Impresa familiare ex art. 230 bis C.C.: si applica anche alle società? Le S.U. della Cassazione risolvono un contrasto giurisprudenziale


Si segnala un’importante pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza Cass. Civ.,S.U.,06/11/2014, n. 23676), passata, forse, un po’ sotto silenzio, ma invece decisiva nell’ambito dei rapporti familiari, di natura economica.

Come noto, con la riforma del diritto di famiglia (L. 19/5/1975 n. 151), è stato introdotto l’istituto dell’impresa familiare. Precisamente, il legislatore del 1975 ha introdotto la regolamentazione di tutti quei rapporti di collaborazione che si svolgevano nell’ambito familiare e che, di solito, non corrispondevano ad alcuna gratificazione economica, poiché, prima della suddetta riforma, vigeva pacificamente il principio della presunzione di gratuità delle prestazioni rese nel contesto familiare.

L’art. 230 bis C.C.

Modificando, in modo radicale l’assetto previgente, il legislatore del 1975 con la riforma del diritto di famiglia, ha introdotto l’art. 230 bis, C.C. secondo il quale testualmente (1° comma):

«Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonchè agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato»

Dunque, viene codificato il diritto a vedere riconosciuto economicamente il contributo lavorativo prestato in favore dell’impresa familiare.

Quali sono i diritti ex art. 230 bis C.C.?

Secondo la norma sopra richiamata, il familiare che collabora, in primo luogo, ha diritto al mantenimento secondo le condizioni patrimoniali della famiglia; ha diritto di partecipare agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con gli utili medesimi; così come ha diritto di partecipare agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento; tutto ciò, naturalmente, dovrà essere proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato.

Chi sono i ‘familiari’ titolari di diritti ex art. 230 bis C.C.?

Va precisato che non ogni persona che presta la propria attività lavorativa in favore dell’impresa familiare, ha diritto ad un compenso (adeguato alla quantità ed alla qualità del contributo lavorativo prestato) ma solo quelli espressamente indicati nel citato art. 230 bis C.C. e precisamente (3° comma):

«Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado; gli affini entro il secondo»

Quante volte, dunque un coniuge, oppure un figlio/a, oppure una nuora (o un genero), (e via di seguito), si trovano a collaborare nell’impresa di famiglia (un albergo, o una semplice tabaccheria, un bar, un negozio, etc), senza sapere che quella prestazione lavorativa ha diritto di essere retribuita. In verità accade molto più spesso di quanto non si possa pensare. Salvo, naturalmente, che vi sia un accordo di gratuità della prestazione.

L’impresa familiare e le società

Uno dei problemi più controversi su questo tema è l’applicabilità o meno all’assetto societario. Cioè ci si è chiesti se l’istituto dell’impresa famigliare può applicarsi anche quando la struttura dell’impresa non quella individuale, ma societaria (di persone, o di capitali).

La pronuncia delle S.U. n. 23676/2014 

Ebbene, con la pronuncia che qui si segnala, le Sezioni Unite affrontano e risolvono questo dilemma che ha tenuto impegnata la giurisprudenza per molto tempo e che ha generato diversi orientamenti in contrasto tra loro.

Il caso

La fattispecie da cui nasce la sentenza in questione è quella di un uomo che, dopo aver collaborato nella gestione di un bar in quel di Torino, insieme alla sorella ed ai di lei figlioli, cessava ogni tipo di collaborazione lavorativa allorchè gli veniva rifiutato l’ingresso nella società sas dai medesimi costituita.

In primo grado, il Tribunale, in accoglimento del ricorso, accertava la sussistenza di un’impresa familiare e condannava la sorella al pagamento della somma di € 22.356,43 a titolo di partecipazione agli utili e di € 47.500,00 quale incremento di valore dell’azienda (oltre accessori).

