisibile» l’indirizzo che sancisce l’infrazionabilità del singolo credito «nella considerazione che la parte può disporre della situazione sostanziale ma non dell’oggetto del processo, da relazionarsi al diritto soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l’estensione considerata dall’ordinamento» (così Cass. Sez. Un.. 4090/2017 in commento).

Senonché, proseguono le S.U., tale conclusione «non comporta tuttavia inevitabilmente (tanto meno implicitamente) la necessità di agire nel medesimo, unico processo per diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso tra le stesse parti» ed anzi, viene da esse affermato il principio secondo il quale «le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi».

Tuttavia la libera frazionabilità “dei crediti” in tal modo affermata non è senza limiti, in quanto se

«i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo – sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale -, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata».

In conclusione

In sintesi, dunque, lo schema tracciato oggi dalle SS.UU può essere così riassunto:

  • il frazionamento “ del credito” è illegittimo;
  • il frazionamento “dei crediti” derivanti dal medesimo rapporto di durata si ripartisce in due sottocategorie:
    • quella del frazionamento ammissibile de plano (crediti azionati non ascrivibili al medesimo ambito oggettivo e/o non fondati  sul medesimo fatto costitutivo);
    • quella del frazionamento ammissibile solo ove accompagnato da un interesse oggettivamente valutabile del creditore (crediti azionati ascrivibili al medesimo ambito oggettivo e/o fondati sul medesimo fatto costitutivo).

La distinzione tra i due diversi tipi di frazionamento: un percorso a ostacoli?

Il che, come è agevole rilevare, apre prospettive di incertezza interpretativa non da poco, posta l’obiettiva complessità delle questioni sollevate dall’articolato iter motivazionale della sentenza in esame ed il tenore obiettivamente sfumato dei contorni dei singoli casi pratici che si pongono all’attenzione dei giudicanti.

Un primo esempio

Basti pensare, in proposito, che il caso deciso dalle Sez. Un. del 2017 qui in commento traeva origine da un lavoratore che, cessato il rapporto di lavoro, si era azionato contro il suo ex datore, in un primo tempo per ottenere il ricalcolo del TFR e, in un secondo momento, per ricevere la corresponsione del premio fedeltà.

Le SS.UU, con la sentenza in commento, hanno ascritto tale comportamento non solo alla categoria del legittimo frazionamento “dei crediti”, ma anche alla sottocategoria del frazionamento “dei crediti” ammissibile de plano in quanto «gli istituti del TFR e del premio fedeltà hanno diversa fonte (legale l’uno e pattizia l’altro), nonché differenti presupposti e finalità», né essi risultano inscrivibili  «nel medesimo ambito oggettivo del giudicato», né può affermarsi che gli stessi «siano fondati sul medesimo fatto costitutivo».

Senonché, la stessa Suprema Corte, nel decidere una fattispecie analoga qualche anno prima (Cass. Civ., Sez. lav., 10/05/2013, n. 11256 , relativa sempre ad un caso in cui il lavoratore aveva intentato, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, in prima battuta, un giudizio per il ricalcolo del TFR e indi, quello per la corresponsione del premio di fedeltà) aveva opinato in senso diametralmente opposto ritenendo i principi enunciati dalle S.U. del 2007 (Cass. S.U.23726/2007 cit.) applicabili alla fattispecie, giacché la Corte

«ha infatti parlato di indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un “unico rapporto obbligatorio”, circostanza che sussiste anche nel caso di un rapporto di lavoro subordinato come tale produttivo sia di crediti di natura contrattuale che di natura legale, collegabili unitariamente alla loro genesi, la decisione originaria delle parti di stipulare un contratto di natura subordinata ex art. 2094 c.c.».

Ma allora: il rapporto di lavoro è fonte di un unico credito imparcellizzabile, come opinato nel 2013, oppure è la mera occasione dell’insorgenza di diversi rapporti di debito credito autonomi tra loro, come tali frazionabili de plano, senza neppure, cioè,  dover dimostrare d’avervi interesse, come ritenuto nel 2017?

