E’ incostituzionale la previsione d’inammissibilità del ricorso per difetto della dichiarazione di valore nel giudizio previdenziale In nota a sent. Corte Costituzionale 20/11/2017, n. 241

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La Corte d’appello di Torino, sezione lavoro, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’ultimo periodo dell’art. 152 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile (come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del D.L. 06/07/2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella L. 15/07/2011, n. 111 che, nei giudizi previdenziali, al fine di vincolare il giudice a liquidare le spese nei limiti di valore della prestazione dedotta, prescriveva alla parte di indicare il suddetto valore nelle conclusioni del ricorso introduttivo.

In effetti, la citata normativa prescriveva che l’adempimento fosse richiesto a pena di inammissibilità del ricorso e, secondo il giudice rimettente, la norma era in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, comma 1, della CEDU (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848) poiché la sanzione dell’inammissibilità era manifestamente irragionevole e sproporzionata rispetto al fine, perseguito dal legislatore, di garantire una congrua liquidazione delle spese giudiziali, in relazione al valore della prestazione richiesta.

Secondo la Corte d’appello di Torino remittente, la dichiarazione prescritta costituiva un presupposto processuale della domanda e la sua mancanza privava il giudice della potestas judicandi, rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, né la lettera della norma, che impone una dichiarazione esplicita, autorizzava a desumere il valore della prestazione dal contesto complessivo del ricorso.

L’obbligo dichiarativo si traduceva, quindi, in una limitazione formale all’accesso alla tutela giurisdizionale, irragionevole e ingiustificata rispetto al fine di contenimento delle spese e, quindi, in contrasto con l’art. 3 Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 6, comma 1, CEDU.

Con la sentenza 241/2017 che qui si segnala, la Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la sollevata questione, e dopo aver ricordato che l’ultimo capoverso dell’art 152 disp. att. cod. proc. civ, inserito dall’art. 38 del D.L. 06/07/2011, n. 98, convertito, con modificazioni, in L. 15/07/2011, n. 111, prevede che

«A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo».

e che il controllo di costituzionalità, vertendo in materia di istituti processuali, per la cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, deve limitarsi a riscontrare se sia stato o meno superato il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute e che tale riscontro va operato attraverso la verifica

«che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti».

Ciò ricordato la Corte osserva che l’ultima parte dell’art. 152 disp. att. cpc, oggetto di censura, debba essere letta congiuntamente alla previsione del capoverso immediatamente precedente, introdotto dall’art. 52 della L. 18/06/2009, n. 69 che stabilisce che il giudice, nei giudizi per prestazioni previdenziali, non può liquidare spese, competenze ed onorari superiori al valore della prestazione dedotta in giudizio.

La stretta correlazione che lega i due periodi è esplicita e la ratio sottesa al complessivo intervento normativo va ricercata nell’esigenza di evitare l’utilizzo abusivo del processo che, in materia previdenziale, veniva spesso instaurato per soddisfare pretese di valore economico irrisorio, al solo fine di conseguire le spese di lite.

In sostanza le disposizioni normative mirano a deflazionare il contenzioso bagatellare, ma quella che prevede di non liquidare le spese in misura superiore al «valore della prestazione dedotta in giudizio», secondo la Corte Costituzionale, è di per sé sola già idonea a perseguire pienamente lo scopo.

E osserva che:

«L’eccessiva gravità della sanzione e delle sue conseguenze, rispetto al fine perseguito, comporta, quindi, la manifesta irragionevolezza dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., ultimo periodo, il quale prevede che «A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo».

Per queste ragioni, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 241/2017 che qui si segnala:

«dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 152, ultimo periodo, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111».

Documenti & materiali

Scarica la sentenza Corte Costituzionale 24/10/2017, n. 241 (depositata il 20/11/2017)

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