Avvocati: scacco matto

By | 04/09/2017

La ripresa delle attività dopo la pausa estiva pone gli avvocati italiani dinanzi a diverse novità di rilievo introdotte dalla c.d. legge sulla concorrenza (L. 04/08/2017, n. 124), che introduce, in particolare, le ormai note società di capitali e che sembra costituire l’ultimo tassello di un percorso di ristrutturazione della professione forense fatto di più mosse snodatesi negli anni sulla scacchiera politica.

Una specie di immaginario “scacco matto”, come tale vissuto da alcuni, almeno a giudicare da parte dei commenti a caldo che si sono letti.

L’avvocatura madre di tutti i mali?

Se, poi, tale “scacco matto”, vi sia effettivamente stato e, soprattutto, se esso sia davvero connotato negativamente, è tutto da vedere.

Ma sembra alquanto indiscutibile, che l’avvento delle società di capitali, per le modalità con cui è avvenuto e qualunque sia il segno che gli si riconosca, rappresenta l’epifenomeno di un disegno politicamente ostile all’avvocatura, condotto secondo una strategia precisa, iniziata anni fa,  e che, come tutte le strategie che si rispettino, ha gettato le proprie basi identificando nell’immaginario pubblico la figura del responsabile dei mali della giustizia italiana: l’avvocatura, appunto.

Così sono cominciate le equazioni semplificatorie tese ad identificare negli avvocati i responsabili – e, via via, sempre più gli unici responsabili – prima, della giustizia lenta (troppi avvocati = troppe cause = giustizia lenta); poi, delle mancate riforme (avvocati lobbysti = mancate riforme); e infine, su su, sino alla responsabilità delle crisi degli investimenti esteri e della mancata ripresa economica, determinate dal combinato operare dei due fattori, giustizia lenta e mancate riforme, appena esaminati.

Tutti ricordiamo diverse manifestazioni pubbliche di tale percorso, divenuto ormai tralaticio, in talk show, giornali e dibattiti vari.

Come esempi, si possono citare la frase: «gli avvocati? Le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale» pronunziata da quello stesso Ministro della Giustizia allora in carica che, dovendo incontrare una rappresentanza dell’avvocatura se ne era già uscita con un «li vado ad incontrare, così me li levo dai piedi», divenuto leggendario.

O il giudizio del finanziere “in quota” premier di allora, che ebbe ad affermare che di avvocati «ce ne sono troppi, come un cancro».

O, ancora, il commento di quello stesso premier di cui sopra, il quale, inaugurando un tratto autostradale ebbe a dire: «Ci vuole l’Italia che corre e che fa le cose e non che ingrassa i conti correnti degli avvocati per le varie cause».

Si tratta solo di alcuni recenti esempi che – va detto – non hanno nessun segno politico, posto che il disegno di addossare agli avvocati (e, in modo quasi virale, all’intero sistema giustizia) la responsabilità dell’arretratezza socio-culturale del Belpaese e la mancanza di attrattiva economica dello stesso per gli investitori esteri, non ha avuto padrini politici, avendo connotato piuttosto trasversalmente l’arco costituzionale.

E così, tra l’accusa di lobbysmo, l’assimilazione a devastanti malattie, il ricorso all’iconografia del grasso affarista senza scrupoli con cilindro e panciotto, è finita che, nell’immaginario collettivo, l’intera responsabilità della balbettante situazione economica del nostro paese si è addebitata, non già ad una burocrazia farraginosa, ad un ceto politico incompetente e spesso corrotto, a  classi dirigenti pubbliche e private selezionate in base a criteri puramente familistici e correntizi, a limiti strutturali irrisolti da decenni per pure logiche di potere etc., ma agli avvocati.

Rassicurante e pacificante asserzione autoassolutoria, quest’ultima, in base alla quale l’avvocatura è pubblicamente divenuta la malattia da curare, il “cancro” (vedi sopra) da estirpare per poter rivedere la luce in fondo al tunnel.

E se ne è, quindi, cominciata la relativa destrutturazione: abrogazione delle tariffe e conseguente liberalizzazione del mercato senza adeguati correttivi capaci di evitare le conseguenze aberranti cui abbiamo assistito; progressivo radicamento o introduzione ex novo di figure di avvocato (gli avvocati-giudici; gli avvocati-mediatori; gli avvocati-negoziatori; gli avvocati-banditori d’aste immobiliari per fare qualche esempio) fondamentalmente alternative sia tra loro, sia rispetto alla matrice originaria; la continua creazione di nuovi oneri professionali (crediti formativi,  processo telematico, assicurazione professionale, preventivo scritto obbligatorio e  molti altri); l’introduzione, infine, di strumenti non adeguatamente condivisi, quali le società di capitali, che una parte degli avvocati ritiene addirittura incompatibile con lo spirito stesso della professione forense, etc.