Un secondo esempio

E, proseguendo nell’esemplificazione, il creditore che limiti il proprio (unico) credito ad un valore che attragga la relativa competenza alla sfera di un giudice inferiore riservando azione per il residuo (e ciò faccia nell’intento di ottenere un risparmio di costi in termini fiscali, o un vantaggio in termini di spostamento a sede territoriale più agevolmente raggiungibile, o ancora, di adire un giudice dalle forme più snelle e dalle tempistiche più celeri):

  • pone in essere un comportamento eticamente inaccettabile in quanto ingiustificatamente compressivo del diritto del debitore a fronte del non commendevole intento di «sottrarsi agli oneri fiscali collegati al processo civile di valore inferiore ad un milione [di Lire ndr], in quanto il giudizio davanti al Conciliatore si svolge gratuitamente», come opinato da Cass. Civ., Sez. I, 23/07/1997, n. 6900?
  • oppure esercita il proprio sacrosanto diritto di azione (v. Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108 e, ancor prima, Cass. Civ., Sez. II, 19/10/1998), in quanto «il ricorrere ad un giudice inferiore, più celere nella definizione delle controversie e innanzi al quale la lite costa di meno, anche se la sua conclusione non è interamente satisfattiva della pretesa, risponde all’interesse del creditore (…) lungi dal costituire, come ritiene Cass. 8 agosto 1997 n. 7400, un espediente processuale, si presenterebbe come corretta utilizzazione degli strumenti che l’ordinamento appresta»?
  • oppure, ancora, pone in essere un’attività che costituisce abuso del processo, violando, nell’ordine, i principi di buona fede oggettiva e correttezza, i doveri inderogabili di solidarietà sociale costituzionalizzati nell’art. 2  Cost., il principio del giusto processo e della sua ragionevole durata ex art. 111 Cost.  (v Cass. Civ., Sez. Un., 15/11/2007, n. 23726), neppure rilevando che il frazionamento in questione possa rispondere ad un qualche interesse del creditore poiché  «è decisivo il rilievo che resterebbe comunque lesiva del principio di buona fede, nel senso sopra precisato, la scissione del contenuto della obbligazione operata dal creditore, per esclusiva propria utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del suo debitore»?
  • o, infine, si contiene in modo tutto sommato lecito, come sembrano affermare le Sez. Un. del 2017 in esame, allorquando opinano (riferendosi ad una ipotesi di frammentazione “dei crediti”, ma con affermazione che appare, quantomeno in linea di principio, estensibile anche al caso di  frammentazione “del credito”) nel senso che una draconiana previsione di improponibilità della domanda finirebbe con il gravare ingiustificatamente il creditore che in tal modo perderebbe, ad esempio la possibilità «di agire dinanzi al giudice competente per valore per ciascuno dei crediti – quindi di fruire del più semplice e spedito iter processuale eventualmente previsto dinanzi a quel giudice»?

Si badi che, quantomeno a parere di chi scrive, i dubbi di cui sopra non possono essere liquidati e risolti  alla stregua di quel che accade in seguito ad in normale overruling giurisprudenziale, limitandosi, cioè, a constatare che quel che era lecito fare prima di quell’overruling, non è più dopo il medesimo.

Ciò, infatti, finirebbe con lo sminuire la portata del decisum delle SS.UU, in discorso, posto che queste ultime non si sono limitate ad esprimere la valutazione di ammissibilità di singole ipotesi di frazionamento (di pretese afferenti al rapporto di lavoro, piuttosto che di altre domande nell’intento di affidarsi ad un giudice meno costoso e più rapido, etc.),  ma hanno inteso all’evidenza fornire un quadro complessivo dell’intera problematica, enunciando principi capaci di trovare generale applicazione a qualsiasi fattispecie in essa annoverabile.

