Impresa familiare: in che misura si calcola la quota degli incrementi (all’avviamento) Cass. Civ., Sez. Lavoro, 15/11/2017 n. 27108


«In tema di impresa familiare, la quota spettante al familiare partecipante al momento della cessazione che, ex art. 230-bis c.c., va determinata esclusivamente sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto nell’impresa, è relativa nella stessa misura tanto agli utili che agli incrementi, siano essi materiali o immateriali».

La decisione sopra riportata è arrivata nello scorso novembre dalla Cassazione Sezione lavoro che si è occupata della questione nell’ambito dello scioglimento di una impresa familiare (avente ad oggetto la gestione di una farmacia) in occasione della separazione personale tra i coniugi.

Nello specifico, la moglie, farmacista, chiedeva l’accertamento dello scioglimento dell’impresa familiare, di cui era titolare, a far data dal deposito del ricorso per separazione, nonché dell’intercorso pagamento al convenuto (il marito, partecipante alla ridetta impresa) degli utili (pari al 49% secondo disposizione dell’atto costitutivo).

Il marito, dal canto suo, agiva in riconvenzionale per ottenere la condanna della moglie al pagamento della quota di utili maturata, nonché del 4% del valore della intera azienda, previa dichiarazione di nullità della clausola contraria contenuta nell’atto costitutivo.

Il giudice del lavoro di primo grado dichiarava lo scioglimento della impresa familiare dalla data del ricorso per separazione e accertava il diritto del marito agli utili, liquidando n suo favore una somma pari al 49% dell’intero patrimonio netto dell’impresa familiare.

La Corte d’appello territoriale adita da entrambi i coniugi, previa riunione degli appelli proposto separatamente, li accoglieva parzialmente, per l’effetto riducendo l’importo riconosciuto in primo grado al marito a titolo di partecipazione agli incrementi.

Il giudice di secondo grado precisava altresì che lo scioglimento dell’impresa non poteva retroagire al momento dell’atto introduttivo dalla separazione, dal momento che tale domanda «non implicava necessariamente la manifestazione della volontà di sciogliere la impresa familiare».

La sentenza d’appello confermava la dichiarazione di nullità, già statuita nel primo grado, della clausola dell’atto costitutivo che escludeva la partecipazione del marito all’incremento dell’avviamento, per contrarietà alla norma dell’art. 230 bis CC, disposizione che andava a sostituirsi alla clausola nulla.

Alla luce della disposizione codicistica sostitutiva veniva determinato anche l’ammontare di tale incremento, non già nel 49%, bensì in ragione della qualità e quantità del lavoro prestato e determinato nella specie in misura pari al 20%, tenuto conto del ruolo, marginale, del marito che per l’assenza del titolo abilitante non poteva svolgere le attività riservate alla farmacista.

I motivi di censura

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il marito, mentre la moglie ha spiegato ricorso incidentalmente.

Con il primo motivo di ricorso il marito ha denunziato la violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis CC in riferimento alla statuizione di determinazione della sua quota di partecipazione all’incremento dell’avviamento nella misura del 20%.

La censura fonda la propria ragionevolezza sul fatto che nell’atto costitutivo dell’impresa (familiare) le parti avevano determinato la sua quota di partecipazione agli utili nella misura del 49%, pattuizione che essendo stata riconosciuta in sentenza come dichiarazione negoziale, come tal doveva ritenersi prevalente sul criterio legale dell’art. 230 bis CC.

In ogni caso – ad avviso del ricorrente – la previsione contrattuale, anche a volerne riconoscere la natura di dichiarazione di verità, costituiva prova del valore del lavoro svolto ai fini della partecipazione agli incrementi sia materiale che immateriali, come l’avviamento.

Infine, il ricorrente ritiene che il criterio che la sentenza poneva a fondamento della diversa misura delle quote era comunque illogico, in quanto il valore del titolo abilitativo della moglie era stato già calcolato come parametro predeterminante nel valore iniziale della azienda.

La decisione della Cassazione

Gli ermellini in accoglimento del primo e centrale motivo del ricorso principale, nel quale devono considerarsi assorbiti gli altri 2, hanno chiarito come la sentenza impugnata avesse accertato che la quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare fosse stata predeterminata dalle parti nell’atto costitutivo, così come quella agli incrementi materiali in misura pari al 49%.

Tale determinazione, anche a volerne disconoscere il caratte negoziale, forniva comunque la prova del valore della collaborazione prestata dal partecipante, sub specie il marito.

Secondo la Cassazione infatti tale statuizione è conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità formatasi in relazione al valore delle dichiarazioni rese a fini fiscali ai sensi dell’art. 9 L. n. 576/1975 ed estensibile al caso di specie, ove la la quota di partecipazione agli utili veniva fissata nell’atto costituivo e restava pacificamente invariata nel corso degli anni di svolgimento della collaborazione familiare.

Alla luce di tali assunti, ritiene la Cassazione che la sentenza impugnata abbia violato l’art. 230 bis CC

«nella parte in cui ha ritenuto che la quota di partecipazione del familiare che collabora nella impresa familiare possa essere diversa per gli utili e gli incrementi materiali – da un lato – e per gli incrementi immateriali – dall’altro»,

e, prosegue, affermando che

«il diritto attribuito al familiare dall’art. 230 bis cod. civ. è invece unitario ed, in particolare, è ugualmente commisurato sia per gli utili che per gli incrementi unicamente alla “quantità e qualità del lavoro svolto” e cioè all’apporto di lavoro del familiare nella conduzione complessiva della impresa».

In altri termini,

«il criterio di determinazione della quota di partecipazione del familiare è quello della quantità e qualità del lavoro svolto dal familiare-collaboratore nella gestione della impresa e non della sua effettiva incidenza causale sul conseguimento degli utili ed incrementi, che rappresentano soltanto l’effetto e non la misura dell’attività svolta».

E, dunque, la ratio della previsione dell’art. 230 bis CC risiede nel fatto che utili ed incrementi non sono che

«due diverse modalità di impiego dello stesso risultato economico prodotto attraverso la collaborazione familiare: l’utile rappresenta l’incremento risultante dallo svolgimento della attività di impresa nel corso di un esercizio finanziario; gli incrementi patrimoniali derivano del reinvestimento nella azienda degli utili conseguiti e non distribuiti».

L’accoglimento del motivo centrale di ricorso ha portato alla cassazione della pronunzia ed in applicazione del principio di diritto riportato nell’epigrafe del presente articolo, la Cassazione ha rinviato gli atti ad altro giudice in diversa composizione affinché provveda ad un nuovo esame degli atti sulla base del principio di diritto così enunciato, oltre che in punto di spese.

La Corte, infine, ha ritenuto infondati alcuni dei motivi del ricorso incidentale presentato dalla moglie, mentre gli altri li ha dichiarati inammissibili.

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Author: Avv. Francesca Serretti Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 24 febbraio 1982. Iscritta all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 2010. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione lavoro di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

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