Fai troppo shopping? Ti addebito la separazione


Da oggi molti mariti potranno così apostrofare le proprie mogli ed, a suggerire il monito non è l’esperto del momento che occupa i noti salotti televisivi, ma la Corte di Cassazione.

La Suprema Corte, infatti, con la sentenza n. 25843 pubblicata il 19/11/2013   ha addebitato alla moglie la separazione dal marito, in quanto risultata affetta da ‘shopping compulsivo’, negandole di conseguenza l’assegno di mantenimento.

Il risultato, ovviamente, non è cosi automatico come di primo acchito potrebbe sembrare. Vediamo.

Il fatto

All’interno di un giudizio di separazione giudiziale il Tribunale di Pisa in primo grado respingeva le reciproche richieste di addebito della separazione avanzate dai coniugi e condannava il marito a corrispondere alla moglie l’assegno di mantenimento nella misura di € 2.000,00 mensili. La decisione veniva ribaltata dalla Corte di Appello di Firenze che in accoglimento dell’appello proposto dal marito pronunciava l’addebito della separazione nei confronti della moglie, escludeva di conseguenza l’obbligo del marito di corrispondere alla ex compagna l’assegno di mantenimento posto in precedenza a suo carico e, da ultimo, condannava la donna alla rifusione delle spese legali di entrambi i gradi di giudizio.

Le ragioni del ribaltamento del decisum operato dalla Corte di Appello devono ravvisarsi nel peso attribuito dal medesimo giudice di secondo grado a quanto emerso dalla consulenza tecnica d’ufficio volta ad accertare le condizioni psichiche della donna, con particolare riferimento alla «sussistenza di una patologia attinente all’uso incontrollato del denaro per effettuare ossessivamente acquisti di beni mobili».  Il consulente incaricato, infatti, all’esito delle proprie verifiche, aveva diagnosticato in capo alla donna la sussistenza della sindrome da acquisto compulsivo definendola come un «impulso irrefrenabile ed immediato ad acquistare e da una tensione crescente alleviata soltanto acquistando beni mobili».

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione successivamente investita della questione su ricorso della moglie ha confermato in toto la decisione del giudice di secondo grado non ritenendo viziata la pronuncia impugnata in ragione della riscontrata coerenza dell’iter logico seguito dalla Corte di Appello nella motivazione posta a sostegno della propria decisione. In particolare nel contesto della pronuncia impugnata veniva attribuito fondamentale rilievo alle risultanze peritali ove emergeva che il consulente aveva verificato «l’utilizzo [da parte della donna] di denaro sottratto ai familiari ed a terzi per soddisfare la propria esigenza di effettuare acquisti sempre più frequenti e dispendiosi di beni mobili, quali vestiti, borse, gioielli, spendendo somme di volta in volta più ingenti».

Le ragioni della conferma dell’addebito

Al di là della nota di colore propria della fattispecie in questione, che sicuramente a prima vista colpisce, la vicenda in realtà è molto più complessa di quanto possa sembrare.

Infatti, se da un lato la Corte associa alla conclamata diagnosi di ‘shopping compulsivo’ la pronuncia di addebito della separazione, in considerazione del fatto che i comportamenti dettati dal disturbo in questione costituiscano violazione dei doveri coniugali ex art. 143 c.c., dall’altro rifugge dalla possibilità che il principio espresso possa essere oggetto di applicazioni automatiche e riduttive.

Nel contesto della motivazione della sentenza in esame la Corte pare individuare precisi requisiti per pervenire al risultato anzidetto.

In primo luogo occorre accertare che i comportamenti posti in essere dal coniuge cui sia stato diagnosticato il disturbo costituiscano violazione dei doveri matrimoniali (art. 143 c.c.).

In secondo luogo il comportamento lesivo accertato e tenuto dal coniuge deve poter essere a questi imputabile. Occorre, cioè, verificare che la sussistenza del disturbo della personalità, quale nella specie lo ‘shopping compulsivo’, non abbia inficiato le facoltà mentali della persona. Diversamente, infatti, verrebbe meno il requisito dell’imputabilità e di conseguenza si verificherebbe una sostanziale perdita di rilevanza del disturbo.
Nella vicenda in questione la donna veniva descritta dall’esperto come lucida e ben orientata, adeguata nel comportamento e disponibile ai colloqui, capace di intendere e di volere ed affetta «soltanto da un impulsivo compulsivo all’acquisto, sicuro disturbo della personalità».
In virtù di tali valutazioni effettuate dal consulente, la Corte d’Appello prima, e la Cassazione poi, hanno ritenuto che la pur riscontrata sussistenza della patologia non determinasse l’esclusione dell’imputabilità in capo alla donna.

Da ultimo, ma non certo per importanza, la Suprema Corte ha ribadito che per aversi pronuncia di addebito della separazione nei confronti di uno dei coniugi, l’altro ha l’onere di dimostrare la sussistenza del nesso causale tra il comportamento lesivo dei doveri coniugali e la conseguente intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
Nel caso in esame tale aspetto, non essendo stato oggetto di specifica ed adeguata censura, non è stato sottoposto al sindacato della Corte, ma è stato dalla stessa comunque  richiamato: con il che pare ragionevole ritenere che la mera diagnosi del disturbo compulsivo non possa essa sola portare alla pronuncia di addebito della separazione in assenza di alcuna verifica circa l’incidenza causale che il disturbo stesso possa avere avuto sulla dedotta intollerabilità della convivenza.

In conclusione

Insomma i mariti potranno continuare a lamentarsi degli eccessivi e dispendiosi acquisti fatti dalle proprie mogli, ma per poter un giorno richiedere loro l’addebito della separazione, dovranno esporre (ma soprattutto dimostrare) parecchio di più dell’inclinazione all’acquisto ‘facile’.

Documenti & materiali

Scarica Cass. Civ., Sez. I, 19/11/2013, n. 25843

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.