E allora il vero problema, in regime di precedente non vincolante ed in un sistema in cui la locuzione tot capita tot sententiae descrive un diffuso stato di fatto (e sovente un diffuso stato di malessere ed incertezza degli operatori), è quello di domandarsi quanto l’impostazione in questione, affidata come è alla valutazione ed al conseguente inquadramento dei singoli casi da parte dei singoli giudici in base dal rispettivo grado di attenzione al dettaglio, impostazione mentale, sensibilità giuridica, sarà capace di consolidarsi in futuro, nella molteplicità dei casi sui quali essa è destinata ad impattare.

E, poi di domandarsi, ancora,  se, forse, non si sarebbe potuta trovare una diversa soluzione, magari meno creativa, elegante, sottile e pindarica, ma più aderente al tessuto normativo e, soprattutto, più confacente alle esigenze di tutela del diritto di azione che viene potentemente compresso, tramite un’inedita sanzione di improcedibilità non comminata dalla legge.

Le conseguenze

Sul tema delle conseguenze derivanti dall’accertamento delle fattispecie di frazionamento, si è già accennato al fatto che la giurisprudenza sanziona detto comportamento con una previsione di improponibilità dell’intera domanda (o anche in diversa opzione, delle domande successivamente proposte).

Circa tale conclusione, vale però la pena di rilevare che l’ordinanza di rimessione del 2016 che ha ingenerato il revirement sfociato nelle Sez. Un. 4090/2017 in parola (Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 25/01/2016, n. 1251) ha, alquanto lapidariamente e condivisibilmente, rilevato, in senso diametralmente opposto a tale conclusione come, all’interno del sistema processuale,

«non vi siano strumenti per far derivare dalla violazione del dovere di lealtà e probità configurabile nella proposizione di una pluralità di domande a rapporto ormai cessato, per fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima, ancorché nella consapevolezza del creditore della loro sussistenza, la sanzione della improponibilità delle domande successive alla prima. Gli strumenti che l’ordinamento appresta solo indirettamente possono sanzionare tale comportamento, ma non nei termini della preclusione processuale suddetta».

A tale questione, di non poco momento, tuttavia la sentenza Sez. Un. 23726/2007 sopra citata, ebbe a dedicare solo un inciso parentetico (contenuto in un passaggio finale ove si enunzia il principio «per cui è contraria alla regola generale di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e si risolve in abuso del processo (ostativo all’esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario»)

Tanto è vero ciò, che l’anno successivo la terza sezione (Cass. Civ., Sez. III, 11/06/2008, n. 15476)16, nel riferirsi al precedente appena citato, dovette rilevare che come conclusione relativa all’improponibilità «di ciascuna delle singole domande (in ciascuna delle relative diverse cause) in cui è stata frazionata la domanda concernente l’intera somma», non emergesse espressamente dalla sentenza stessa, potendo essere dedotta, però, dalla sua ratio.

Le Sezioni Unite del 2017 in esame, dal canto loro, sembrano dare per scontata tale conclusione, e non affrontano ex professo il tema, tantomeno con la dovizia di argomenti e riferimenti “alti” dedicata all’esame dell’an inerente la problematica.

Sta di fatto che la conclusione resta comunque la stessa: la sanzione del frazionamento illegittimo è quella dell’improponibilità della domanda, il che finisce paradossalmente, oltre che con il punire il creditore nella sostanza del proprio diritto, che egli perde in virtù di ragioni puramente processuali, anche per premiare il debitore inadempiente, il quale viene liberato di un debito che non ha onorato sempre per ragioni di carattere processuale, o per punire anche quest’ultimo, privandolo della possibilità di dimostrare che il suo inadempimento non era, in realtà tale.