Insomma una vera e propria rivoluzione che, va subito detto, non ha di per sé, valore negativo, ma racchiude i segni del proprio peccato originale consistente nell’aver svolto la funzione politica di uno specchietto per le allodole: distrarre l’attenzione pubblica da ciò che la meritava (e la merita) davvero. Nonché quello di essersi sviluppata in modo del tutto scoordinato rispetto ai tre fattori chiave propri del settore sul quale andava ad incidere: il carattere economico del sistema giustizia, il ruolo dell’avvocato e la realtà economica e professionale dell’avvocatura.

La giustizia come sistema economico

Se si vuole approcciare il sistema giustizia in una prospettiva di tipo economico, come da anni ci viene raccontato dai vari riformatori alternatisi dal 1990 ai giorni nostri nelle centinaia di interventi che si sono succeduti, occorre allora necessariamente ragionare in termini di domanda e di offerta, oltre che di costi e ricavi.

Vero ciò, la considerazione che viene spontanea ripercorrendo mentalmente quanto accaduto negli ultimi venti anni circa, si appunta sulla mancanza di qualsiasi riflessione circa l’incremento della domanda di giustizia manifestatosi nel corso del tempo, sbrigativamente addossato all’aumento del numero degli avvocati, secondo la logica che ha ispirato il percorso “sacrificale” di cui sopra.

D’altro canto, la risposta principale a tale aumento di domanda si è articolata (se si fa valore assoluto per alcuni recenti interventi),  non in un’attività di razionalizzazione/miglioramento/aumento dell’offerta onde farvi fronte – come ci si sarebbe aspettato da qualsiasi sistema economico – ma in politiche finalizzate a scoraggiarla attraverso l’introduzione di balzelli e costi.

Ora, prendendo a prestito alcune espressioni lette ed ascoltate in questi mesi da altri colleghi che si sono espressi sul tema, poiché nessuno penserebbe seriamente di addossare la responsabilità di un aumento delle precipitazioni piovose all’elevato numero di ombrelli presenti sul mercato, così come a nessuno verrebbe seriamente in mente di affrontare l’aumento del traffico autostradale semplicemente aumentando il costo del pedaggio all’ingresso, se si vuole approcciare davvero il problema in esame è giocoforza valutare vie diverse da quelle sin qui seguite.

Una di queste consiste nel considerare che in ogni sistema economico che si rispetti all’aumento di domanda si risponde, non contraendo l’offerta (riduzione del numero dei tribunali, ad esempio), o scoraggiando la richiesta (mediazioni obbligatorie, aumento dei costi), ma aumentando proficuamente le risorse umane e strutturali destinate a farvi adeguatamente fronte: non si vede, dunque, perché ciò non dovrebbe accadere anche nel settore della giustizia, considerato, beninteso, come sistema economico, ovverosia al netto delle implicazioni di valore che esso coinvolge.

L’obiezione che ciò scaricherebbe sulla collettività un aumento di costi inaccettabile – che è un must dei colletti bianchi a questo punto della discussione sul tema in esame – è, a ben guardare, contraddetta dalle stesse premesse del ragionamento di chi vi ricorre.

Se, infatti, le carenze funzionali del sistema giustizia (e, dunque, i malcapitati avvocati) sono davvero la causa del mancato ingresso di capitali stranieri nel nostro paese, come ci è stato e ci viene raccontato, allora l’incremento di offerta di giustizia, producendo le condizioni ottimali di soddisfazione della domanda di essa, determinerà l’ingresso nel nostro paese di tali desiderati capitali di investimento. Di qui un corrispondente aumento di PIL, destinato a compensare i maggiori costi implicati dagli interventi strutturali necessari ad innescare il circolo virtuoso in parola.

Perseguire (e mantenere) un equilibro tale che l’incremento di costi sopportato dalla collettività per migliorare l’offerta di giustizia sia eguagliato o superato dall’incremento di investimenti esteri in termini di PIL, spetta a chi ha le competenze per farlo, ma il meccanismo deve funzionare necessariamente, giacché altrimenti ne sarebbe falsa la premessa.