In secondo grado, invece, la Corte d’Appello, ribaltava l’esito del giudizio annullando la condanna e rappresentando che l’impresa familiare non poteva ipotizzarsi in favore di una società, ma solo in favore di un’impresa individuale, e, dunque, concludendo per l’inapplicabilità dell’art. 230 bis C.C. all’ambito societario.

Quest’ultima decisione veniva impugnata avanti alla Cassazione e la Sezione Lavoro, alla quale era stata assegnata, lo rimetteva alle S.U., ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla compatibilità dell’impresa familiare con la forma societaria.

La decisione delle S.U.

Con la citata sentenza n. 23676/2014, le Sezioni Unite fanno derivare l’esistenza del contrasto giurisprudenziale e delle incertezze ermeneutiche,  «dalla mancata previsione testuale, nell’art. 230 bis cod. civile, dell’esercizio in forma societaria di un’impresa familiare».

La Suprema Corte sostiene che il silenzio della norma sulla forma alternativa dell’imprenditore collettivo si palesa di non univoca lettura, dando luogo, oggettivamente, al dubbio se esso corrisponda ad una deliberata mens legis, o non sia piuttosto il portato di un’enunciazione sintetica secondo cui «la ripetizione logora la forza persuasiva dei messaggi».

Successivamente, dopo avere riassunto le linee principali del contrasto esegetico in atto in sede giurisprudenziale, la Suprema Corte conclude ritenendo l’incompatibilità dell’impresa familiare con la disciplina delle società.

Più in dettaglio, la Suprema Corte ritiene che l’art. 230 bis C.C. non possa applicarsi all’assetto societario, perchè testualmente:

«ciò che davvero si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonchè agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell’impresa: e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. E se è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di società di persone […] nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, “durante societate“».

Le rilevanti precisazioni delle S.U.

In sintesi, quindi, le S.U concludono escludendo l’applicabilità dell’art. 230 bis C.C. all’impresa esercitata in forma societaria. Tuttavia, malgrado questa decisione, le S.U. si preoccupano di fare alcune precisazioni piuttosto importanti quali ad esempio che:

«non per questo, dall’eventuale inconfigurabilità di un rapporto contrattuale tipico deriverebbe assoluto vuoto di tutela del lavoro prestato dal familiare del socio (quando non connotato da mera affectionis vel benevolentiae causa), in contrasto con l’intenzione del legislatore ed in sospetto di incostituzionalità: restando applicabile, in ultima analisi, il rimedio sussidiario, di chiusura, dell’arricchimento senza causa (art. 2041 cod. civ.)».

Altra precisazione importante che si preoccupare di fare la Suprema Corte con la sentenza in parola, è la caducazione della presunzione di gratuità delle prestazioni rese nel contesto familiare, principio generalmente seguito prima della riforma in diritto di famiglia (e che, per la verità,  qualcuno continua ancora a sostenere).

Testualmente:

«anche se è venuto meno l’argomento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese nel contesto familiare – costantemente affermata prima della riforma del 1975 – deve restare fermo, infatti, il principio che l’estensione della tutela non può essere stabilita a priori, bensì vada ricostruita per la via interpretativa nel rigoroso rispetto della norma positiva, nell’integralità del suo enunciato, senza arbitrarie manipolazioni».

Documenti & materiali 

Scarica il testo della Cass. Civ.,_S.U.,_06/11/2014, n. 23676

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Author: Avv. Daniela Gattoni

Avvocato, nata a Pesaro il 20 agosto 1963. Iscritto all’Albo degli Avvocati di Pesaro dal 1992. Abilitata al patrocinio dinanzi alle magistrature superiori dal 2004. Autrice e componente della redazione. Cura, in particolare, la sezione famiglia di Ragionando_weblog - ISSN 2464-8833.

One thought on “Impresa familiare ex art. 230 bis C.C.: si applica anche alle società? Le S.U. della Cassazione risolvono un contrasto giurisprudenziale

  1. Simba

    Decisamente l’articolo più chiaro ed esaustivo trovato in rete. Grazie

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