La verità è che, come affermato lucidamente in dottrina,17

«nessuna domanda può considerarsi abusiva se non è infondata, cosicché il comportamento abusivo non può che passare attraverso una pronuncia del giudice che respinge nel merito la richiesta considerata tale, ma anche perché non sta scritto da nessuna parte, e sarebbe in contrasto con un principio di legalità, che il giudice possa liberarsi di una istanza senza analizzarla nel merito solo perché, a suo parere, abusiva»

e che, in presenza di situazioni siffatte,  invece di ricorrere a rimedi extra ordinem sarebbe ben possibile optare per quelli esistenti che non stronchino sul nascere il cammino del processo consentendogli di pervenire al suo esito: dall’applicazione delle regole inerenti ai limiti oggettivi del giudicato, al contenimento delle spese, in ipotesi di plurime azioni giudiziali, a quanto liquidabile per un solo contenzioso; dall’avvalersi delle leve già previste dagli artt. 88 e ss. c.p.c., al sanzionare anche il difensore che si sia contenuto in modo non conforme ai principi di lealtà processuale, aspetto, quest’ultimo, che apre un ultimo tema ricollegato al “frazionamento” qui in esame, ovverosia quello della responsabilità disciplinare dell’avvocato che si contenga in giudizio nei modi suindicati.

La responsabilità dell’avvocato  frazionante

L’art. 49 del previgente codice deontologico forense prevedeva l’obbligo dell’avvocato di non «aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita».

Anche oggi il nuovo codice deontologico forense , all’art. 66, tipicizza il medesimo illecito:

«1. L’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita.

2. La violazione del dovere di cui al precedente comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura»

Sul punto sono recentemente intervenute le Sezioni Unite (Cass. Civ., Sez .Un., 17/01/2017, n. 961)18, le quali ribaditi i principi generali in tema di indebito frazionamento, hanno confermato la sentenza con la quale era stata irrogata, rispettivamente, la censura e la sospensione di tre mesi (tornava all’epoca applicabile il previgente art. 49) a due avvocati che si erano resi protagonisti di tale comportamento (nella specie in sede esecutiva), osservando che ciò che rileva, allorquando si controverte in materia di responsabilità forense in casi consimili non è tanto «lo specchio dogmatico del diritto soggettivo o del diritto di azione», ma

«l’osservanza di principi di correttezza e buona fede quali emergenti da una regola deontologica di protezione com’è quella dell’art. 49 cit., dettata in funzione della responsabilità sociale dell’avvocato quale fondamentale cerniera tra le persone e l’ordinamento giuridico».

Il che dimostra, da un lato, che l’ordinamento forense era ben consapevole delle problematicità implicate dal tema in esame, al punto da prevedere uno specifico illecito disciplinare ad esso inerente, dall’altro che l’ordinamento ha già a propria disposizione un rimedio tipico e nominato per vicende quali quelle in esame, che non interferisce con lo svolgimento del processo e, dunque, con i diritti sostanziali delle parti.

Conclusioni

L’esempio sopra riportato ci porta ad una conclusione di questa disamina che non può che essere di segno dissenziente nei confronti di un istituto che – per di più in un contesto processuale ormai disseminato di inammissibilità, testuali o di invenzione giurisprudenziale – si rivela, a dispetto degli intenti espressi, un mezzo talmente discrezionale da divenire pressoché arbitrario, pervasivo, al punto da permeare di sé pressoché ogni settore del diritto  processuale e non solo, in definitiva ingiusto, giacché scarica sulle parti le responsabilità e le inefficienze del sistema.

La verità è che in un quadro siffatto  – ricordando ancora una riflessione tratta dall’autore dianzi citato,19 l’abuso del processo finisce con il rappresentare

«solo un nuovo modo per contrarre e render più difficoltoso l’esercizio del diritto di difesa, attribuendo per converso al giudice il nuovo potere di sanzionare il comportamento processuale delle parti anche in ipotesi non predeterminabili».

Affermazione con la quale non si può che conclusivamente concordare.