Se, infatti, un modello perfetto di giustizia, capace, al limite, di soddisfare qualsiasi domanda in tempi adeguati, non fosse capace di alimentare un flusso virtuoso di investimenti esteri idoneo ad autofinanziare lo sforzo economico necessario a creare il modello stesso, vorrebbe dire che non è vero che il mancato o ridotto flusso di investimenti esteri in questione è dovuto alle lentezze del sistema giudiziario (i.e., nell’immaginario collettivo indotto, al’avvocatura), dovendo imputarsi all’insieme di ben altri fattori, cosa che, peraltro, il sottoscritto crede da molto tempo.

Il ruolo dell’avvocato

Veniamo al secondo dei fattori che si sono sopra accennati e di cui è stata fatta poca o nessuna considerazione nell’approcciare gli interventi sistemici di cui stiamo parlando.

L’avvocato italiano (e a dire la verità non solo italiano) ha negli anni sviluppato la propria attività in una molteplicità di ruoli che lo hanno allontanato dall’originaria (e a parere di chi scrive principale) essenza di difensore dei diritti di uno o più soggetti determinati: quale litigator, in giudizio, o consultant, anche prima di esso, ma sempre come difensore dei diritti.

Oggi, ad esempio, vi sono avvocati che – spesso in via pressoché esclusiva –  svolgono funzioni di supplenza giurisdizionale, quali giudici onorari: essi hanno il titolo di avvocati, ma quali giudici non difendono, per definizione, diritti di uno o più soggetti determinati.

Ancora, neppure gli avvocati che si occupano di mediaconciliazione, attraverso i numerosissimi sportelli a ciò deputati e nelle numerose forme di esplicazione di tale istituto difendono diritti nel senso di cui sopra.

Ancora, hanno il titolo certamente di avvocati i numerosi colleghi specializzati in vendite immobiliari, amministrazioni di condominio, componenti di organismi di composizione della crisi, etc., ma anche essi non svolgono, in tali rispettive vesti, la funzione difensiva.

In un quadro disaggregato come quello che si è appena trattato, e che si potrebbe continuare a delineare aggiungendo le nuove frontiere professionali aperte, ad esempio, dall’avvento dell’informatica e, oggi, dalle società di capitali, dalle reti, dalle associazioni multiprofessionali,  oltre che da tutta la tematica degli avvocati, in senso lato, “dipendenti” etc., vale la pena porsi una domanda: ha un senso, oggi, parlare ancora di “avvocatura” al singolare, o non dovrebbe, invece, parlarsi di “avvocature”, al plurale, unificate dalla necessità di ottenere un titolo legale di studi universitari e da quella di superare proficuamente un esame di abilitazione, ma alquanto distinte nell’esplicazione delle relative funzioni e, soprattutto, portatrici di esigenze di “politica” professionale completamente diverse tra loro?

Siamo proprio sicuri, cioè, che l’avvocato dedito alla funzione di giudice onorario sia interessato alle tematiche delle società di capitali al pari di un collega del libero Foro? O che quest’ultimo condivida, dal canto suo, l’anelito ad un trattamento economico previdenziale dignitoso per cui il primo appassionatamente si batte?

Siamo certi che l’avvocato che si sia dedicato anima e corpo alla media-conciliazione sia poi disposto a condividere le perplessità che parte dell’avvocatura “litigante” ha manifestato e manifesta circa la legittimità e l’effettiva utilità dell’istituto?

E via almanaccando, per giungere alla madre di tutte le domande: siamo sicuri che un sistema che unifica tutte le “avvocature” sotto la stessa egida sia effettivamente vincente, o, invece, rischi, per far gli interessi di tutti, di fare solo quelli di alcuni, a seconda degli equilibri del momento, ovvero nello scontentare ciascuno, come spesso accade in situazioni consimili?

La realtà economico/professionale dell’avvocatura

Il terzo e ultimo punto è, quantomeno a parere di chi scrive, quello cruciale.

A prescindere da quanto si è detto sino ad ora, infatti, appare innegabile un dato: l’avvocatura italiana ha subito in questi anni un processo di progressivo depauperamento economico, ma anche culturale (tutti noi, credo, lo abbiamo sperimentato), senza pari, parallelamente ad un incremento, analogamente senza pari, del numero degli iscritti.

Non vale la pena dilungarsi su dati che sono a disposizione di tutti: 48.000 avvocati circa iscritti agli albi nell’anno 1985, 83.000 circa nell’anno 1995, 168.000 circa nell’anno 2005 e 237.000 circa nell’anno 2015, con quanto ne segue, anche in termini di paragone con gli altri paesi europei, dove il numero complessivo di avvocati è di gran lunga inferiore sia numericamente in termini assoluti, sia in rapporto con il numero degli abitanti.