Documenti & materiali

Scarica Cass. Civ. Sez. Un. 16/02/2017, n. 4090
Scarica Giuliano Scarselli, «Sul c.d. abuso del processo», 2012

Note al testo

1. Cass. Civ. Sez. Un. 16/02/2017, n. 4090, secondo la quale «le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Se tuttavia i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo – sì da non poter essere accertati separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale -, le relative domande possono essere proposte in separati giudizi solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Ove la necessità di siffatto interesse (e la relativa mancanza) non siano state dedotte dal convenuto, il giudice che intenda farne oggetto di rilievo dovrà indicare la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, riservare la decisione assegnando alle parti termine per memorie ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.c.».

2. v., ad es., Cass. Civ., Sez. III, 11/06/2008, n. 15476, secondo cui «tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito sono da dichiararsi improponibili».

3.Cass. Civ., Sez. II, 07/11/2016, n. 22574, secondo cui «si ha abuso del processo quando la parte pone in essere un atto processuale non per perseguire lo scopo proprio dell’atto, ma -sviando l’atto dalla sua causa tipica – per perseguire uno scopo diverso da quello per cui l’atto è funzionalmente previsto dalla legge, dando luogo – per questo ad una violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, che è tenuta ad osservare».

4.v., ad es., Cass. Civ., Sez. I, 10/05/2010, n. 11314, secondo cui «la deroga alla competenza territoriale determinata dal cumulo di cause connesse, proposte contro più persone e radicate presso il giudice del foro generale di uno dei convenuti, non trova applicazione allorché l’evocazione in giudizio di uno di essi appaia prima facie artificiosa e preordinata allo spostamento della competenza. (Nel caso di specie, la S.C. ha negato la sussistenza di tale situazione, con riferimento alla domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di trasferire una quota sociale intestata fiduciariamente ad un socio, proposta dinanzi al giudice del luogo in cui aveva sede la società, convenuta in giudizio al solo fine di rendere ad essa opponibile la richiesta modifica della compagine sociale, con conseguente deroga alla competenza del giudice del luogo di residenza dei soci convenuti)».

5. v., ad es., Cass. Civ., Sez. II, 08/02/2010, n. 2723, secondo cui «Il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli art. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superflua, pur potendo sussistere i presupposti (come nella specie, per inesistenza della notificazione del ricorso nei confronti di alcuni litisconsorti necessari), la fissazione del termine ex art. 331 c.p.c. per l’integrazione del contraddittorio, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti».

6. Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 25/01/2016, n. 1251, secondo cui «non vi sono strumenti per far derivare dalla violazione del dovere di lealtà e probità configurabile nella proposizione di una pluralità di domande a rapporto ormai cessato, per fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima, la sanzione dell’improponibilità delle domande successive alla prima. Non sussistendo sul punto un orientamento giurisprudenziale unanimemente condiviso, il Collegio ritiene di dovere rimettere la questione alle Sezioni Unite compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso».

7.V., ad es., Cass. Civ., Sez. III, 18/09/2009, n. 20106, secondo cui «si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti. Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti».

8. Caso esaminato da Cass. Civ., Sez. I, 23/07/1997, n. 6900, secondo cui «deve ritenersi contrario a buona fede, e quindi inammissibile, siccome illegittimo per abuso del diritto, il comportamento del creditore il quale, potendo chiedere l’adempimento coattivo dell’intera obbligazione, frazioni, senza alcuna ragione evidente, la richiesta di adempimento in tutta una pluralità di giudizi di cognizione davanti a giudici competenti per le singole parti. Né vale ad escludere questo giudizio di sfavore il fatto che nessun vantaggio economico si profili, in tal modo, per il creditore. Ciò che, infatti, unicamente rileva, ai fini di una corretta impostazione del problema entro i canoni ermeneutici del principio di buona fede, è l’esistenza di un qualsivoglia pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispondente vantaggio – meritevole di tutela – per il creditore».

9. Caso esaminato da da Cass. Civ., Sez. I, 08/08/1997, n. 7400, secondo cui «è contraria ai doveri di buona fede e correttezza contrattuale la condotta del creditore che, senza un apprezzabile interesse, frammenti la propria azione di condanna in una serie di procedimenti monitori, ciascuno limitato ad una parte del “quantum” complessivo dell’unica obbligazione negoziale. Va conseguentemente respinto, in quanto inammissibile, il ricorso per decreto ingiuntivo diretto ad ottenere la condanna del debitore ad una frazione dell’intero, dopo che siano già state ottenute una o più precedenti ingiunzioni per altre frazioni del medesimo debito

Un decreto ingiuntivo non opposto, richiesto ed ottenuto per una frazione soltanto del credito risultante, per l’intero, da un’unica fattura di maggior importo, non è idoneo a rivestire, in un successivo giudizio di opposizione ad altro e successivo decreto ottenuto per altra frazione dello stesso credito, forza e natura di giudicato, né interno (trattandosi di diverso processo), né esterno o implicito (trattandosi non di rapporto presupposto, ma di altra “porzione” del medesimo rapporto obbligatorio, controverso “quoad executionis”)».

10.Caso esaminato da Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108, secondo cui «è ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento e rispondente all’interesse del creditore meritevole di tutela, e che non sacrifica in alcun modo il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni».

11.Caso esaminato da Cass. Civ., Sez. III, 22/12/2011, n. 28286, secondo cui «ove le conseguenze dannose derivanti da un unico fatto illecito siano già interamente note al momento della proposizione della domanda, il frazionamento dell’azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, ancorché effettuato con riserva espressa di far valere ulteriori e diverse voci di danno in un altro procedimento, costituisce una forma di abuso del processo ostativo all’esame della seconda domanda».

12.Caso esaminato, con esiti alterni, da Cass. Civ., Sez. Un., 22/12/2009, n. 26961, secondo cui «in materia di obbligazioni pecuniarie nascenti da un unico rapporto di lavoro, costituisce principio generale la regola secondo la quale la singola obbligazione va adempiuta nella sua interezza e in un’unica soluzione, dovendosi escludere che la stessa possa, anche nell’eventuale fase giudiziaria, essere frazionata dal debitore o dal creditore. Ne consegue che, ove la prestazione abbia ad oggetto la restituzione di somme indebitamente ricevute e relative all’erogazione degli accessori dell’indennità di buonuscita, sussiste l’obbligo di restituire l’indebito attraverso il pagamento in un’unica soluzione, dovendosi escludere l’applicabilità, in via estensiva od analogica, della norma di cui all’art. 26 del d.P.R. n. 1032 del 1973, secondo la quale il recupero dell’indennità di buonuscita indebitamente corrisposta avviene mediante una pluralità di trattenute sul trattamento di quiescenza, attesa la natura speciale ed eccezionale di tale disposizione»; Cass. Civ., Sez. I, 17/04/2013, n. 9317,  secondo cui «in materia di insinuazione al passivo di crediti derivanti da un unico rapporto di lavoro subordinato, il principio di infrazionabilità del credito determina l’inammissibilità della domanda frazionata solamente nel caso in cui il rapporto si sia concluso, con conseguente definizione delle rispettive posizioni di debito e credito, ed il creditore abbia dichiarato, nonostante l’unitaria contezza delle proprie spettanze, di voler agire soltanto per una parte di esse, dovendosi, per contro, ritenere ammissibili una pluralità di domande, ove il creditore non abbia effettuato, senza essere in colpa, una considerazione unitaria di distinte voci di credito, ciascuna con autonomi elementi costitutivi, sia pure nella cornice di un unitario rapporto, restando esclusa, in tal caso, una connotazione di abusività della condotta»;  Cass. Civ., Sez. lav., 10/05/2013, n. 11256, secondo cui «dopo la cessazione del rapporto di lavoro, i diritti derivanti dal medesimo, devono essere azionati simultaneamente alfine di evitare una dannosa frammentazione dei processi e salvaguardare i principi di correttezza e buonafede contrattuale»; Cass. Civ. Sez. Un. 16/02/2017, n. 4090, secondo cui «deve infatti osservarsi che gli istituti del TFR e del premio fedeltà hanno diversa fonte (legale l’uno e pattizia l’altro), nonchè differenti presupposti e finalità, non risultando, in particolare, che il credito azionato in relazione al premio fedeltà sia inscrivibile nel medesimo ambito oggettivo del giudicato ipotizzabile in relazione alla precedente domanda riguardante la rideterminazione del TFR, nè che i due crediti siano fondati sul medesimo fatto costitutivo; onde è da ritenersi che ben poteva il lavoratore proporre le domande suddette in diversi processi, senza neppure la necessità di verificare la sussistenza di un interesse oggettivamente valutabile a tale separata proposizione».