Il che ha determinato lo sconquasso epocale cui siamo tutti di fronte e di cui, va detto, siamo tutti un poco responsabili, visto che si è verificato dinanzi ai nostri occhi.

Ma questo è tutto un altro discorso che porterebbe lontano dal punto odierno che è il seguente: i duecento e trentamila iscritti agli albi circa che connotano in modo tanto negativo i dati statistici ed economici aggregati ogni qual volta si parla di avvocatura sono tutti avvocati tout court, oppure sono soggetti che svolgono attività tra loro differenti e sono portatori di esigenze differenti?

E se, in funzione di quanto sopra si è detto, essi sono soggetti differenti, ha ancora un senso che siano unificati nella rappresentanza, nella qualifica, nella capacità operativa e, da ultimo, nella considerazione del legislatore che interviene a regolamentarne gli interessi?

E come potrà, ancora, risultare adeguata una risposta politica alle esigenze poste dall’avvocatura (e dai cittadini che ad essa si rivolgono), se il legislatore interviene sul ribollente melting pot di cui sopra come se tutte le parti che ribollono fossero tra esse eguali, senza che esse in effetti lo siano?

Si risponderà che le esigenze sono le stesse in quanto ogni avvocato è libero di esercitare contemporaneamente, sia pure con alcune limitazioni, più di una attività, ivi comprese quella forense in senso stretto. Ma, di fronte a tale legittima obiezione, la domanda diventa: è davvero giusto che sia così? O bisognerebbe prendere atto che electa una via quella occorre seguire e non altre, mettendo le proprie capacità al servizio effettivo dello scopo cui sono indirizzate e valorizzando le proprie esigenze secondo uno schema chiaro e non promiscuo, quale quello utilizzato sino ad ora che non ha portato, e non sembra portare, da nessuna parte?

Dunque?

Tirando le fila del ragionamento, dunque, a chi scrive pare che un qualsiasi intervento in tema di Avvocatura e di Giustizia (il che, cerchiamo di non dimenticarlo mai, è lo stesso), che non tenga presente la necessità di articolare una struttura operativa di uomini e mezzi più complessa ed efficiente, da un lato, e che non faccia adeguata considerazione dell’obiettiva disarticolazione verificatasi in seno a quella che solo descrittivamente può essere oggi categorizzata come “avvocatura”, dall’altro, è destinata a non sortire gli effetti sperati.

Ciò tanto più ora, quando il tema delle neo introdotte società di capitali apre frontiere operative prima inimmaginabili e quando lo sguardo rivolto al futuro (più prossimo di quanto non immaginiamo) lascia intravvedere gli scenari della robotica giuridica, capaci di mettere in discussione lo stesso intervento del giurista “umano”, quantomeno nelle sue forme più basilari.

Essere all’altezza di questa nuova sfida, diventare protagonisti culturali e attivi dell’immaginario “scacco matto” con cui si è aperta questa riflessione impone davvero un enorme ripensamento di ruoli e metodi, e, in definitiva, dipende solamente da noi.

Buon lavoro a tutti.

Documenti & materiali

Giustizia, il ministro Cancellieri “Le grandi lobby frenano le riforme”
Fuorionda di Cancellieri sugli avvocati: “Vado, così ce li togliamo dai piedi”
Davide Serra: “Vendere i palazzi del potere in centro. I politici in periferia. Gli avvocati? Troppi, come un cancro”
I numeri dell’avvocatura – anno 2015 a cura di Cassa Forense

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Author: Avv. Luca Lucenti

Avvocato, nato a Pesaro il 20 ottobre 1961. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 1991. Abilitato al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori dal 2004. Responsabile di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833

One thought on “Avvocati: scacco matto

  1. CECIARINI MASSIMO

    Bravo collega, condivido. Sono anni che vado anch’io dicendo che la nostra professione si è asservita alle esigenze dei c.d. Poteri Forti e delle Multinazionali, Banche e Assicurazioni in nome di una malintesa concorrenza che svilisce il nostro ruolo ed imponendoci ora di fare un preventivo scritto, come gli idraulici e gli elettricisti (con tutto il rispetto per questi) e come se non esistessero Tabelle Ufficiali (non dico Tariffe perché ….superate). E così il cliente, col mio preventivo in mano, andrà da altri colleghi che (salvo sussulti di correttezza, sempre più rari) gli faranno 100 euro in meno e addio cliente! Ma dove erano, dove sono le tanto strombazzate Associazioni anche istituzionali a difesa della dignità e decoro dell’Avvocatura?
    Avv. Massimo CECIARINI GROSSETO

    Reply

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