13. Caso esaminato da Cass. Civ., Sez. II, 18/05/2015,  n. 10177, secondo cui «l‘attore che, a tutela di un unico credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua, non incorre in un abuso dello strumento processuale per il frazionamento del credito in quanto tale comportamento non si pone in contrasto né con il principio di correttezza e buona fede, né con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore a una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore» e da Cass. Civ., Sez. II, 07/11/2016, n. 22574), secondo cui «si ha abuso del processo quando la parte pone in essere un atto processuale non per perseguire lo scopo proprio dell’atto, ma -sviando l’atto dalla sua causa tipica – per perseguire uno scopo diverso da quello per cui l’atto è funzionalmente previsto dalla legge, dando luogo – per questo ad una violazione dei doveri di correttezza e di buona fede, che è tenuta ad osservare. Non incorre in abuso del processo l’attore che, a tutela di un credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca prima con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e poi con il procedimento ordinario di cognizione per la parte residua, dovendosi riconoscere il diritto del creditore ad una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per la parte di credito liquida che sia provata con documentazione sottoscritta dal debitore».
L’attore che, a tutela di un credito nascente da un unico rapporto obbligatorio (nella specie per il pagamento di compensi professionali), agisce, dapprima, con ricorso monitorio, per la somma già documentalmente provata, e, poi, in via ordinaria, per il residuo, non viola il divieto di frazionamento di quel credito in plurime domande giudiziali, e non incorre, pertanto, in abuso del processo, – quale sviamento dell’atto processuale dal suo scopo tipico, in favore di uno diverso ed estraneo al primo – stante il diritto del creditore a ricorrere ad una tutela accelerata, mediante decreto ingiuntivo, per la parte di credito assistita dai requisiti per la relativa emanazione»

14. Cass. Civ., Sez. Un., 10/04/2000, n. 108 , secondo cui «è ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento e rispondente all’interesse del creditore meritevole di tutela, e che non sacrifica in alcun modo il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni».

15. Cass. Civ., Sez. Un., 15/11/2007, n. 23726, secondo cui «non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale».

16. Cass. Civ., Sez. III, 11/06/2008, n. 15476, secondo cui «Da detta sentenza di questa Corte non emerge espressamente la sorte della domanda proposta in violazione del principio medesimo. Tuttavia dal complesso della motivazione (ed in particolare dalla sua ratio) si evince che la domanda è improponibile; e che detta improponibilità investe ciascuna delle singole domande (in ciascuna delle relative diverse cause) in cui è stata frazionata la domanda concernente l’intera somma in questione (e cioè la domanda come avrebbe dovuto essere proposta per essere ritenuta rituale ed dunque proponibile)».

17.  Giuliano Scarselli, «Sul c.d. abuso del processo», 2012, scaricabile dal sito dell’autore a questo indirizzo.

18. Cass. Civ., Sez .Un., 17/01/2017, n. 961, secondo cui «il frazionamento soggettivo delle azioni giudiziarie costituisce condotta abusiva perché idonea a gravare le parti dell’aumento degli oneri processuali derivanti dalla proliferazione non necessaria dei procedimenti»

19.  Giuliano Scarselli, «Sul c.d. abuso del processo», 2012, scaricabile dal sito dell’autore a questo indirizzo.

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